ROMA - Il crepitio delle fiamme che divorano rabbiose una Smart
squarcia il silenzio della notte. L’aria è irrespirabile, il calore tremendo.
Il vetro blindato della posta che sta dirimpetto, sul marciapiede, cede di
schianto. Le finestre degli uffici del Senato, a venti passi di distanza. Siamo
dietro Palazzo Madama, nella zona più controllata della capitale d’Italia, con
una garitta dei carabinieri ogni dieci metri.
In 2.767 anni di storia a Roma si è visto certamente di peggio. Soprattutto di notte. «Un
incosciente sei, uno che non considera l’imprevedibilità degli eventi se vai
fuori a cena senza aver fatto testamento: in ogni finestra aperta, dove di
notte si spiano i tuoi passi, sta in agguato la morte», ammoniva nelle sue
Satire diciannove secoli orsono il poeta Giovenale. Anche a piazza dei
Caprettari, il posto dove alle tre del mattino di venerdì 17 gennaio i coatti
hanno dato fuoco a quella Smart, sono accaduti fatti ben più gravi. E non serve
andare tanto indietro nel tempo.
Basterebbe ricordare la rapina che nel febbraio 1975,
in quello stesso ufficio postale davanti al quale è
bruciata la piccola utilitaria, si concluse con l’assassinio del poliziotto
Giuseppe Marchisella: prima tragica impresa romana del Clan dei marsigliesi,
antesignani della Banda della Magliana. Ma quel gesto sfrontato nel cuore del
potere, in faccia a telecamere disseminate ovunque, dice tutto del degrado
anche sociale nel quale è ripiombata Roma. Specchio di un Paese mai come oggi
identificabile con quel lapidario aforisma regalatoci un secolo e mezzo fa da
Mark Twain: «Così come noi americani non abbiamo passato, l’Italia sembra non
avere futuro». Tanto da far tornare alla mente l’equazione della prima
squassante inchiesta sulla speculazione edilizia e i rapporti fra affari e
politica condotta dall’Espresso cinquantotto anni fa: «Capitale corrotta =
Nazione infetta».
La classifica dei capoluoghi. Nel 2008
il futuro sindaco Gianni Alemanno aveva promesso in campagna elettorale
tolleranza zero verso la criminalità, dopo l’omicidio a Tor di Quinto di una
signora, Giovanna Reggiani, per mano del rumeno Nicolae Mailat. Cinque anni e
mezzo dopo il suo successore Ignazio Marino si ritrova a guidare una città che
la classifica della sicurezza stilata proprio dall’università romana La
Sapienza per Italia Oggi Sette colloca al posto numero 101 sui 110
capoluoghi. Due posizioni dietro Napoli, che occupa la casella 99. E non può
consolare il fatto che Milano sia ritenuta ancora meno sicura, la peggiore
d’Italia. Perché la graduatoria della qualità complessiva della vita piazza il
capoluogo lombardo ben 27 posti sopra Roma, precipitata negli ultimi due anni
dalla cinquantunesima alla sessantaquattresima posizione.
E gli incidenti? Anche attraversare
la strada può essere statisticamente un bel rischio. Nel 2012
sono stati travolti e uccisi dalle auto 56 pedoni, contro 24 a Milano, 9 a Napoli, 8 a Torino, Firenze e Palermo.
Perché mai proprio a Roma il 37,8 per cento dei 148 investimenti mortali
registrati in tutta Italia? Forse perché c’è l’abitudine di attraversare fuori
dalle strisce o con il semaforo rosso. Ma pure chi al Comune ha il compito di
studiare come far passare i pedoni da un lato all’altro della strada deve avere
le sue responsabilità. Secondo i test degli attraversamenti pedonali realizzati
dall’Epca, l’European pedestrian crossing assessment, Roma è al trentesimo
posto su 31 città europee esaminate.
Poi c’è il traffico: un girone dantesco. Se si eccettua Catania, nel Paese (l’Italia) che ha il record
mondiale di veicoli a motore in rapporto agli abitanti, Roma è la città in
assoluto con più automobili: 67 ogni cento residenti. Contro 53 di Milano, 50
di Madrid, 45 di Parigi, 43 di Bruxelles, 41 di Barcellona, 40 di Vienna, 32 di
Londra e Berlino. Senza considerare il numero enorme di moto, motorini, furgoni
e pullman turistici che stringono il fragile centro storico della capitale in
una morsa d’acciaio.
È stato calcolato che il 20 per cento della superficie urbana della città sia coperta da veicoli.
Ogni cittadino romano trascorre mediamente in auto 227 ore l’anno. Conseguenza
di uno sviluppo urbano folle e insensato, con quartieri periferici cresciuti
senza alcun criterio intorno a strade del tutto insufficienti e un trasporto
pubblico inesistente o allo sbando. Anche se i dipendenti dell’azienda di
trasporto comunale sono quasi 12 mila, uno ogni 229 abitanti.
Il risultato di decenni di gestione sconsiderata della città, in assenza di qualunque visione
strategica, si può condensare nei 37 chilometri di linee metropolitane di cui è
dotato il Comune territorialmente più vasto d’Europa, con quasi tre milioni di
residenti e un’area urbana di cinque milioni: due chilometri in meno dei 39
della città spagnola di Bilbao, un sesto di Parigi, meno di un decimo di
Londra. Commenta la scrittrice Dacia Maraini, che vive nella capitale da
sessant’anni: «A Roma tutto ciò che appartiene alla mano pubblica è difficile,
quasi nemico. Penso al sistema viario. Al traffico privato infernale. Ai tram e
agli autobus strapieni, alle file alle fermate...».
Il tutto in un clima di arbitrio assoluto, nel quale nessuno sente il dovere di far rispettare le più
elementari regole di convivenza civile. La prova è in piccoli episodi, come
quello avvenuto in una sera di novembre davanti a una famosa pasticceria in via
Albalonga, nel quartiere Appio. Da mesi gli abitanti protestavano inutilmente
per le auto in sosta selvaggia in seconda e terza fila, con esposti al sindaco,
ai vigili, al questore e al prefetto. Quella sera c’erano tante macchine a
ostruire il traffico che il bus 87 non riusciva a passare. È finita che anziché
rimuovere le auto hanno deviato il bus, dopo aver chiamato senza successo la
polizia municipale.
Il traffico in tilt . Tante
automobili, in una struttura urbana in
larghissima misura inadatta al traffico veicolare, per di più nel caos
assoluto, significa tanti incidenti. Nel 2012, ben 43 al giorno per un totale
di 15.782. E tanti morti. Secondo l’Istat le vittime nella sola Roma sono state
154, contro 61 a
Milano, 26 a
Torino, 34 a
Napoli e 932 nell’intero Paese. Con meno del 5 per cento della popolazione, la
capitale è responsabile del 16,5 per cento degli incidenti mortali. La
manutenzione delle strade è ai minimi termini. Al punto che una importante casa
motociclistica ha deciso di collaudare la resistenza delle carrozzerie dei suoi
scooter facendogli percorrere piazza Venezia.
Negli ultimi due anni il numero delle voragini è quasi raddoppiato, da 44 nel 2011 a 84 nel 2013.
Smottamenti del terreno, pessima qualità dei lavori stradali, scavi per
condutture chiusi maldestramente, perdite idriche: le cause sono tante. Può
perfino succedere, com’è accaduto il 16 luglio scorso, che un camion dei Vigili
del fuoco, chiamato per l’apertura di una voragine sprofondi a sua volta in
un’altra voragine.
Come può anche accadere che nel pieno centro della città, fra piazza Venezia e il Pantheon,
i telefoni restino isolati quattro giorni perché un cavo dell’alta tensione
dell’Acea è andato a fuoco, bruciando tutte le linee. O che, tre mesi più
tardi, l’illuminazione pubblica intorno al Senato rimanga misteriosamente
spenta per giorni. Questo per dire come il livello dei servizi pubblici in una
grande città sia essenziale per determinare la qualità della vita.
I rifiuti, per esempio. Roma da anni è pericolosamente sull’orlo di una colossale emergenza
ambientale, con la discarica più grande d’Europa che periodicamente viene considerata
esaurita per essere di nuovo prorogata. La produzione di spazzatura è
mastodontica: 660 chili l’anno ad abitante. Per capirci, 113 chili più di
Napoli, 127 più di Milano, 155 più di Messina, 200 più di Trieste.
Ufficialmente, la raccolta differenziata è al 25,1 per cento, percentuale fra le grandi città superiore
solo a Bari, Napoli, Catania e Palermo. Ufficialmente... Per quanto riguarda
poi l’igiene urbana, basta guardare in quali condizioni indecenti è tenuto uno
dei monumenti più importanti dell’Italia intera: la Breccia di Porta Pia,
attraverso cui i bersaglieri guidati da Giacomo Pagliari entrarono nella Roma
papalina il 20 settembre del 1870.
Assediata dalla spazzatura, senza nemmeno un cartello che spieghi dove ci si trova: le aiuole
circostanti infestate dalle erbacce, sono un ricovero di senzatetto. A 300 metri da una sede
dell’Ama, l’azienda municipale ambiente che conta poco meno di 8 mila
dipendenti. Compreso un discreto numero di spalatori di foglie: 164 assunti in
un colpo solo dalla giunta di Gianni Alemanno nel 2011. Eppure molte strade
alberate, da mesi, sono in condizioni pietose.
Non sono cose di oggi, intendiamoci. Nel centro si incontrano praticamente a ogni angolo le targhe
di marmo che nel Settecento ammonivano gli abitanti a non gettare l’immondizia
per strada, al prezzo di severe pene corporali. Minacce che però non dovevano
incutere tanto timore, se all’inizio dell’Ottocento Stendhal raccontava: «Regna
nelle strade di Roma un odore di cavoli marci».
Il problema è non avvertire che siano passati due secoli. L’incuria è totale, in linea con la
reputazione dei servizi pubblici. C’è un sito internet con centinaia di
fotografie, scattate in ogni via e strada, dal centro alla periferie, che
testimoniano lo stato pietoso del capitolo rifiuti. Tra queste, lo scatto
formidabile che ha immortalato alcuni maiali grufolare tra i sacchetti di
immondizia in via Boccea, appena dopo le feste natalizie. Grazie a quella foto
si è scoperto che a fine anno l’Ama aveva il personale a ranghi ridottissimi:
erano tutti in ferie. Per non parlare del campo profughi abusivo che da anni
resiste indisturbato sul Colle Oppio, a due passi dalla Domus Aurea neroniana,
con inferriate del parco ridotte a stendini per la biancheria e i vestiti
lavati nelle fontane a cento metri dal Colosseo. L’indirizzo di quel sito è
tutto un programma: www.romafaschifo.com.
In questo scenario non poteva mancare una piaga che sta affliggendo tante città, soprattutto
al Sud: il furto dei cavi di rame. Ma non solo. Nel Cimitero monumentale del
Verano, progettato da Giuseppe Valadier tra il 1807 e il 1812, continuano a
sparire croci di bronzo e suppellettili delle tombe che alimentano il traffico
clandestino dei metalli, in mano a molte famiglie di nomadi. Intorno ai
sepolcri, e in alcune cappelle, la notte dormono disperati senza casa. Ha
scritto un giorno al Corriere il lettore Gordon Tanzarella: «Ho visto un
cartello che diceva: “In questa tomba ci sono i nostri cari, vi preghiamo di
averne rispetto e di non usarla come dormitorio”».
La
conclusione non può che essere una. La città che
è la più grande azienda italiana per stipendi pagati, con un numero di
dipendenti comunali pari a oltre il doppio degli occupati negli stabilimenti
italiani della Fiat, non è governata. Certo, governarla non è semplice.
Pensando soltanto al delirio delle 600 manifestazioni che l’attraversano ogni
anno, con un impatto terrificante sui servizi. E a chi, come il Financial times
gli ha messo il dito in un occhio, parlando di una città «depressa», Marino
replica serafico: «Roma non fu fatta in un giorno. Stiamo facendo progressi».
Auguri.
Dice lo storico Vittorio Vidotto, autore del saggio Roma contemporanea : «Il problema principale
di Roma è la sua incapacità di diventare una moderna capitale. Non si è
modellato lo sviluppo della città sulla base dei trasporti. L’antica struttura
radiale di Roma sarebbe potuta essere la base per linee logiche di espansione
ma così non è stato. Poi c’è la sua triplice identità: grande città storica,
capitale della Repubblica e centro del cristianesimo. E troppo spesso
l’amministrazione comunale si è trovata in aperto conflitto col governo
nazionale e con le altre città italiane, assai poco disposte ad assicurare
finanziamenti a Roma per la sua condizione di capitale. E poi c’è la pochezza
degli ultimi sindaci. Infine un male diffuso: l’assenza di qualsiasi cultura
legata alle regole condivise e rispettate da tutti».
Le domande di condono. Colpa dei cittadini, dunque. Ma anche di una classe dirigente
che ha privilegiato gli interessi privati a quelli collettivi. Non c’è altra
capitale occidentale la cui crescita urbana sia stata così disordinata e di
scarsa qualità. Fra il 1951 e il 2013 i residenti nella città sono aumentati da
un milione 651 mila a 2 milioni 753 mila. Il consumo del suolo è risultato
vertiginoso, con il 20 per cento del territorio ormai non più naturale. Frutto
di una espansione assurda, che non si è mai arrestata, anche dopo
l’edificazione degli immensi quartieri dormitorio degli anni Cinquanta,
Sessanta e Settanta. Ha solo cambiato pelle.
Fra
il 1993 e il 2008 altri 4.800
ettari di terreno
agricolo sono stati resi edificabili e coperti di cemento ben oltre la domanda
di case. Con il risultato che oggi abbiamo nel solo Comune di Roma 245 mila
abitazioni vuote, spesso in zone senza servizi, prive di collegamenti e di
strutture decenti.
E se adesso nella città dei 600 mila lavoratori edili degli anni d’oro le costruzioni incidono appena il 5,4 per cento sul valore aggiunto totale, contro l’86,5 dei servizi, continuano a girare molti soldi.
E se adesso nella città dei 600 mila lavoratori edili degli anni d’oro le costruzioni incidono appena il 5,4 per cento sul valore aggiunto totale, contro l’86,5 dei servizi, continuano a girare molti soldi.
Il mattone ha lasciato segni profondissimi nella geografia del potere. Non per nulla il
costruttore Francesco Gaetano Caltagirone controlla un rilevante pacchetto
azionario dell’Acea, la più grande municipalizzata italiana tuttora guidata da
uomini a lui non sgraditi, e possiede il Messaggero , maggiore quotidiano della
capitale. Mentre il secondo giornale, il Tempo , è nelle mani di un altro
costruttore: Domenico Bonifaci, il quale tanti anni fa l’ha comprato dallo stesso
Caltagirone.
E segni fisici profondissimi ha
lasciato l’abusivismo edilizio, abbattutosi
sulla città come una piaga biblica. Lo dimostrano le 597.000
(cinquecentonovantasettemila) domande di condono presentate dal 1985. Per dare
un’idea del tasso di illegalità, è come se un cittadino su quattro o poco più
avesse commesso un abuso, senza considerare quanti non hanno compilato il
modulo. La piaga ha attraversato tutte le amministrazioni: emblematica la
storia delle Terrazze del Presidente nella zona di Acilia, oltre 1.300
appartamenti sanati in un colpo solo durante la giunta di sinistra al termine
di un’offensiva speculativa nata vent’anni prima su terreni un tempo agricoli
grazie a un accordo fra i costruttori Antonio Pulcini e Salvatore Ligresti.
Il bello è che di quelle domande di condono, con l’ultima sanatoria chiusa ormai dieci anni fa,
ne devono essere ancora esaminate almeno 150 mila. Non sarà perché, come dice
Toni Servillo, alias Jep Gambardella in quel meraviglioso e sconcertante
affresco del potere che è La grande bellezza , «a Roma si perde un sacco di
tempo»?
(1 - continua)
(1 - continua)
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