Dice giustamente Angelo Panebianco, nel suo editoriale
apparso sul Corriere del 16 aprile («Non più un principe ma un utile
sherpa») che i partiti in Italia dovrebbero ritrovare il loro ruolo, che è
quello di «organizzazioni specializzate nella raccolta del consenso elettorale
e nella fornitura di personale per cariche di governo, senza più la pretesa di
dominare le istituzioni».
E quindi i partiti non dovrebbero essere più «i principi»
(nel senso gramsciano della parola), bensì, più modestamente, gli sherpa, cioè
i collettori di aspirazioni, di idee, di progetti (come essi sono in altri
Paesi europei). Si può aggiungere a queste giuste considerazioni di Panebianco
che la strada per arrivare a una trasformazione dei partiti in Italia nel senso
che si è detto, è lunga, difficile, accidentata, e quindi di non facile
realizzazione. Occorrerà in ogni caso una forte pressione della pubblica
opinione perché si riesca a ottenere qualche risultato apprezzabile; e
occorrerà anche una vera e propria «riforma intellettuale e morale» (uso una
espressione molto cara a Gramsci), attuata dalle élite politiche
(ammesso che ne siano capaci). La strada dell'autoriforma che i partiti
dovrebbero percorrere dovrebbe andare infatti nella direzione contraria a
quella prevalsa nella cosiddetta Prima Repubblica, e dovrebbe quindi combattere
e vincere tradizioni consolidate, abitudini acquisite, mentalità diffuse: ma è
l'unica strada che può tirare fuori i partiti dalla palude di discredito (che
sta trasformandosi in disprezzo) nella quale sono caduti, con grave pericolo
per la democrazia nel nostro Paese. Tale autoriforma dovrebbe passare, a mio
parere, attraverso alcuni snodi fondamentali, che indico schematicamente.
In primo luogo, i nostri partiti dovrebbero diventare più
«leggeri», riducendo i troppo grandi (e perciò troppo costosi) apparati che
alcuni di essi hanno, e avvalendosi in misura maggiore del volontariato (cioè
della passione politica dei militanti). Un partito la cui struttura
organizzativa sia formata solo e soltanto da funzionari e professionisti della
politica (stipendiati) è fatalmente un organismo destinato a ossificarsi
intellettualmente (nonostante le sue mastodontiche dimensioni), a isolarsi
dagli umori e dalle correnti di opinione della società, ad autoperpetuarsi
senza ricambi significativi, secondo le regole ferree dell'oligarchia. Anche
qui c'è da innovare radicalmente rispetto alla Prima Repubblica: si pensi a che
cosa erano sia il Partito comunista sia la Democrazia cristiana: partiti con
migliaia di sezioni, migliaia di funzionari, centinaia e centinaia di sedi (e
che quindi richiedevano finanziamenti, in gran parte occulti, assai cospicui).
In secondo luogo, tutti i partiti dovrebbero garantire la più
larga democrazia interna, celebrando i loro congressi a scadenze fisse, con
delegati regolarmente eletti, e praticando le «primarie» per la scelta dei loro
candidati alle massime cariche elettive. Su questa esigenza della democrazia interna
ai partiti ha insistito con grande forza, per una intera stagione politica,
Giuseppe Maranini, nella sua memorabile critica antipartitocratica. «La
mancanza - egli scriveva - di un controllo pubblicistico sopra la democrazia
interna dei partiti dà un pericoloso vantaggio ai partiti anche ideologicamente
antidemocratici, che marciano in falangi compatte». Questa affermazione di
Maranini può essere ripresa oggi, opportunamente aggiornata, anche in
considerazione della esistenza ormai radicata di partiti carismatico-personali.
In terzo luogo, tutti i partiti dovrebbero adottare la
regola che un parlamentare può essere tale solo per due legislature: questo
farebbe sì che ogni dieci anni ciascun partito dovrebbe farsi rappresentare da
uomini e donne nuovi, capaci di esprimere esigenze ed idee delle generazioni
più giovani. Come è stato rilevato più volte da autorevoli commentatori, anche
su questo giornale, la nostra società è «gerontocratica», e oppone fiere
resistenze all'ascesa dei giovani nei posti di comando. Bene, i partiti
politici incomincino a dare il buon esempio, facendo entrare regolarmente in
Parlamento i politici più giovani, secondo un giusto e naturale ricambio
generazionale.
In quarto luogo, il finanziamento pubblico ai partiti (che
può essere ammesso, ma non nella misura elefantiaca e mostruosa attuale: 2,3
miliardi di euro dal 1994 ad oggi, andati anche a partiti scomparsi!) dovrebbe
essere gestito nella più assoluta trasparenza, sotto controllo pubblico
(trattandosi di denaro pubblico). Che questo non sia avvenuto fino ad oggi la
dice lunga sulla degenerazione che i partiti hanno raggiunto in Italia e sulle
difficoltà da vincere per ottenere una loro rigenerazione.
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