Una scoperta sospetta
Quasi a riprendere il filo rosso di quel testo, Eagleton ha mandato in libreria un pamphlet dal titolo Why Marx Was Right, finalmente tradotto da Armando con il titolo Perché Marx aveva ragione (pp. 239, euro 19). L’anno della pubblicazione del volume è il 2011 e l’autore interveniva nel pieno di di una riabilitazione dell’opera dell’autore del Capitale che periodicamente occupa il centro della scena nella discussione pubblica. Sono infatti anni che riviste, giornali quotidiani, intellettuali conservatori non fanno che elogiare la critica al capitalismo di Marx alla luce della crisi che dal 2007 ha messo in ginocchio Stati Uniti e Europa.L’opera marxiana è così riabilitata, nonostante il fallimento del socialismo reale, per la sua capacità di prevedere le crisi, mentre Marx è elevato al rango di uno studioso che tutti i capitalisti dovrebbero leggere per evitare di ripercorrere gli errori che hanno portato all’attuale crisi. È contro questa riabilitazione che Eagleton si scaglia, per sottrarre Marx a una vulgata che neutralizza la sua critica dell’economia politica.
Prendendo a modello un famoso testo dedicato a Feuerbach, il libro è costruito partendo da dieci «tesi» diffuse negli ambienti conservatori per confutarle. Al microscopio sono passati tutti i luoghi comuni che circolano attorno a Marx: il determinismo economico; l’egualitarismo nemico della «vera» natura umana; una filosofia della storia che considera come inevitabile il socialismo; l’inevitabile fine del marxismo perché lo sviluppo capitalistico ha dissolto come neve al sole la classe operaia; la tendenza dei partiti che si rifanno a Marx a edificare società tiranniche; la nefasta utopia di una società di liberi e eguali; la tendenza a ridurre la realtà all’economia; il gretto materialismo che cancella la spiritualità; la spiegazione del divenire delle società a partire dalla lotta di classe; l’apologia della violenza come levatrice della storia; la statolatria dei marxisti; l’indifferenza dei marxisti per i nuovi movimenti sociali.
Eagleton ha gioco facile per ribattere punto su punto. Per fare questo, mette tra parentesi il marxismo consolidato, evidenziando invece la problematicità che caratterizza i testi del filosofo di Treviri. E tuttavia la sua è un’arringa difensiva che non fa che confermare proprio quel marxismo consolidato dal quale invita a prendere congedo. Sia ben chiaro, gli scritti di Marx sono attraversati da un’attitudine antidogmatica che lo ha portato a «correggere» alcune tesi iniziali, nella prospettiva di dare fondamento scientifico alla sua critica dell’economia politica. Assegnare alla lotta di classe la centralità che merita non ha, infatti, mai significato per Marx che altri «fattori» non svolgano un ruolo fondamentale nello sviluppo individuale.
Quel che ha sempre tenuto a sottolineare è che la divisione in classe della società e la condanna a vivere nel «regno della necessità» esercitano un evidente condizionamento nella vita dei singoli. Sta forse in questo lo svelamento della frase «è l’essere sociale a determinare la sua coscienza». Niente determinismo, dunque, ma un’indicazione di ricerca sui molti sentieri aperti da un’«opera aperta», a partire dal nodo inerente la formazione delle soggettività collettive e di come la produzione culturale, nella sua autonomia, svolga un ruolo nel vivere in società. E nel definire le gerarchie sociali. Dunque nessun determinismo economico. Tutto ciò per dire che il problema non è tanto la difesa dell’opera marxiana, bensì la definizione di un progetto di ricerca e di elaborazione che, partendo proprio dai nodi problematici, si ponga l’obiettivo di colmare lacune, aporie, contraddizioni.
Un gioco interpretativo
Le argomentazioni di Eagleton in difesa di Marx perdono forza nella sovrapposizione che egli compie tra la sua opera e il marxismo reale, cioè quell’articolata biblioteca di interpretazioni che per tutto il Novecento ha riempito scaffali di saggi e libri. Soltanto che il marxismo non è un ordine del discorso unitario, ma è segnato da letture e interpretazioni differenti, spesso confliggenti l’una con l’altra. In altri termini, Eagleton compie un cortocircuito tra la storia politica del marxismo e l’opera di Marx. Operazione legittima, sia chiaro, ma solo se esplicitata fino in fondo, elemento che è invece assente in questo pamphlet.Il libro di Eagleton si propone però di sottrarre Marx a una lettura «pacificata», memore di quella undicesima tesi su Feuerbach che invitava a cambiare il mondo dopo averlo interpretato. Per lo studioso inglese, infatti, Marx è soprattutto un militante. La sua prassi teorica è stata sempre finalizzata a «abolire lo stato di cose presenti». Resta però da fornire una risposta alla domanda: perché il pensiero dominante lo riabilita? Perché lo ha ridotto a una specie di profeta o, tutt’al più, a un brillante pensatore da usare più o meno come si può usare un qualsiasi altro studioso della società. È questa neutralizzazione della portata «politica» l’oggetto polemico dello studioso irlandese. Più che prendersela con i conservatori, sotto traccia, gli spettri da combattere sono le tesi di intellettuali come Jacques Derrida laddove invitavano a studiare Marx, lasciandone da parte la dimensione «politica»; oppure l’opinion maker Jacques Attali, che ha scritto una biografia del filosofo di Treviri descritto come un promettente storico dell’economia. Oppure a quella riduzione di Marx a classico della filosofia, con i suoi testi allineati in un ipotetico scaffale che segue quello di Hegel. Insomma, un filosofo da consegnare alla storia e nulla più. Il libro di Eagleton è un antidoto a tutto ciò. È questo il suo più grande merito.
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