Con la crisi del 'modello Europa' stanno acquisendo spazi e credibilità partiti e movimenti populistici di destra. Derive identitarie e xenofobe si presentano come 'antisistema' rispetto alle politiche iperliberiste, tanto da riuscire a catturare anche il voto operaio. Un'anticipazione di Micromega
Alla stregua di altrettanti segnali di pericolo seminati lungo il percorso della democrazia europea, i movimenti populisti, xenofobi e di estrema destra sono emersi nell'arco degli ultimi vent'anni evidenziando la trasformazione delle forme della rappresentanza politica ma anche la profonda crisi sociale che attraversava l'Europa. Prima dello scoppio della bolla finanziaria internazionale e della fase drammatica attraversata ora dalla zona euro, c'erano state l'avvio del processo di deindustrializzazione, le rapide trasformazioni produttive e l'avvento della globalizzazione: tutte tappe di un cambio d'epoca che ha lasciato dietro di sé molte vittime e che ha innescato anche una vera e propria crisi di senso nella società europea, di cui le derive identitarie e xenofobe non hanno rappresentato che la punta più estrema e visibile di difficoltà e timori molto più profondi.
Ma se già nella prima metà degli anni Novanta una nuova estrema destra si candidava a interpretare umori, preoccupazioni e identità sociali frutto del cambiamento in corso, cosa potrà accadere ora, di fronte alla crisi economica più grave dai tempi del crollo delle Borse del 1929? Uno scenario è già visibile, l'altro si va delineando ogni giorno di più dinanzi ai nostri occhi. In questi vent'anni le nuove destre - perché malgrado l'esempio greco del partito neonazista Chryssi Avghi, Alba dorata - la tendenza dominante non è segnata dal riemergere di gruppi o partiti «nostalgici», quanto piuttosto dallo sviluppo di forze nuove o dall'evoluzione in senso innovativo di vecchie formazioni radicali - hanno acquisito spazio e talvolta perfino credibilità, hanno dapprima svolto un ruolo «antisistema» nei confronti dei partiti e degli equilibri politici tradizionali, per finire poi talvolta col partecipare addirittura ad esperienze di governo dirette o indirette. Il populismo di destra ha finito così per dettare almeno in parte l'agenda politica generale su temi quali l'immigrazione e la sicurezza, le politiche urbane e quelle relative all'accoglienza. Il fenomeno che era stato all'inizio descritto come emergenziale e passeggero ha finito per mettere radici e i «partiti della protesta» sono talvolta entrati nella stanza dei bottoni o hanno, in ogni caso, finito per condizionare le scelte di chi vi aveva fatto ingresso.
Se questo è lo scenario del recente passato e questo il processo di progressiva «normalizzazione» cui si è assistito, il quesito cui ci si deve confrontare oggi riguarda inevitabilmente il futuro. Un futuro reso sempre più prossimo dai tempi della crisi che rischiano di far precipitare nello spazio di poche settimane, se non di pochi giorni, equilibri e costruzioni politiche in apparenza stabili e consolidati. La bancarotta finanziaria che minaccia l'Europa, e che già oggi lascia intravedere il rischio di una sorta di quotidiana bancarotta sociale, può offrire molte chance a movimenti e partiti politici che definiscono da sempre il proprio profilo all'insegna della crisi: una crisi da cui uscire restaurando gerarchie sociali definite in base alla cultura, alla lingua, alla religione, o grazie all'avvento di una palingenesi che rinnovi la società fin dalle sue fondamenta identitarie, o, ancora, all'idea che dalla crisi si possa scegliere a tavolino chi si salverà e chi no.
Mai come ora l'ipotesi di un'uscita da destra dalla crisi è stata possibile, o perlomeno è apparsa credibile a milioni e milioni di europei che hanno scelto di farsi rappresentare da questo tipo di forze populiste. Mai come ora la mappa politica dell'Europa è apparsa dominata dalla medesima soluzione cromatica e dall'esistenza, pur tra mille differenze e contraddizioni talvolta insanabili al proprio interno, di un fenomeno che affonda nelle stesse radici: paura, incertezza, rancore, talvolta vero e proprio odio.
Come ha segnalato Béatrice Giblin introducendo un recente numero della rivista Hérodote dedicato alle nuove destre europee, oltre alle specificità nazionali e ai diversi accenti ideologici che caratterizzano le formazioni populiste e radicali di questo tipo, si possono infatti individuare alcune comuni tematiche di fondo verso cui si cerca di indirizzare il malessere dei cittadini: «L'immigrazione musulmana, la globalizzazione, a cui vengono associati la deindustrializzazione e la crescita della disoccupazione, le politiche dell'Unione europea, accusata di essere responsabile dell'abbandono della sovranità nazionale sulla moneta e della crisi finanziaria del Vecchio Continente degli ultimi due anni». Una proposta politica che evidentemente si indirizza soprattutto verso i settori più deboli della società, specie il mondo del lavoro dipendente e degli operai, che hanno già pagato un prezzo altissimo alla ristrutturazione produttiva degli ultimi anni e che guardano al futuro con crescente incertezza. Non è un caso che la nuova destra raccolga oggi un po' in tutta Europa la maggioranza del voto operaio e che i suoi leader, come aveva annunciato già all'inizio degli anni Novanta il filosofo Alain Bihr, nel suo libro Pour en finir avec le Front national, «sognino di ricomporre sotto le loro bandiere un movimento operaio ormai privo di punti di riferimento e di consapevolezza di sé».
Ma se già nella prima metà degli anni Novanta una nuova estrema destra si candidava a interpretare umori, preoccupazioni e identità sociali frutto del cambiamento in corso, cosa potrà accadere ora, di fronte alla crisi economica più grave dai tempi del crollo delle Borse del 1929? Uno scenario è già visibile, l'altro si va delineando ogni giorno di più dinanzi ai nostri occhi. In questi vent'anni le nuove destre - perché malgrado l'esempio greco del partito neonazista Chryssi Avghi, Alba dorata - la tendenza dominante non è segnata dal riemergere di gruppi o partiti «nostalgici», quanto piuttosto dallo sviluppo di forze nuove o dall'evoluzione in senso innovativo di vecchie formazioni radicali - hanno acquisito spazio e talvolta perfino credibilità, hanno dapprima svolto un ruolo «antisistema» nei confronti dei partiti e degli equilibri politici tradizionali, per finire poi talvolta col partecipare addirittura ad esperienze di governo dirette o indirette. Il populismo di destra ha finito così per dettare almeno in parte l'agenda politica generale su temi quali l'immigrazione e la sicurezza, le politiche urbane e quelle relative all'accoglienza. Il fenomeno che era stato all'inizio descritto come emergenziale e passeggero ha finito per mettere radici e i «partiti della protesta» sono talvolta entrati nella stanza dei bottoni o hanno, in ogni caso, finito per condizionare le scelte di chi vi aveva fatto ingresso.
Se questo è lo scenario del recente passato e questo il processo di progressiva «normalizzazione» cui si è assistito, il quesito cui ci si deve confrontare oggi riguarda inevitabilmente il futuro. Un futuro reso sempre più prossimo dai tempi della crisi che rischiano di far precipitare nello spazio di poche settimane, se non di pochi giorni, equilibri e costruzioni politiche in apparenza stabili e consolidati. La bancarotta finanziaria che minaccia l'Europa, e che già oggi lascia intravedere il rischio di una sorta di quotidiana bancarotta sociale, può offrire molte chance a movimenti e partiti politici che definiscono da sempre il proprio profilo all'insegna della crisi: una crisi da cui uscire restaurando gerarchie sociali definite in base alla cultura, alla lingua, alla religione, o grazie all'avvento di una palingenesi che rinnovi la società fin dalle sue fondamenta identitarie, o, ancora, all'idea che dalla crisi si possa scegliere a tavolino chi si salverà e chi no.
Mai come ora l'ipotesi di un'uscita da destra dalla crisi è stata possibile, o perlomeno è apparsa credibile a milioni e milioni di europei che hanno scelto di farsi rappresentare da questo tipo di forze populiste. Mai come ora la mappa politica dell'Europa è apparsa dominata dalla medesima soluzione cromatica e dall'esistenza, pur tra mille differenze e contraddizioni talvolta insanabili al proprio interno, di un fenomeno che affonda nelle stesse radici: paura, incertezza, rancore, talvolta vero e proprio odio.
Come ha segnalato Béatrice Giblin introducendo un recente numero della rivista Hérodote dedicato alle nuove destre europee, oltre alle specificità nazionali e ai diversi accenti ideologici che caratterizzano le formazioni populiste e radicali di questo tipo, si possono infatti individuare alcune comuni tematiche di fondo verso cui si cerca di indirizzare il malessere dei cittadini: «L'immigrazione musulmana, la globalizzazione, a cui vengono associati la deindustrializzazione e la crescita della disoccupazione, le politiche dell'Unione europea, accusata di essere responsabile dell'abbandono della sovranità nazionale sulla moneta e della crisi finanziaria del Vecchio Continente degli ultimi due anni». Una proposta politica che evidentemente si indirizza soprattutto verso i settori più deboli della società, specie il mondo del lavoro dipendente e degli operai, che hanno già pagato un prezzo altissimo alla ristrutturazione produttiva degli ultimi anni e che guardano al futuro con crescente incertezza. Non è un caso che la nuova destra raccolga oggi un po' in tutta Europa la maggioranza del voto operaio e che i suoi leader, come aveva annunciato già all'inizio degli anni Novanta il filosofo Alain Bihr, nel suo libro Pour en finir avec le Front national, «sognino di ricomporre sotto le loro bandiere un movimento operaio ormai privo di punti di riferimento e di consapevolezza di sé».
Nessun commento:
Posta un commento