atteo Renzi ancora una volta smentisce se stesso. Dopo aver proclamato che avrebbe immediatamente previsto misure di tutela e garanzia per le persone logorate da sei anni di Grande Recessione presenta una bozza da “riformatore del mondo”. Come se avesse avanti decenni di tempo per far “ripartire il Paese”. Così presenta un indice assai pretenzioso del suo JobsAct: titolo anglofono, tutto attaccato e con una esse in più del previsto. Tu vuo’ fa’ l’americano?
Si inizia con «il Sistema»: dall’energia alla burocrazia. Si passa alla creazione di «nuovi posti di lavoro»: saranno più di un milione, per scavalcare la ventennale propaganda berlusconiana? Si arriva alle «regole». Una vera e propria riforma di sistema, appunto, una serie di piani quinquennali, se volessimo sorridere; o piangere. E la dimensione temporale è forse l’aspetto più critico di tutta l’impalcatura.
Perché proprio sulle «regole» si torna al dibattito italiano degli anni Novanta, al massimo aggiornato a metà anni Zero. In quel tempo Pietro Ichino, Tito Boeri e Pietro Garibaldi discettavano eruditamente di contratto unico di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti: ed è questa la formula ripresa da Renzi per porre fine alla precarizzazione delle forme del lavoro.
Qui appaiono subito tre grandi equivoci.
Quelle ricette erano inserite in un contesto “pre-crisi”. Negli ultimi cinque anni si sono persi milioni di posti di lavoro difficilmente recuperabili. Anche gli economisti più ottimisti dicono che l’auspicata, e certo non scontata, ripresa avverrà senza recuperare i posti di lavoro persi. Jobless Recovery la chiamano, cioè ripresa senza lavoro, altro che JobsAct!
Si corre poi il serio rischio di eliminare non la precarietà (come condizione di lavoro), ma il precariato (come lavoratrici e lavoratori). Esperimento già riuscito alla precedente Riforma Fornero che ha vessato qualsiasi forma di lavoro intermittente, indipendente e autonoma, costringendo al nero o alla disoccupazione, ma non scalfendo minimamente la precarietà del lavoro e soprattutto dei redditi e dei diritti delle persone. Non è un caso che l’ex ministra abbia salutato con favore l’iniziativa renziana.
Terzo equivoco: si vuole ricondurre tutte le forme di attività e di lavoro sotto il monolite della subordinazione salariata. Praticamente tornare al patto fordista del Trentennio Glorioso. Roba da veri maghi del teletrasporto, più che da riformisti.
Ma in generale tutto l’impianto della proposta sembra sottostare al ricatto del lavoro e della sua mancanza. L’assegno universale di disoccupazione è vincolato al corso di formazione professionale da frequentare e al «non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro». Fingendo di non sapere che la maggior parte dell’attuale formazione istituzionalizzata è molto redditizia per gli enti formatori e poco utile per le persone che devono subirla. Mentre nel secondo caso vi è una chiara violazione del parametro di congruità dell’offerta lavorativa rispetto al profilo del lavoratore: vincolo stabilito anche in sede europea.
Poiché lo stesso Renzi si rende disponibile a «stimoli e riflessioni», accetti un primo consiglio di metodo. La condizione di povertà e miseria in cui sono costrette le persone non aspetta. È il momento di infondere sicurezza e fiducia, individuale e collettiva. E questo può essere fatto solo introducendo garanzie universali: sussidio di disoccupazione, reddito minimo garantito, salario minimo orario e giusto compenso. Sarebbe un chiaro segnale di investimento per migliorare l’esistenza delle persone e introdurre un Welfare più equo. Una piccola e concreta rivoluzione per il Sistema Paese. Dalla quale ripartire.
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