È DA oltre vent’anni che si cerca e si promette di riformare la Repubblica. Con effetti deludenti. Perché le riforme — quelle elettorali per prime — sono sempre state fatte su spinta dei referendum o con colpi di mano. L’unica riforma costituzionale effettivamente realizzata riguarda il titolo V della Costituzione, approvata dal Centrosinistra alla vigilia delle elezioni del 2001. Per testimoniare la propria fede federalista.
L’attesa “riformatrice”, negli ultimi anni, si è, quindi, concentrata sulla legge elettorale. Sul Porcellum, approvato dalla maggioranza di Centrodestra, guidata da Berlusconi, nell’inverno del 2005. Per ostacolare la vittoria annunciata dell’Unione di Centrosinistra, guidata da Prodi, alle elezioni dell’anno seguente. Più in generale, per impedirle di governare. Perché il Porcellum, per vincere, “costringe” a costruire coalizioni ampie ed eterogenee. Così, l’attenzione politica e dell’opinione pubblica si è rivolta alla legge elettorale. Causa prima della frammentazione e, inoltre, del degrado della classe politica. Eletta in liste bloccate, senza possibilità di controllo da parte degli elettori.
Non a caso, gli sforzi di Matteo Renzi, subito dopo essere stato eletto segretario del Pd, si sono orientati in questa direzione. Ri-scrivere la legge elettorale. Riformata, di fatto, dalla Corte Costituzionale, che ha abolito il premio di maggioranza, le liste bloccate e le candidature multiple. Di più: Renzi ha condotto il percorso “riformista” per via extra-parlamentare. Negoziando, direttamente, con il principale leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi. I due leader: entrambi fuori dal Parlamento. Nel caso di Berlusconi, perché condannato in via definitiva per frode fiscale. Il negoziato, peraltro, è avvenuto nella sede del Pd. Al di là dei giudizi di merito, il metodo stesso assume, sul piano simbolico, un significato molto chiaro. Sancisce un contesto bi-personalizzato, nel quale il Capo del Post-Pd negozia direttamente con l’Imprenditore di Fi. Sulla base di progetti elaborati — e negoziati — dai tecnici di sua fiducia, insieme a quelli di Berlusconi. Ignorando il lavoro dei Saggi nominati dal Governo. L’esito, annunciato “prima” della presentazione al partito, di oggi, e della discussione in Parlamento, che partirà lunedì prossimo, è chiaro dal punto di vista della comunicazione, assai più che dei contenuti. E degli effetti.
Dal confronto fra i due leader, è emerso, anzitutto, un sistema elettorale di tipo spagnolo (almeno, a parole); dunque, un proporzionale con effetti maggioritari. Sulla base di collegi piccoli, liste bloccate “corte”. In grado, così, di saldare il rapporto fra elettori ed eletti e, al tempo stesso, favorire i partiti maggiori. Rafforzato, nel progetto di Renzi, da un premio “nazionale” (alla coalizione vincente) e da uno sbarramento (per ora, al 5%. L’8% per i partiti non coalizzati). Inoltre, i due leader hanno delineato un nuovo assetto istituzionale, in cui il Senato diventa, di fatto, Camera delle autonomie. Non eletta dai cittadini, ma, probabilmente, dagli eletti a livello locale. E, quindi, ridotta nei numeri, nei poteri (non voterà più la fiducia al governo). E nei costi. Questi appaiono i contorni della Repubblica provvisoria, tracciati dai leader dei due principali partiti. Ma soprattutto da Renzi. In sede extraparlamentare. In attesa dell’esame parlamentare.
Per questo, è difficile scindere il giudizio politico da quello sul merito istituzionale. È evidente che Renzi ha imposto il proprio primato. Sul governo oltre che sul partito. (Ma anche su Berlusconi, rientrato in gioco grazie a lui.) Il Leader del Post-Pd ha agito come Capo del governo. O forse, del post-governo. La cui maggioranza, ora, è coerente con le larghe intese originarie. Perché coinvolge direttamente Berlusconi. D’altronde, se vediamo le stime di voto più recenti (sondaggio Demos di alcuni giorni fa), è chiaro come l’asse fra Renzi e Berlusconi abbia una base elettorale solida. Il Pd è, infatti, valutato intorno al 34% e Fi al 22% (in altri termini, più del Pdl alle recenti elezioni). Insieme, superano largamente la maggioranza assoluta, fra gli elettori. Mentre i partiti di governo, insieme, non raggiungerebbero il 50%.
Naturalmente, è impensabile immaginare una maggioranza per le riforme alternativa rispetto a quella di governo. Per questo è probabile che, intorno alla legge elettorale, si possano trovare soluzioni accettabili per gli altri alleati. Per primo, il Ncd. Tuttavia, più dei contenuti, a Renzi interessano la capacità e la rapidità delle riforme, in un Paese dove le riforme sembrano impossibili. Se non con percorsi biblici.
Peraltro, per marcare l’efficacia riformatrice si affida al linguaggio. Alle “etichette”. La proposta attualmente in discussione evoca la Spagna, ma è italiana. È un post-porcellum. Un proporzionale con premio di coalizione e sbarramento. Con un numero di collegi molto più ampio e listini “corti”. Ma in Spagna non c’è bisogno di alleanze né di premi, perché il sistema è bipartitico. Mentre lo sbarramento al 3% serve a “calmierare” i collegi più ampi (Madrid e Barcellona). Più delle leggi, infatti, contano gli attori politici, la società civile. E i sistemi elettorali producono, spesso, effetti diversi da quelli previsti. Il Mattarellum, ad esempio, nel 1993 venne delineato immaginando un paese diviso in tre: la Lega al Nord, la Sinistra al Centro e i Popolari (postDc) al Sud. Poi arrivò Berlusconi… Vent’anni dopo, per questo, occorre attenzione nel ri-scrivere la Costituzione e le leggi elettorali. Il federalismo, il bicameralismo e il Porcellum (in salsa spagnola). Le leggi fondative della Repubblica vennero scritte dall’Assemblea Costituente, in circa un anno e mezzo di confronto e discussione, tra persone di orientamento diverso e opposto. Il nostro proporzionale, che oggi non funziona, ha funzionato bene nel dare rappresentanza a tutti principali attori e settori di un Paese diviso. Uscito dalla guerra (e da una guerra civile). Oggi i tempi sono molto diversi. Ma non possiamo ignorare il problema della nostra democrazia rappresentativa. Il distacco, l’estraneità, che spinge un quarto degli elettori “fuori” dal voto. E indirizza un quarto dei voti verso il M5S. Cioè: contro i partiti della Seconda Repubblica. Per scrivere le
regole della Terza Repubblica, compreso il sistema elettorale, Renzi deve fare i conti anche con questa parte dell’Italia. Con questa Italia. Non solo con la sinistra del Pd. Non solo con i “piccoli partiti. Non solo con Berlusconi e Forza Italia. Deve misurarsi con l’Italia dei delusi. Con l’Italia di Grillo. Fino in fondo. Disponibile, per questo, ad affrontare la sfida referendaria. Consapevole che nessuna legge può colmare il vuoto della politica.
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