Voglio subito dire che l’articolo di Stefano Breda mi è piaciuto, nonostante abbia di primo acchito trovato sconcertanti alcune sue proposizioni. Alla fine ho capito che dice sostanzialmente le stesse cose che dico io, seppur in un linguaggio diverso.
“Dominio impersonale” è un bell’ossimoro che esprime poeticamente il senso di oppressione che tutti noi proviamo di fronte a mostri totalizzanti come il “capitale multinazionale”, la “speculazione internazionale”, il “mercato sovrano”, o anche soltanto “l’Europa che ce lo chiede”, e giù giù fino alla classe politica costituitasi in “casta”. Ma dal punto di vista scientifico è un non senso. “Dominio”, “Potere”, “Dipendenza”, sono concetti che definiscono una relazione tra agenti sociali. Ci deve essere qualcuno (individuo o gruppo) che domina e qualcuno che è dominato. Non possono essere usati quali definizioni di agenti sociali, come talvolta Breda sembra fare. Può una relazione essere un soggetto?
Se interpretate in quest’ultimo senso alcune affermazioni di Breda paiono sbalorditive. Cosa sono “le leggi oggettive… che regolano l’azione degli individui e… ne determinano l’agire”? Le leggi pongono dei vincoli alle azioni, non le determinano. Le azioni sono determinate da decisioni degli agenti, non dal contesto in cui queste vengono prese. Se il codice della strada mi proibisce di andare a più di 130 l’ora, sono comunque io che decido di compiere l’azione di andare a 100, o anche a 140 (essendo disposto a rischiare una multa). E cosa può mai voler dire l’affermazione “ogni individuo ha dovuto agire in un determinato modo (si badi: non ha deciso, ma ha dovuto)”? Un operaio che esegue i comandi del padrone deve svolgere certe operazioni lavorative, ma non agisce, in quanto concretizza una decisione del soggetto che lo domina: il suo apparente agire non è altro che l’agire del padrone – direbbe Hegel.
Si faccia attenzione, però. Breda non sta dicendo quello che sembra dire. Sta dicendo una cosa molto più semplice. Sta dicendo che in un modello di società capitalistica gli agenti sociali intrattengono certe relazioni e, per la logica del modello, si devono comportare in un certo modo. La tipizzazione è parte essenziale delle pratiche scientifiche. Un modello definisce una struttura assiomatica di relazioni e di dinamiche comportamentali stabili, tali cioè da riprodurre la struttura stessa. Nel modello di Marx esistono relazioni di sfruttamento e oppressione tra la classe dei lavoratori e quella dei capitalisti. La dinamica funziona in modo tale che come classe i lavoratori non possono sottrarsi a quella relazione, in quanto la “legge generale dell’accumulazione capitalistica” spinge il salario a un livello così basso da costringere i lavoratori stessi, per sopravvivere, ad accettare il contratto di lavoro. Condivido in pieno quest’argomentazione. E spero che Breda mi perdonerà se ho cercato di tradurre le sue tesi in un linguaggio terra terra. Credo di aver fatto un favore a lui e al lettore, il quale, se non ha conoscenze teologiche, avrà difficoltà a capire cos’è una “Struttura” che è “causa sui”.
In altri termini Breda svolge la sua argomentazione articolandola su due livelli di discorso. Quello della modellistica astratta e quello dell’analisi dei processi reali. Io condivido la sua ricostruzione del modello di Marx e lui sembra condividere la mia analisi volgarmente “empirica” dei comportamenti effettivi (in L’imperialismo globale e la grande crisi). A volte però quei due livelli di discorso fanno corto circuito e generano confusione invece che chiarezza, come ad esempio quando dice che “l’astrazione della forma-valore… agisce a priori sul loro [degli individui] agire, determinando il contenuto oggettivo che il loro agire deve avere se essi vogliono raggiungere i loro scopi soggettivi”. Il lettore non versato nella metafisica hegeliana si domanderà come sia possibile che una forma possa agire e determinare il contenuto soggettivo di un’azione. Non si agiti: Breda sta semplicemente dicendo che nel modello marxiano di capitalismo le leggi oggettive del mercato implicano che l’impresa, per sopravvivere, deve ricercare il profitto e il lavoratore, per sopravvivere, deve ricercare il salario. È una proposizione condivisibile, anche se forse chi è interessato alla rozza ricerca “empirica” la troverà poco utile.
Ma che c’entra tutto ciò con il metodo dell’individualismo istituzionale? È una critica? Sembrerebbe esserlo, se Breda intendesse dire che esiste un agente collettivo, ad esempio il mercato sovrano, ovvero la “forma-merce”, che determina concretamente l’agire degli individui, delle classi, dei governi, delle imprese, dei sindacati. In tal caso la critica si risolverebbe banalmente nel contrapporre una pseudo-spiegazione olistica a un’analisi concreta dei processi decisionali in un contesto di competizione oligopolistica globale. Come dire che, se Marchionne costringe gli operai a votare democraticamente un aumento del loro sfruttamento e una riduzione dei loro diritti, sotto la minaccia della delocalizzazione, l’azione non è attribuibile all’AD Fiat-Chrysler, ma alle leggi naturali di mercato. Il metodo dell’individualismo istituzionale invece c’indurrebbe a dire che le azioni di Marchionne e di milioni di altri capitalisti mirano a massimizzare i profitti, e quindi lo sfruttamento; che la possibilità di delocalizzare gli investimenti, cioè di decidere dove investire, li mette in condizioni di ricattare lavoratori e governi; che, siccome così fan tutti, quelli che non lo fanno alla lunga vengono espulsi dal mercato (e.g. la Chrysler viene assorbita dalla Fiat), che di conseguenza il mercato funziona in base a certe leggi “naturali” che nessuno ha programmato, ma che emergono come risultante delle azioni di tutti quei capitalisti.
Che si diano risultati inintenzionali emergenti delle azioni individuali intenzionali è un principio pienamente accettato dagli scienziati sociali, compresi i primi teorici dell’individualismo metodologico (Menger, Schumpeter). Che poi quei risultati condizionino l’agire degli individui e delle classi è un tema ampiamente sviluppato dai teorici dell’individualismo istituzionale, così come lo è la convinzione che molti comportamenti individuali sono non intenzionali e non razionali (Agassi, Jervie). Alcuni usano le espressioni “individualismo sociale” o “individualismo strutturale” per definire lo stesso metodo. S’intende che l’individuo non è semplicemente influenzato dal contesto istituzionale, come giustamente osserva Breda, ma ne è costituito. L’uomo è un essere sociale in quanto la sua personalità, la cultura, le aspirazioni etc. sono condizionate dal contesto sociale in cui si è formato e agisce. In questo particolare senso Breda mi dà ragione quando osserva, seppur con un’infelice espressione, che l’agire dell’individuo “è determinato dalla struttura sociale”. Chiaramente non può voler dire che le decisioni sono prese dalla struttura, né che l’individuo è un un’ape incapace di agire liberamente. In un approccio marxista resta fondamentale il principio che l’individuo è capace di azione intenzionale autonoma, altrimenti come si fa a ipotizzare che la struttura sociale può essere modificata con la rivoluzione? Certo, la rivoluzione la fanno le classi con l’azione collettiva. Ma non ci sarebbe bisogno della politica, della propaganda, dell’organizzazione, dei programmi di partito, se l’azione collettiva rivoluzionaria fosse un’epifania dell’ente generico. In realtà è un difficile processo di convergenza delle decisioni dei molti ed eterogenei individui che compongono le classi. Per questo il metodo dell’individualismo istituzionale è necessario non soltanto allo scienziato sociale ma anche al politico rivoluzionario.
C’è di peggio: di fronte alla complessità dei processi sociali e delle azioni collettive, e nell’impossibilità di raccogliere tutte le informazioni micro-sociali necessarie per una completa riduzione individualistica delle spiegazioni, gli scienziati e i rivoluzionari fanno spesso ricorso a concetti riferiti ad aggregati sociali (le classi, le nazioni, il capitale etc.) e addirittura cercano di individuare leggi empiriche che ne regolano la dinamica. È una pratica teorica che nel mio libro ho definito “olismo euristico”, spiegando come non sia in contrasto col metodo dell’individualismo istituzionale.
Marx indulge spesso in questa pratica, ad esempio quando elabora le sue “leggi di movimento”, e spessissimo usa concetti riferiti a entità sociali collettive. Gli si fa un pessimo servizio se s’interpretano quei concetti in termini olistici, anche se è vero che talvolta lui stesso viene mal servizio dal linguaggio hegeliano su cui si era formato. Bisogna essere indulgenti. Non si può pretendere che fosse a conoscenza del Methodenstreit aperto dagli economisti austriaci di fine Ottocento.
Breda pare ossessionato dalla dialettica hegeliana. Ma anche qui bisogna riconoscere che forse lo è meno di quanto sembra. A un certo punto cita una mia facezia sulle “civetterie dialettiche”. Il lettore sprovveduto potrebbe prenderla per una bocciatura sarcastica. Però Breda è troppo ben ferrato in marxologia per non sapere che quella facezia è un richiamo alla battuta che Marx fece nel poscritto alla seconda edizione tedesca del Capitale, quando, dopo aver ricordato la propria “critica del lato mistificatore della dialettica hegeliana”, affermò di aver “civettato qua e là, nel capitolo sul valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare”. C’è da supporre che dopotutto quella citazione di Breda abbia voluto essere autoironica. Applicando al suo scritto il metodo dell’individualismo istituzionale si potrebbe dire che qui siamo in presenza di un’azione preterintenzionale deformata dal contesto filosofico idealista in cui Breda si muove.
A conferma della sensazione che il mio stroncatore, più di quanto lui stresso creda, si trova in buona sintonia con le opinioni che intenderebbe criticare, vorrei richiamare alcune sue osservazioni che ho trovato illuminanti. Innanzitutto ha capito che la mia ricostruzione della teoria della “vera democrazia” del giovane Marx non è allineata con l’andazzo di riprovazione olistica della “casta” e della falsa democrazia oggi imperante in Italia. Il discorso di Marx, proprio in quanto basato su una critica individualista e materialista dell’olismo hegeliano, decostruisce i concetti di “interesse nazionale”, “popolo”, “stato”, “classe universale”. Li decostruisce portando alla luce l’eterogeneità degli interessi della “moltitudine”, cioè degli individui e delle classi sociali, e mettendo in chiaro che sono le azioni di questi che determinano l’esistenza di quegli apparenti soggetti collettivi, e non viceversa.
È illuminante anche il modo in cui Breda mostra la contraddittorietà del concetto di “moltitudine” quando è postulato “in opposizione ad ogni entità collettiva” come il “popolo” o la “classe operaia” e poi ipostatizzato “come soggetto di una prassi collettiva”. In Marx non era così. La sua moltitudine è un insieme di agenti socialmente caratterizzati (le “classi sociali”, già nel 1842-3) e capaci di azione collettiva emancipatoria. Breda spiega al lettore che nella mia ricostruzione del pensiero del giovane Marx ho mirato anche a chiarire quest’argomento.
Infine emerge il problema dei problemi: “La struttura sociale dipende dall’azione umana e quindi può essere dall’azione umana modificata, ma non dall’azione individuale… Con riferimento alla Posizione collettiva di scopo il problema è comunque tutt’altro che risolto, anzi, la questione è appena aperta e richiederebbe la trattazione dei problemi relativi alla teoria delle classi e della lotta di classe”. Ben detto. Peccato sia una “cosa che per ragioni di spazio non sarà possibile fare in questa sede”.
In chiusura vorrei informare il lettore che Breda cita dalla prima edizione (2011) del mio libro, ormai irreperibile. Ne è appena uscita una seconda edizione riveduta e ampliata: Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843), Editrice Petite Plaisance, Pistoia 2013.
Ernesto Screpanti insegna Economia della Globalizzazione e Storia del Pensiero Economico all’Università di Siena.
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