mercoledì 9 maggio 2012

PSICOLOGIA DEL POPULISMO. RISE' C., Dove si genera il populismo, IDEAZIONE, s.i.d.

In quanto fenomeno inaspettato dal potere ufficiale, e del tutto deviante rispetto alla maggioranza delle previsioni delle scienze sociali, la tendenza è quella di apparentarlo alle nevrosi, ai sintomi e manifestazioni d’angoscia individuali, e di gruppo, di cui sarebbe l’espressione politica. Nel parlarne, comunque, gli osservatori insistono volentieri sui tratti patologici, dei suoi militanti o dirigenti.



Populismo e politica: un’antica inimicizia

La diffidenza, sconfinante volentieri nel disprezzo, verso i movimenti che si richiamano al popolo non è, d’altra parte, affatto nuova. Il popolo, ed i suoi specifici modi di esprimersi, hanno sempre ben rappresentato, presso storici e studiosi della politica, ciò che Freud più tardi chiamerà
il“perturbante” (Unheimlicht)[i], ciò che non ci è familiare, e che quindi turba la nostra coscienza coi tratti ambigui ed inquietanti delle immagini che abbiamo respinto nell’inconscio. Il popolo, e il populismo, non si esprime con misura, e non si appassiona ai calcoli e misure della politica ufficiale. “Nihil in vulgus modicum” osservava già Tacito,( Anna­li, I, 29). E Cicerone lo chiamava: “immanius belua”, l'animale più mostruoso”. Con la modernità, e il socialismo, la reputazione del popolo presso gli intellettuali e i professionisti della politica e di chi vi si richiama non migliora. Marx ammette: “quando si parla di popolo, mi domando che brutto colpo si stia giocando al proletariato” (Adesso che i rappresentanti del proletariato, nelle loro varianti riformista, e autoritaria hanno governato a lungo, sarebbe il caso - osserva Michel Maffesoli- di andare a vedere quanti e quali brutti tiri hanno giocato ai popoli) .
Anche il sapere popolare non è apprezzato da politici, e sociologi della politica. Il buon senso popolare è definito da Engels “la peggior metafisica”, Durkheim ha il massimo sospetto di ogni “socio­logia spontanea”, e Pierre Bourdieu chiama il sapere popolare un “bric-à-brac di nozioni”.

Populismo come Ombra del potere convenzionale

Il popolo ed i suoi modi di esprimersi nella storia politica sono dunque, praticamente da sempre, l’Ombra rifiutata della politica ufficiale occidentale, dei suoi dignitari e dei suoi tecnici. Per essi il popolo, ed i suoi eventuali saperi, è qualcosa che viene costantemente rimosso dalla coscienza, e ricacciato nell’inconscio. Non c’è allora da stupirsi se coscienza e cultura politica dominanti siano sempre colte di sorpresa, e piuttosto spaventate, quando questo popolo, “rimosso” nell’inconscio, periodicamente riappare sulla scena della storia, con i suoi movimenti dalle forme inquietanti. Tra i quali, appunto, i “populismi”, come quelli che, con aspetti e stili diversi, vanno riscuotendo oggi interesse ed adesione in Europa. Dai paesi del Nord, che secondo gli stereotipi dovevano esservi alieni (e invece se ne lasciano entusiasmare), ai già più compromessi (secondo quest’ottica diffusa), paesi mediterranei.Ma perché la coscienza politica ufficiale rimuove sistematicamente il popolo e le sue forme espressive? La notazione di Tacito (nihil modicum in vulgo), ci mette sulla strada. La politica abbisogna di misure e ponderazioni, di calcoli, e il popolo vi sembra tendenzialmente avverso. L’osservazione è utile soprattutto perché quest’avversione al calcolo, alla misura astratta, ci porta alla sostanza del discorso sul popolo e il populismo. Che è il suo legame con la materia, con la materialità dell’esistenza nella sua forma più elementare, non calcolata e mediata dalle convenienze intellettuali (bene espresso nella rivendicazione dei vandeani di avere la propria terra “sotto i piedi”, mentre i parigini rivoluzionari ce l’avevano “nella testa”).

Legami con la materia e antiintellettualismo

Il popolo si richiama senza nessun imbarazzo agli aspetti materiali della vita, e ai suoi interessi. I contadini francesi ne sono un buon esempio: le loro rivendicazioni contro ogni tipo di contingentamento e regolamentazione, che ne danneggiasse interessi e tradizioni, sono sempre state un rompicapo prima per i pianificatori di quarta e quinta repubblica, e poi per gli euroburocrati. E’ in questa attenzione alla materialità, caratteristica da sempre di ogni populismo, che si sigla la sua collocazione a pieno titolo nella postmodernità, una delle cui cifre è proprio l’opposizione dell’elemento organico, corporeo, al privilegio per l’ideologia che aveva caratterizzato la modernità. E’ questa attenzione all’organico, alla materia, al corpo che fa della postmodernità il tempo dei movimenti di identità: il movimento delle donne, quello delle razze e delle etnie (il Revival etnico di cui parla Anthony Smith), i movimenti omosessuali, il movimento degli uomini fortissimo negli USA dalla metà degli anni 80 (Farrakhan fra i musulmani neri, Promise keepers in campo cristiano, i diversi men groups di Robert Bly ed altri).Nel mondo, il movimento antropologico-politico che si fa portavoce di questa “conversione” alla materia, che è anche conversione alla propria storia e passato, rispetto alla fuga nel futuro delle ideologie moderne è quello del primordialismo. Sincronicamente all'affermazione delle tendenze globalizzanti, si é andato infatti affermando un altro fenomeno, sinergico ad esse, appunto il primordialismo.

La base epistemologica dei populismi: il primordialismo

Esso raccoglie e ispira tutti quei diversi orientamenti e attività (dalla ricerca alla politica) che si interessano alle esperienze umane riferite al legame con la nascita, la discendenza, e il luogo di nascita o di provenienza ancestrale. I movimenti identitari sopra nominati rientrano in questo grande bacino per il loro riferimento al corpo, la terra, la discendenza.
Quest'atteggiamento, supportato dal punto di vista epistemologico da filosofi della scienza come Paul Feyerabend (cfr. il mio pezzo su Ideazione Vent’anni dopo il muro”), ha indebolito la credibilità , anche dal punto di vista scientifico, di proposte "universali", e rafforzato il movimento delle diverse culture verso il recupero della propria storia, reale o immaginata, verso la propria “primordialità". Il movimento ha rapidamente assunto una forza, anche sul piano storico-politico, molto notevole, che ha colto di sorpresa chi era rimasto legato alle concezioni del sapere, e della politica, tipiche della modernità. E costituisce, consciamente o inconsapevolmente, una della basi epistemologiche che concorrono a spiegare gli attuali populismi, a ben vedere espressione essi stessi di esigenze e sensibilità “primordiali” che si sovrappongono alle visioni intellettuali di poteri e tecniche politiche tradizionali.
E' del resto ancora questo, per certi versi, anche l'orizzonte di natura primordiale (das Primordiale) cui si riferisce Husserl parlando dell'orizzonte della propria particolarità (Eigenheitshorizont), che definirebbe l'area e gli oggetti "familiari". Naturalmente quest'ambito é in continuo mutamento, ma "il fatto che i limiti dell'orizzonte del possesso di sé varino attraverso il tempo e le civiltà non invalida né il fatto che gli esseri umani percepiscono oggetti come primordiali, né l'efficacia significativa della categoria del primordiale"
I contenuti dei legami primordiali sono stati fortemente svalutati da gran parte della sociologia contemporanea, omogenea e conseguente alla posizione illuministica, e sono stati riassunti, dopo Talcott Parsons, nel termine, “particolarismi". Più di recente, per sottolinearne la ristrettezza d'ambito, la loro qualità é stata identificata con la categoria dell' "emozionale". Eller e Coughlan ad esempio ritengono che il "primordialismo é essenzialmente questione di emozione o sentimento prodotto dall'interazione sociale." Ritroviamo qui l'atteggiamento del vecchio razionalismo moderno che, incurante di ogni smentita dai fatti, continua ad opporre l'esperienza emozionale a quella cognitiva (anche se, da Weber allo stesso Parsons si è poi lavorato sulla distinzione tra emozioni cognitive ed emozioni affettive). In realtà, come ha osservato opportunamente Crosby, questa posizione dimentica che “le emozioni sono suscitate dalla cognizione di un oggetto".
Il primordialismo, che sottende oggi gran parte dei populismi, appare invece come criterio cognitivo, di orientamento a valenza identitaria, in base al quale: a) gli individui classificano sé e gli altri, e b) su queste classificazioni formano poi gruppi, appartenenze che influenzano il comportamento dei membri. Nell'identificazione di questi legami primordiali hanno notevole importanza le tradizioni, e i simboli originari attorno alle quali questi si organizzano: "Gruppi e nazionalità etniche esistono perché ci sono tradizioni di convinzioni e comportamenti che si riferiscono a oggetti primordiali, come i dati biologici e soprattutto le localizzazioni territoriali." (Crosby).
Il primordialismo, riferimento cognitivo forte, proprio perché supportato da emozioni, e insieme riferimenti simbolici, consente ai populismi di opporre dei “modi di essere”, delle identità, dei gusti e necessità di vita (si pensi ai contenuti ecologisti in essi variamente presenti), ai diversi “dover essere” proposti dalle ideologie moderne e tardo moderne.
In questo modo i “popoli”, o meglio gli attori del populismo mettono tra sé e l’ordinamento giuridico dello Stato (o dei sovra Stati), il filtro dei legami di nascita, delle identità, dei corpi, della terra, e della loro storia. Il corpo, che ama il lardo di Colonnata che ha nutrito i suoi avi, ne fa un elemento di identità, di appartenenza comunitaria, di guadagno economico (col suo commercio), e si unisce ad un popolo (quello della zona di produzione), nell’opposizione ad una burocrazia transnazionale che vorrebbe metterlo al bando in nome di un dover essere di tipo igienico. Che, in effetti, potrebbe coprire qualsiasi altra motivazione, compreso interessi di gruppi industriali, portatori di identità meramente economiche, e non organicamente e simbolicamente condivise, e quindi significative. Il populismo, rafforzato dalla base epistemologica primordialista, nega che l’individuo sia riconducibile esclusivamente all’ordine dello Stato e della sua legge, mettendo tra sé e l’ordinamento giuridico categorie di ordine contemporaneamente materiale e trascendente: i corpi e la loro sopravvivenza, le tradizioni di cultura materiale, le identità, la comunità di appartenenza, la sua storia, le credenze condivise.
Questo atteggiamento disturba il legislatore o il politico tradizionale che lo qualifica volentieri di “nevrotico”, opponendogli la “sana” e razionale asetticità di un regolamento comunitario. Ma in realtà non ha nulla di patologico (come, da un punto di vista di sociologia politica, rilevano anche Meny e Surel in Populismo e democrazia. Il Mulino, 2001). Dalla rivendicazione di identità al delirio ce ne corre. Gli Ebrei hanno ridato vita a uno stato, e a una lingua, dopo duemila anni. In Cornovaglia è rinato il cornico; in Occitania, l’occitanico. “Varesotto”, che quando ero ragazzino io era un insulto dei milanesi agli abitanti di quella provincia, oggi è un distintivo per i ragazzi dell’Insubria, che riscoprono radici linguistiche e simboliche insieme a una difesa identitaria, territoriale e di interessi.
Insomma, il “popolo”, è roba testarda (heady stuff), che sembra sparita ma dura nei secoli. Come si rileva da una serie di documenti delle Nazioni Unite, che hanno riconosciuto, per ora, l’impossibilità di costruire una partizione del mondo sulla base di categorie e confini puramente amministrativi, razionalmente stabiliti.

Populismo mostruoso

Certo, il populismo ha anche un aspetto mostruoso, come già notava Cicerone, e come spiega oggi Maffesoli. E’ mostruoso perché è contradditorio, e quindi doppiamente inquietante, come un monstrum che possiede nature opposte. E’ avido e generoso, materialista e metafisico, tradizionalista e trasgressivo. Ma questa contradditorietà è caratteristica del vivente, solo lo schema razionale, astratto, è impeccabilmente coerente. Anche la storia, quella di lunga durata, che interessava Braudel, ed in effetti è l’unica interessante, è contradditoria, come appunto tutto il vivente.

Per esempio molti si stupiscono (e, più o meno apertamente invocano la patologia), perché Pim Fortuyn, il leader populista olandese ucciso prima delle elezioni, ipertradizionalista ed omosessuale, fosse per la libertà sessuale e contro la riproduzione nelle coppie omosessuali. Ma questo atteggiamento è, appunto, molto tradizionale. In Europa l’omosessualità è sempre stata praticata liberamente, come un aspetto della sessualità popolare; tanto che non c’era neppure la parola per definirla. Come hanno mostrato Foucault, ed altri, l’ “invenzione” dell’omosessualità è un frutto della modernità, nasce nell’800, come la stessa parola. Naturalmente però, rapporti col proprio sesso, ed eventualmente coppia “omosessuale” non avevano niente a che vedere con la famiglia, eterosessuale, e con la riproduzione. Tanto è vero che quando la loro diffusione metteva a rischio la riproduzione del gruppo, scattavano periodi, limitati, di repressione (a Firenze, Venezia, ed altrove), fino a quando il tasso di natalità si normalizzava.

“Imprendibilità” del popolo

Inoltre il populismo, come ogni aspetto del vivente, più o meno mostruoso e sorprendente, è inafferrabile da ogni igienismo politologico. Perché il popolo ha, tra le proprie caratteristiche, una sorta di imprendibilità, uno stare per sé, che lo mette al riparo da ogni condizionamento duraturo da parte del potere. Come dimostrano gli eroi popolari (tra i quali eccelle Till Eulenspiegel, il mito fiammingo di cui Gérard Philipe diede un’indimenticabile interpretazione cinematografica alla fine degli anni 50). Il popolo finge adesione al potere, ma se la riprende abbastanza rapidamente quando percepisce che il potere si è fatto gioco di lui in quanto popolo, dei suoi interessi materiali e dei suoi riferimenti trascendenti (si vedano i grossi spostamenti di voti da un turno elettorale ad un altro, fonte di tante patologie ansiose nei rappresentanti politici). Dalla Rivoluzione Francese al secondo dopoguerra mondiale è sembrato – a dire il vero- che la forza degli universalismi e delle ideologie moderne avesse sottomesso il popolo, una volta per tutte. Ma poi, in particolare dagli anni 90 in poi, si è capito che non era così.
Il popolo, che junghianamente potremmo vedere come una sorta di Sé della Comunità, in gran parte inconscia della sua esistenza, ma attivo dal profondo, era sempre lì. Beffardo come Till; irriducibile a ogni logica normalizzatrice, come un “complesso autonomo”; avido come un bottegaio; religioso come un contadino; disincantato come una bella donna circuita da tutti; appassionato come un amante. Il popolo è ancora lì, per conto suo, pronto a cambiare bandiera e cavallo, e disarcionare chi in nome suo lancia proclami. Alla fine, contrariamente a quanto accade nell’immaginario del politico paranoico, è lui che decide, e non le supertecnocrazie, o i comitati ristretti.
Per questo, i populismi fioriscono.

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