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Carpe diem Inutile negare il sollievo “epocale” provato da molte e molti all’uscita di scena di Silvio Berlusconi e delle schiere dei suoi volenterosi difensori – politici, culturali, mediatici. Tuttavia, come da più parti sobri intellettuali ci ricordano, il berlusconismo non è morto, e ci vorrà del tempo per sanare la lacerazione profonda da esso prodotta nella società italiana. Forse questo tempo del sollievo durerà poco, non solo per quegli impronunciabili sacrifici nascosti nelle lacrime della neo-ministra Elsa Fornero, ma anche per un compito simbolicamente altrettanto impegnativo, che incombe sul paese intero: raccontare e raccontarsi quello che è accaduto in questo paese negli ultimi vent’anni. Come è noto, il racconto costituisce la prima e più elementare forma di comprensione degli eventi, una sorta di prodromo della razionalizzazione o, come diceva Hannah Arendt, il modo più immediato che gli esseri umani hanno per riconciliarsi con la realtà.
L’arte del raccontare comporta tuttavia un rapporto diretto e condiviso con la memoria, una familiarità con lo scorrere del tempo, con il succedersi di eventi fra loro concatenati. Tutto questo è stato parzialmente abolito dal berlusconismo, che, da questo specifico punto di vista, coincide essenzialmente con una studiata abolizione del tempo, della dimensione storica e consequenziale dell’accadere, al fine di immergere la realtà nella sua totalità in un eterno presente, privo di memoria ma saturo di immagini mediatiche che celebrano la bontà e la giustezza del qui e ora.1 L’ottimismo berlusconiano non è altro che la versione morbida, secolarizzata e profana della teodicea: viviamo nel migliore dei mondi possibili, non c’è ragione per agire o pensare altrimenti.
L’eterno presente dell’epoca berlusconiana ha contagiato anche i suoi più acerrimi nemici, costretti a rincorrere il berlusconismo nelle sue acrobazie mediatico-politiche per “restare sul pezzo”, rendendoli spesso incapaci di uno sguardo d’insieme più radicale, meno effimero ed evenemenziale. Detto altrimenti: il berlusconismo si dice in molti modi, e ciascuno può avere una sua plausibilità, certo è che esso non si esaurisce e non si fa esaurire dalla cronaca, giudiziaria, politica o pettegola che sia. Esso affonda le sue radici in una dimensione storico-sociale più ampia, che necessita appunto di essere dispiegata, svelata, raccontata.
Per esorcizzare gli insidiosi spettri del berlusconismo sarebbe innanzitutto necessario trovare una lingua comune in grado di raccontare, agli italiani e alle italiane, la storia recente di questo paese, di dare forma a una narrazione che sia però anche un’auto-narrazione, un “esame di coscienza”. Saper raccontare, sapersi raccontare dentro e attraverso gli anni dell’ascesa potente della TV commerciale, della costruzione impercettibile e quotidiana di un immaginario collettivo nuovo, del confluire pericoloso e inesorabile di politica e spettacolo, della fine delle ideologie e del trionfo del nulla smaltato di paillettes dovrebbe comportare anche la capacità di situare tutto questo in una prospettiva cronologica, che sappia individuare un prima e un dopo, che scalzi il presente dalla pretesa di vigere eternamente. Le cose sono cambiate, le cose cambiano, le cose cambieranno. Raccontare significa apprendere la contingenza dell’accadere e dell’esistere, per riconciliarsi con essa quando il passato è doloroso, per auspicare un cambiamento quando il presente è insopportabile.
L’inenarrabile
Il 31 gennaio del 2011 Loredana Lipperini scriveva su “l’Unità”: «Ci sono molte cose che l’Italia non sa raccontare di se stessa», alludendo al fatto che la complicità di un paese intero (uomini e donne compresi) nei confronti del berlusconismo diventava, ai tempi della sua inevitabile crisi (e il 31 gennaio scorso la crisi era al suo apice anche grazie all’annunciata mobilitazione femminile di “Se non ora quando?”) un ricordo scomodo, ingombrante, appunto “inenarrabile”. Il rapporto tra presente e passato, indispensabile affinché ci possa essere racconto, è stato abolito dal berlusconismo, dalle sue innovative tecniche comunicative e persuasive, ma anche dall’incapacità della società contemporanea (non solo italiana) di rapportarsi in forma narrativa alla realtà e, nello specifico caso degli italiani, dal loro adeguarsi, volenterosi, al grande gioco seduttivo di imbonitori di varia natura: la nostra storia recente ci è stata sottratta, ed è stata trasformata in uno spot.
Al centro di questo spot sta il corpo femminile, oggetto di desiderio e simbolo di potere, strumento di persuasione, di ipnosi collettiva fatta di intrattenimenti quotidiani e di immagini martellanti, merce di scambio e di autopromozione, ultimo feticcio di un liberismo scambiato per libertà. Il berlusconismo rappresenta in fondo il risorgere audace di una Italia arcaica, patriarcale e misogina, camuffata sotto le mentite spoglie di una società iper-moderna: la sua novità consiste proprio nell’aver saputo brillantemente coniugare capitalismo e società dello spettacolo, innestando questi due capisaldi dell’iper-modernità sui resti sfilacciati di una società arretrata, se non altro in tema di libertà femminile. Detto altrimenti, il processo di spettacolarizzazione della politica – tipico dell’Occidente tutto, in epoca contemporanea – ha trovato in Italia un fertilissimo terreno su cui fiorire, un potente catalizzatore che ne ha determinato l’innovativa versione: “berlusconismo” è il nome che oggi diamo a una avanguardistica declinazione del “populismo nell’epoca della sua quotidiana riproducibilità mediatica”. Ed è a questo lavorio quotidiano, alla sua apparentemente innocua banalità da televendita che esso si è affidato per colonizzare spazi di vita e di immaginario, saturandoli entrambi.
La storia potrebbe iniziare da molto più lontano, dal pesante fardello misogino della cultura occidentale, ma non è con le grandi narrazioni epocali che la banalità mediatica della cultura di massa odierna può essere compresa. Il berlusconismo va letto e interpretato iuxta propria principia, cioè secondo quei modelli entro cui esso stesso si è pensato e costruito. Per comprendere quindi la storia recente e il lavorio quotidiano dell’immaginario di massa a matrice maschilista può forse essere utile guardare con occhio disincantato ai suoi albori: da “Colpo Grosso” al “Bagaglino”, da “Non è la Rai” a “Striscia la notizia” l’entertainment nostrano ha proliferato massivamente su corpi femminili quotidianamente scrutati, esibiti, sezionati dallo sguardo collettivo, pesantemente reificati nella loro sostanza carnale. Corpi muti ma loquaci nella loro funzione di segni: procaci e perfetti, disponibili e docili, essi alludono a una soggettività muta che tutta coincide con quella che Simone de Beauvoir definiva “l’alterità del femminile funzionale al maschile”, espressione innanzitutto di un ideale di bellezza che deve rispondere al destino di essere posseduta, deve avere le qualità passive di un oggetto.2 Così facendo essa rafforza l’identità maschile, gratifica l’uomo e lo conferma in qualità di possessore esclusivo di tale bellezza, soggetto principe nell’universo simbolico e materiale della “lotta per il riconoscimento”. La donna è definita solo a partire dal suo rapporto con l’uomo, ella è l’oggetto sul quale il maschio proietta le sue speranze, paure, frustrazioni, gioie.3 Tuttavia, tale processo di rispecchiamento comporta una reciproca dipendenza tra maschile e femminile, una sorta di complicità di quest’ultimo nel meccanismo della propria subordinazione.
Il dispositivo della bellezza
In Italia, del resto, la persistente cultura patriarcale, rafforzata e “naturalizzata” dalla permanenza e dalla diffusione capillare di un certo immaginario cattolico,4 non ha avuto difficoltà ad assorbire e interiorizzare un immaginario mediatico costruito sui corpi delle donne. Inoltre, la preminenza della prospettiva dell’eterno presente a cui si faceva cenno sopra, l’esaltazione di un godimento di massa da esaudire “qui e ora” come versione banalizzata e consumistica dell’antico motto oraziano del carpe diem, è come se avesse convinto molti, e soprattutto molte, che le donne sono sempre state così, che in fondo il femminile a cui l’immaginario mediatico si rifà è quello sempre identico a se stesso di un bel corpo a disposizione, perché in fondo a tutti è chiaro che la bellezza è l’indispensabile viatico femminile alla realizzazione di sé. Cosa fanno in realtà i modelli preconfezionati del femminile televisivo e politico dell’era berlusconiana? Rafforzano (con in più la pervasività mediatica del modello, ineguagliabile per influenza rispetto ad altri modelli, in altre epoche) l’atavica idea che solo attraverso la bellezza il femminile possa uscire dal buio della sfera privata, per solcare la pubblica. Non è del resto un caso che la parola pubblica di questo femminile addomesticato sia spesso subalterna, docile, conservatrice.
Ma qual è il meccanismo che ha permesso di dimenticare, in maniera così massiccia, la libertà delle donne, audacemente conquistata, seppure provvisoriamente, durante gli anni Settanta? Cos’è che ha fatto sì che una storia di lotte e di consapevolezza fosse cancellata in poco tempo, e nello spazio di uno spot?
Una possibile spiegazione è forse rintracciabile in quello che Michel Foucault ha chiamato, in riferimento alle trasformazioni del potere in epoca contemporanea, il “dispositivo biopolitico”, una presa in carico (da parte di diversi agenti politici, sociali e culturali) dei corpi, materiale prezioso per un controllo sociale molto raffinato, determinato da meccanismi non repressivi ma produttivi.5 Il dispositivo biopolitico funziona in modo tale che i soggetti “governati” non sono semplicemente “dominati”, prigionieri della volontà altrui, bensì partecipano essi stessi all’attuazione delle norme che li costituiscono: la norma dice cos’è “normale” e cosa non lo è, e ciascuno, singolarmente ma in stretto rapporto con la dimensione collettiva, deve provvedere alla propria normalizzazione.
Tale dispositivo ha agito sui corpi delle donne in maniera molto più significativa di quanto non abbia fatto sui corpi in generale: il corpo liberato dal Sessantotto e dal femminismo è diventato il terreno privilegiato di una strategia di governo e di normalizzazione.
Entro questo abbozzo di comprensione, allora, potremmo collocare il femminile come “governato” dal dispositivo della bellezza. Cos’è una donna, in altre parole, lo dice la “normalità” della sua bellezza, postulata come tale da un dispositivo che non la vuole semplicemente “controllare” – com’era nel caso del vecchio regime patriarcale in cui la donna dipendeva dal volere del padre, del fratello o del marito – bensì produrre in serie come espressione di ciò che è familiare, rassicurante, disponibile e docile, normale appunto. Che tale normalità di una bellezza muta e a disposizione sia indispensabile al rafforzamento dell’identità maschile, come ci ricorda Beauvoir, complica ulteriormente la scena, ma non smentisce un assunto centrale dell’analisi: le donne sono state complici solerti nel gioco del loro stesso assoggettamento. La pensatrice francese lo diceva delle donne in generale, all’interno della cultura patriarcale dell’Occidente. In maniera forse meno roboante, guardandoci dalle generalizzazioni troppo facili e spostandoci dai miti indoeuropei di cui parlava Beauvoir alle trasmissioni trash nostrane, notiamo un andamento simile: una certa compiacente complicità del femminile “mainstream” nel farsi ingabbiare nel dispositivo della bellezza c’è e c’è stata. Ma tale complicità, spiegata da molti come un difetto psicologico, una propensione di alcune a essere più “mignotte” di altre, è banale e difettosa, anche perché colloca la questione ancora una volta entro una cornice in fin dei conti moralistica.
Politica, non moralismo
Il problema, complesso e controverso, di una libertà femminile scambiata per liberismo, di un corpo trasformato in merce o in oggetto, senza scarti, è tale non perché riguarda la morale. Troppo spesso le donne sono state le fedeli custodi di una morale a loro ostile, ospiti alienate di un discorso che le collocava sempre all’interno di un gioco di scambio dei loro corpi. Il problema del dispositivo normalizzante della bellezza docile, del corpo esibito, scrutato e scambiato sul mercato del potere, del denaro, dei simboli è innanzitutto politico.
C’è una costitutiva duplicità nel dispositivo che assoggetta il femminile attraverso la sua bellezza: centrale e fondante dell’identità maschile, il suo “altro”, essa resta tuttavia marginale, accessoria, di cornice per quanto riguarda la propria identità. Sul versante dell’identità femminile, quindi, ciò che la cultura “popolare” del berlusconismo ha in questi anni elaborato, veicolato e diffuso con la potenza inedita dei mezzi di comunicazione di massa è stata la “naturalizzazione” della donna nei panni di un corpo a disposizione. Come se non ci fossero altre “identità” disponibili per il femminile, se non l’eterno alter ego della prostituta, e cioè la moglie/madre (altro luogo simbolico di pesante “naturalizzazione”).
La questione della “naturalizzazione” si è ulteriormente rafforzata all’interno di un codice linguistico dell’auto-imprenditorialità e del liberismo economico (i quali, sempre secondo Foucault, sono un’ulteriore declinazione del paradigma del “governo del vivente”) per cui la subordinazione è resa invisibile e indicibile. I corpi delle donne non sono più protetti dal patto patriarcale e dal rigido protezionismo che ne regolava lo scambio (dal padre al fratello, dal padre al marito), ma circolano liberamente nel mercato del sesso e del potere, come una sorta di traffico illecito di esseri umani dove però lo sfruttamento è difficile da individuare, da nominare, intrappolato com’è nelle maglie della stessa soggettività che si pretende “libera”. Ecco perché la questione è politica e non morale: il linguaggio che dice questi corpi, forgiato nei dispositivi normalizzanti del neoliberismo e dell’auto-imprenditorialità, impedisce il conflitto, la critica, la trasformazione. Resta solo un’inclusione docile, un disciplinamento delle forze vitali, una normalizzazione biopolitica. Come uscire dal dispositivo normalizzante e riappropriarci dei nostri corpi? Fino a qui la narrazione è stata scomoda e frustrante, tuttavia necessaria. Ci sono però molte altre narrazioni in corso, sotterranee e poco visibili, ma progressivamente emergenti nel panorama di un paese che sta cambiando. Non godono della quotidiana esposizione mediatica che invece spetta ai corpi addomesticati e normalizzati, ma lavorano dal basso e sono espressione di corpi desideranti e pensanti,6 di corpi che si sono ricongiunti miracolosamente con le loro anime, hanno voce e voglia di rimettere al centro della vita del paese e delle vite individuali la politica, come capacità di azione, di cambiamento, di libertà. Il nostro compito è quindi quello di raccontare a noi stesse e alle altre una storia che parli della nostra frustrazione ma anche della nostra voglia di libertà e di iniziativa, che incoraggi ad avere più a cuore il pubblico del privato, più il corpo politico del corpo addomesticato, più l’intelligenza della bellezza, per parafrasare, ribaltandola, una nota frase che è espressione perfetta di una strategia di “normalizzazione” del femminile. Per resistere ad essa serve il nostro coraggio, la virtù politica per eccellenza, che ci sottragga all’eterno presente di un oggi immodificabile e ci proietti in un futuro diverso e non troppo lontano.
[1] Sulle implicazioni nichiliste di questa glorificazione dello status quo si veda C. Chiurco, Il nulla in casa. Il berlusconismo tra nichilismo compiuto e balcanizzazione dell’Occidente, in Chiurco (a cura di), Filosofia di Berlusconi. L’essere e il nulla nell’Italia del Cavaliere, Ombre Corte, Verona 2011, pp. 72-96.
[2] S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1999, p. 205.
[3] Ivi, p. 164.
[4] Sulle molte possibili letture del corpo femminile all’interno della tradizione cristiana, trascurate e oscurate da una visione fondamentalmente misogina del corpo femminile abbracciata dalla Chiesa cattolica in tempi recenti si veda M. Murgia, Ave Mary. E la chiesa inventò la donna, Einaudi, Torino 2011.
[5] M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998. Per una esaustiva e chiara trattazione del pensiero di Foucault, si veda anche L. Bernini, Le pecore e il pastore, Liguori, Napoli 2008.
[6] Si veda F. Giuliani, Il peso del corpo (Like a Train on a Track), in “Italianieuropei”, 10/2011.
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