Dalla fine del Novecento l'Europa dei partiti non sembra più capace di produrre autentici capi politici, leader degni del nome (ne sa qualcosa la Grecia, che in queste ore sta decidendo del suo destino; e non solo del suo). È ormai solo un ricordo, infatti, l'epoca dei Mitterrand, dei Kohl, dei Gonzalez: uomini dotati di chiarezza di visione e di fiducia in se stessi, di capacità di comando e di convinzione. E così, proprio quando l'equilibrio europeo e l'intera costruzione dell'Unione si trovano ad affrontare la loro maggiore crisi, essi si trovano a doverlo fare senza guida.
L'assenza di figure di capi politici è tra i sintomi più evidenti dell'affievolimento-crisi della sfera politica europea come effetto della perdita di sovranità da parte degli Stati. Quando, infatti, una parte sempre maggiore delle cose che più contano, e che prima erano nelle mani della politica e perciò degli elettori, vengono invece a essere determinate ora dalla globalizzazione o dai mercati finanziari, ovvero decise dalle burocrazie «unioniste» di Bruxelles, o comunque sottoposte al placet di istanze collettive («vertici» vari, G8, G20 o quello che siano) - e sempre più o meno supinamente accettate dai governi - allora è inevitabile che la politica nazionale perda insieme al senso di sé anche ogni capacità di affermarsi per ciò che da sempre essa è: vale a dire l'ambito elettivo del comando pubblico e di coloro che lo esercitano. E dove c'è ben poco da decidere, è difficile che vi sia qualcuno realmente capace di comandare.
La crisi dello strumento partito non appare altro, al dunque, che un effetto di questa crisi della politica come decisione e comando. E non meraviglia che specialmente in Italia i partiti appaiano alle corde e la politica screditata: proprio perché da noi come in pochi altri posti la politica e lo strumento partito hanno svolto un ruolo di comando altrettanto centrale e pervasivo. La portata della loro sfortuna attuale è pari solo alla loro fortuna precedente.
Ma i guai dell'Italia, sebbene in forma accentuata, sono i medesimi delle democrazie europee. Le quali come tutte le società di questo tipo, proprio a causa dell'articolata ampiezza e autonomia dei centri di decisione che è loro caratteristica, necessitano vitalmente un luogo ultimo di coordinamento, di impulso e di comando. Cioè di leader, di un leader: a dispetto delle chiacchiere deprecatorie sulla «personalizzazione» che, soprattutto in Italia, abbiamo tanto sentito ripetere negli ultimi tempi. Tempi nei quali la suddetta personalizzazione - che c'è sempre stata - è apparsa quanto mai deprecabile: ma solo perché riguardava leader che in realtà erano delle mezze cartucce. Mentre quando essa riguarda leader veri, allora, invece, nessuno quasi la nota e tanto meno la depreca: se è vero come è vero che a nessuno verrebbe e - che io sappia - è venuto mai in mente, per esempio, di deprecare il ruolo (a suo modo anch'esso personale e leaderistico) di un Roosevelt o di un De Gasperi (e neppure di un Berlinguer, sia detto tra parentesi).
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