Va beh, prima di tutto facciamo fuori la sciocchezza più sesquipedale: “Il capitale umano” non è un film sulla Brianza, come ha scritto qualcuno. D’altro canto il libro da cui è tratto è ambientato nel Connecticut e lì Serena si chiamava Shannon. Insomma il dubbio che parli un po’ di tutto l’Occidente contemporaneo, e non solo di quello, poteva forse venire pure ai leghisti. Che poi uno scenario di ville miliardarie in collina e teatri di provincia dismessi serva ad ambientare meglio la storia, è tutto un altro discorso: ma si tratta appunto di uno strumento narrativo.
Dopodiché, attenzione però, perché non è nemmeno un film di denuncia contro la finanza selvaggia (tra l’altro, il libro è stato scritto quattro anni prima della crisi dei subprime): anche questa serve soprattutto come appiglio per raccontare l’umanità di oggi, o almeno un pezzo dell’umanità di oggi.
Appunto: “Il capitale umano” è un film esistenzialista.
Che parla cioè del valore dell’esistenza umana, da vivi e da morti. Del valore che sappiamo o non sappiamo dargli, finché siamo in questo mondo e dopo.
È un film che ci avverte su come stiamo agendo – ciascuno di noi, brianzolo o siciliano o norvegese che sia – e ci chiede quanto siamo capaci di guardarci dentro e chiederci: “ma sto facendo la cosa giusta?”, “ma sto facendo la vita giusta per me e per gli altri?”.
È un film sul nostro buttare via il tempo che ci è dato costruendo castelli di ipocrisie (che fallimento totale è il bilancio come attrice, come madre, come moglie, come mecenate e perfino come amante di Carla Bernaschi?); è un film sui vincenti anche loro drammaticamente senza felicità (quanto è cupo e precario il dominio del finanziere anaffettivo interpretato da Gifuni?); è un film sulla dignità perduta (quanta ne manca, cazzo, all’immobiliarista ridens Dino Ossola?); è un film generazionale, nel senso del disastro valoriale trasmesso dalla mia generazione a quella successiva, senza una risposta certa sulle sue possibilità di riscatto morale (le scelte e i destini diversi di Serena, Luca e Massimiliano).
È anche un film politico, forse, ma solo se per politica non si intende scegliere un simbolo alle urne o tifare per il proprio leader del cuore, ma lavorare ogni giorno su noi stessi e su chi ci circonda per dare un senso all’esistenza individuale e collettiva: un senso completamente diverso da quello che ci propone il modello unico fatto di estensione dell’io.
Quanto vale, insomma, la nostra vita?
Virzì ce lo chiede con una ruvidezza che nel finale non è più nemmeno metaforica: diventa la monetizzazione standard delle compagnie di assicurazione basata sull’età, le prospettive di reddito e le relazioni sociali del ciclista ammazzato, lo “sfigato di merda” attorno alla cui morte ruota tutta la vicenda.
Ma “quanto vale davvero la tua vita” è la domanda che uscendo dal cinema ciascuno finisce inevitabilmente per porsi.
E così, forse, alla fine questo è un film che ci aiuta un po’ a fermarci, a riflettere per provare a dare nelle pratiche di ogni giorno valore, appunto, al tempo che ci resta, quello che passiamo con noi stessi e con gli altri.
Dopodiché, attenzione però, perché non è nemmeno un film di denuncia contro la finanza selvaggia (tra l’altro, il libro è stato scritto quattro anni prima della crisi dei subprime): anche questa serve soprattutto come appiglio per raccontare l’umanità di oggi, o almeno un pezzo dell’umanità di oggi.
Appunto: “Il capitale umano” è un film esistenzialista.
Che parla cioè del valore dell’esistenza umana, da vivi e da morti. Del valore che sappiamo o non sappiamo dargli, finché siamo in questo mondo e dopo.
È un film che ci avverte su come stiamo agendo – ciascuno di noi, brianzolo o siciliano o norvegese che sia – e ci chiede quanto siamo capaci di guardarci dentro e chiederci: “ma sto facendo la cosa giusta?”, “ma sto facendo la vita giusta per me e per gli altri?”.
È un film sul nostro buttare via il tempo che ci è dato costruendo castelli di ipocrisie (che fallimento totale è il bilancio come attrice, come madre, come moglie, come mecenate e perfino come amante di Carla Bernaschi?); è un film sui vincenti anche loro drammaticamente senza felicità (quanto è cupo e precario il dominio del finanziere anaffettivo interpretato da Gifuni?); è un film sulla dignità perduta (quanta ne manca, cazzo, all’immobiliarista ridens Dino Ossola?); è un film generazionale, nel senso del disastro valoriale trasmesso dalla mia generazione a quella successiva, senza una risposta certa sulle sue possibilità di riscatto morale (le scelte e i destini diversi di Serena, Luca e Massimiliano).
È anche un film politico, forse, ma solo se per politica non si intende scegliere un simbolo alle urne o tifare per il proprio leader del cuore, ma lavorare ogni giorno su noi stessi e su chi ci circonda per dare un senso all’esistenza individuale e collettiva: un senso completamente diverso da quello che ci propone il modello unico fatto di estensione dell’io.
Quanto vale, insomma, la nostra vita?
Virzì ce lo chiede con una ruvidezza che nel finale non è più nemmeno metaforica: diventa la monetizzazione standard delle compagnie di assicurazione basata sull’età, le prospettive di reddito e le relazioni sociali del ciclista ammazzato, lo “sfigato di merda” attorno alla cui morte ruota tutta la vicenda.
Ma “quanto vale davvero la tua vita” è la domanda che uscendo dal cinema ciascuno finisce inevitabilmente per porsi.
E così, forse, alla fine questo è un film che ci aiuta un po’ a fermarci, a riflettere per provare a dare nelle pratiche di ogni giorno valore, appunto, al tempo che ci resta, quello che passiamo con noi stessi e con gli altri.
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