Prendere in libreria tra le mani, con sorpresa, La speculazione edilizia, questo racconto-romanzo breve di Italo Calvino, che non conoscevo, comprarlo e leggerlo tutto d’un fiato è stata una felice-infelice scoperta.
Un testo veramente bello, intenso, elegante, intrigante, scritto a metà degli anni Cinquanta. La storia (semi autobiografica la definisce Calvino) di un intellettuale che nel Dopoguerra, in una città ligure di mare, nella riviera di ponente, di cui non si rivela il nome, subisce la mutazione che da ex partigiano comunista, lo conduce ad abbracciare un’opportunità affaristica, molto in voga in quel tempo, di vendere un terreno di proprietà ad un costruttore, per edificare una nuova palazzina, di fianco alla vecchia casa familiare, per realizzare un profitto che serva alla famiglia per superare gravosi impegni fiscali.
La vicenda si dipana nell’intreccio di un intenso confronto tra il protagonista Quinto, la famiglia piccolo borghese composta dalla madre professoressa in pensione e da un fratello Ampelio ricercatore universitario, ed il costruttore Caisotti, emblematico rappresentante di una specie tutta italica di imprenditori dell’edilizia, fattosi sa solo, perennemente in bilico tra intraprendenza e inaffidabilità, furbizia e cattiveria, vittimismo e violenza, paradigmatico del tipo di sviluppo caotico che il paese ha conosciuto dal Dopoguerra che ha condotto all’aggressione del territorio e soprattutto alla cementificazione delle coste, con tutte le conseguenze che sono sotto i nostri occhi.
La penna insuperabile di Calvino ci porta nei meandri della psicologia delle pulsioni nei rapporti interpersonali, ricercate sfumature di originali tipi umani, stati d’animo, desideri, contrasti, un’avvincente rappresentazione di uno psicodramma individuale e sociale
Un racconto che può essere letto come una propedeutica introduzione agli sviluppi che una delle nostre più gravi malattie, la propensione alla cementificazione, abbia i suoi cromosomi, in un’autentica mutazione anche di tipo antropologico, ovvero che il Paese dopo le speranze di cambiamento, attivate con la resistenza, la liberazione, la Costituzione e il ritorno alla piena democrazia, abbia subito abbandonato il percorso virtuoso di una società comunitaria, animata dalla pulsione all’arricchimento individualistico, senza guardare per il sottile e soprattutto cercando di aggirare tutte le norme e le limitazioni, soprattutto in materia urbanistica, paesaggistica e di difesa ambientale.
Ciò ha determinato un tipo di crescita tumultuosa ma disordinata e causa di gravi compromissioni territoriali che hanno pregiudicato la possibilità di sfruttare le belle risorse naturali in modo razionale e proficuo per le comunità, a vantaggio solo di proprietari delle aree, di speculatori e immobiliaristi.
La storia di Calvino finisce male con illusioni di ricchezza sfumate e frustrazione individuale e familiare, mentre il racconto si avvicina inesorabilmente per continuità e contiguità, all’odierna nostra realtà, alla persistente volontà di depredare il territorio, al fine di costruire senza limiti ovunque. Una pessima attitudine che non risparmia le grandi città come Milano, che di cemento corre il rischio seriamente di soffocare.
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