sabato 8 novembre 2025

POLITICHE DEL DIRITTO, RIFORMA DELLA GIUSTIZIA, GIUSTIZIA PUNITIVA, RIPARATIVA. CASTELLINA L., Un vivere comune in nome dell’alterità. Recensione a LE BELLE LEGGI, IL MANIFESTO, 6.11.2025

 Come ammette Niccolò Nisivoccia, parlare di«belle leggi» – parole che ha scelto persino come titolo del suo ultimo libro da domani in libreria per Laterza (Le belle leggi, pp. 176, euro 14) – «sembra un ossimoro». Perché le leggi non riconoscono solo diritti, bensì sono anche strumenti inevitabilmente coercitivi, che non è facile piacciano a tutti. Confesso che proprio per questo sento il bisogno di operare per proporre all’Onu – ammesso sopravviva all’attuale temperie – una nuova Carta che, anziché trattare dei diritti dell’uomo, tratti delle sue responsabilità. Più difficile, certo, ma indispensabili affinché chi reclama diritti sia consapevole che questi possono anche generare sopraffazioni. Un pericolo oggi fortissimo, visto il dilagare dell’individualismo che come sappiamo tende a ignorare l’altro, quale che sia.




PROPRIO PER IMPEDIRE che nelle leggi prevarichi la pretesa del singolo che vuole essere assecondato nella sua aspettativa, Nisivoccia insiste sul fatto che la funzione della legge debba sempre ed esplicitamente proporsi anche l’obiettivo contrario, e cioè assumere come «dimensione» il «vivere comune». Quanto suggerisce anche Zagrebelsky, alla cui visione deve avere certo contribuito la sua partecipazione alla straordinaria esperienza che mise in campo il cardinal Martini: le «cattedre dei non credenti», un singolare confronto fra laici e cristiani a proposito dell’ingiustizia, che è inevitabile se si parte dall’idea che la legge serva solo a proteggere l’individuo anziché mettere al primo posto la sua funzione relazionale e comunitaria. Questo è invece quanto oggi è più che mai necessario, per proteggerci dalla moltitudine di norme che ci si rovescia addosso, in questa «epoca dell’intranquillità», come la chiama Miguel Benasayag, e che Vittorio Lingiardi attribuisce a un’ondata di «narcisismo».

Per difenderci, Nisivoccia propone come esempio sette categorie di nuove recenti leggi «belle». Belle proprio perché prospettano «nuovi modi di vivere insieme», creano «fiducia», e che però, proprio per questo, implicano in chi le propone, «una formazione sociale, spirituale, storica ancor prima che giuridica», tale da rendere più chiaro a tutti come «dovrebbe esser un nuovo modo di stare al mondo insieme agli altri» (Tommaso Greco).

Fra queste, quelle cosiddette «riparatorie» e, in specifico, una, varata nel 2022, che all’inizio riguardava solo i minori, poi è stata estesa anche agli adulti e consiste nel fatto che il giudice dovrà prendere in considerazione più che gli aspetti giuridici della questione, e quindi il punto di vista dell’una o dell’altra parte, il contesto perché possa esserci una base da cui sia possibile derivarne se non una riconciliazione almeno una ricomposizione, nel senso di un riconoscimento del punto di vista dell’altro. In Italia, un esempio importante di giustizia riparativa è stato quello (precedente all’emanazione della legge) fra esponenti e vittime della lotta armata (questa esperienza è anche testimoniata da Il libro dell’incontro, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato, 2015).

PIÙ CAPACE DI PRODURRE conseguenze concrete quelle indicate nel capitolo «Ricominciare», fra cui quella che mira a non demonizzare coloro che falliscono, una concessione che un tempo era riservata solo ai grossi imprenditori, non invece ai piccoli, il cui fallimento veniva automaticamente considerato una colpa. Con tutte le conseguenze anche economiche che questo giudizio comportava, perché implicava un parere di non affidabilità. E così si è arrivati alla cancellazione della parola «fallimento», in effetti usata non solo per il commercio ma per indicare una brutta condizione in cui uno possa essersi trovato, non per sua colpa ma per via del fato. Può peraltro essere persino un insulto: «Sei un fallito!». Adesso, grazie alla nuova bella legge, il fallimento si chiama «liquidazione giudiziaria». C’è poi «l’accompagnare» che presuppone una fragilità che però non è più considerata inferiorità. Il «diversamente abile» cui ormai siamo abituati, viene da lì. E poi ancora altre.

L’importante che hanno in comune queste leggi – sebbene la prescrizione giudiziaria che prevedono non sia sempre in grado di modificare la sostanza della sentenza – sta nel fatto che possono introdurre un diverso, positivo mutamento nel modo di gestire il diritto operando per cercare di far prevalere l’idea che siamo una collettività. E però qui, da vecchia comunista quale sono, sorgono i miei dubbi sull’insieme di queste pur importanti innovazioni.

Perché rischiano di tacitare la denuncia di un aspetto nefasto del nostro sistema giuridico che continua a raccontarci la bugia che i diritti iscritti nei nostri Codici siano uguali per tutti, perché uguali non sono coloro che dovrebbero goderne per via della loro diversa collocazione nei rapporti sociali di produzione.

Il più chiaro degli esempi a favore di questa tesi è quello che portò un secolo e mezzo fa Marx nella lettera che inviò attaccando con insolita asprezza Lassalle in occasione del congresso di unificazione del partito socialdemocratico tedesco tenuto a Gotha nel 1875: il padrone e l’operaio.

NEPPURE la nostra Costituzione, che tuttavia facciamo bene a dire che è «una bella legge», sfugge infatti a questa discriminazione di classe, pur attenuata dal suo prezioso articolo 3 che riconosce la necessità di accompagnare ogni attribuzione di diritti con la raccomandazione di «rimuovere quanto nella realtà ostacoli la sua reale fruizione». Come in generale accade agli operai, che pure vengono indicati uguali ai padroni nella titolarità di quel diritto.

Si tratta dunque di denunciare l’«imbroglio del neutro», e cioè del fatto che come referente del diritto venga sempre assunto un soggetto che non esiste in natura, neutro per l’appunto, che è stato però disegnato tutto sull’identità di un maschio per di più agiato.

Ho introdotto anche «il maschio», perché oggi la differenza è eclatante. Riporto solo un esempio: in nome del diritto al lavoro e come risultato della battaglia condotta per imporre le «quote rosa», le donne sono negli ultimi tempi riuscite a entrare numerose anche in un settore importante come: quello del manager.

E però risulta che gli imprenditori uomini hanno figli al 95%, le donne solo poco più del 30. Forse non li volevano?, o non è che per ottenere il diritto a qualsiasi lavoro hanno dovuto rinunciare a un altro rilevante diritto: poter scegliere se fare o non fare bambini (che non è cosa di poco conto). Né potranno illudersi di veder riconosciuto tale diritto finché non verrà preso atto che in altre forme ma nello stesso modo, come l’operaio, hanno bisogno, per fruire davvero dei diritti codificati, di un mutamento profondo della società, una piena socializzazione del lavoro di cura senza la quale quel diritto resta sulla carta. O è possibile goderne soltanto al prezzo di una insopportabile fatica.

Non possiamo credo restare zitte/i su questo imbroglio a scapito di poveri e donne, tutti/e chiusi nella gabbia dell’identità di un soggetto inesistente chiamato cittadino che – figuratevi – consente ancor oggi al «sistema democratico liberale», all’atto del rinnovo dei negoziati per i contratti collettivi di lavoro, di misurare i danni alla salute che potrebbe subire una lavoratrice per via della prestazione chiamata a prestare in quella categoria sul corpo del maschio. Ancora oggi. Chissà come è il corpo di questo neutro cui ci si riferisce nelle leggi.

SIA BEN CHIARO: Marx nella sua storica critica al programma di Gotha non negava il valore delle conquiste in termini di diritti via via ottenuti sul piano normativo ma gli premeva rendere consapevoli che non è con le solo modificazioni giuridiche che si cambia un sistema. Si possono, certo, fare dei compromessi, che possono essere buoni o cattivi. Ma mi piacerebbe che, come è accaduto negli anni ‘60/’70 quando di diritti se ne sono strappati parecchi e importanti, il Pci, dopo aver magari per anni contrattato e mediato in Parlamento per giungere a un compromesso, arrivata in Aula la legge, votava contro.

Era un sacrosanto modo per rendere consapevoli che buoni compromessi vanno fatti, ma che contemporaneamente è necessario chiarire che l’obbiettivo che si persegue è molto più radicale. E cioè chiarire l’imbroglio del neutro e non scordarsi che quanto vorremmo fosse una società in cui la lotta di classe non fosse più necessaria. O almeno non ignorata.

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