martedì 31 gennaio 2017

VIOLENZA E POLITICA. LE IRRIDUCIBILI DELLE BRIGATE ROSSE. LUGLI, PISTILLI, Le brigatiste irriducibili che non vogliono uscire dal carcere, LA REPUBBLICA, 31 gennaio 2017

 Irriducibili. Chiuse nel loro passato di sangue, si aggrappano con tutte le forze a ideali ormai frantumati, usano il linguaggio degli anni di piombo, si chiamano "compagne" tra loro e rifiutano, con ostinazione incrollabile, qualsiasi rapporto con le istituzioni e con quello che continuano a definire "lo Stato borghese". Potrebbero uscire dal carcere, in semilibertà o ottenere facilmente benefici di legge o permessi temporanei con una semplice domanda ma nessuna di loro lo fa. Vagheggiano la lotta armata, inneggiano alla rivoluzione, si trincerano dietro slogan ormai sbiaditi dal tempo nonostante la stragrande maggioranza dei loro ex compagni, quelli che avevano imbracciato le armi come tanti altri di una generazione perduta, siano ormai liberi, tra pentiti, dissociati, graziati, collaboratori di giustizia.

È un mondo a parte, un mondo in bianco e nero quello della sezione di Alta Sicurezza del carcere di Latina, tetro istituto di pena costruito nel 1934, un rettangolo di mattoni color rosa spento, circondato da una barriera di metallo, dove, dalla fine degli anni 80, sono detenute le ultime cinque brigatiste ancora votate allo scontro senza quartiere. Si chiamano Susanna Berardi, Maria Cappello, Barbara Fabrizi, Rossella Lupo e Vincenza Vaccaro, hanno tutte una condanna all'ergastolo sulle spalle e un curriculum fatto di arresti, sparatorie, omicidi e rivendicazioni. Sono sulla sessantina, non parlano con nessuno che rappresenti, in qualche modo, un'istituzione e, a guardarle, sembrano tranquille signore che si avviano alla terza età e che, in qualche modo, cercano di curare aspetto e forma fisica (qualcuna non rinuncia a truccarsi). Per il resto, chiusura totale. Negli ultimi mesi, al gruppo si sono unite altre due detenute politiche, Anna Beniamino e Valentina Speziale, provenienti dalle file del terrorismo anarchico. La stessa sezione di Alta Sicurezza, una versione un po' ammorbidita del carcere duro, è divisa in due piani: quella delle ex terroriste e quella delle donne condannate per mafia o narcotraffico. Nessun rapporto tra i due gruppi. Una sorta di gineceo blindato all'interno di un carcere maschile dove tutto sembra immobile da anni, il computer (ovviamente non collegato in rete) è arrivato soltanto di recente e poche delle detenute hanno mai usato un bancomat o un telefono cellulare.
Su questa piccola isola, unica nel suo genere nell'arcipelago carcerario, gravano alcune ombre, specialmente in un periodo in cui l'incubo del terrorismo nazionale e internazionale torna ad affacciarsi. Una sorveglianza a scartamento ridotto denunciata dal sindacato Ugl della polizia penitenziaria. "In tutta la sezione di alta sicurezza ci sono 35 detenute ma, per sorvegliarle, soltanto 13 agenti donne. Ne servirebbero almeno 4 o 5 per turno ma in servizio ce n'è soltanto una", denuncia il segretario nazionale Alessandro De Pasquale, che si è rivolto al prefetto di Latina e al Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. "In queste condizioni, garantire la vigilanza è praticamente impossibile".
Nadia Fontana, la direttrice del carcere, rifiuta educatamente, ma fermamente, qualunque colloquio con i cronisti. Eppure le sette recluse "politiche", almeno ideologicamente, non hanno mai deposto le armi e sono ancora un pericolo: nel corso delle indagini sull'omicidio di Massimo D'Antona, il giuslavorista assassinato a Roma, in via Salaria, il 20 maggio del 1999 (un omicidio che fu l'esordio di sangue delle Nuove Brigate Rosse), nelle celle delle irriducibili, a Latina, vennero trovate le bozze di un volantino di rivendicazione, scritte in parte a mano e in parte a macchina, nascoste tra le pagine di libri e riviste.
L'inchiesta si concentrò soprattutto su Maria Cappello, una figura emblematica del gruppo. Coinvolta nell'assassinio del sindaco di Firenze, Lando Conti, ucciso con 17 colpi di pistola il 10 febbraio 1986, è rinchiusa nella sezione di Alta Sicurezza da quando aveva 34 anni. Oggi ne ha 63. Ogni anno viene accompagnata con un mezzo blindato a Trani, per incontrare il marito, Fabio Ravalli, che sta scontando l'ergastolo per gli stessi reati, arrestato nell'88 in un covo di via della Marranella a Roma. "Anna", questo il suo nome di battaglia, aveva inventato una sorta di codice segreto, basato sul gioco degli scacchi, per sfuggire alla censura. A trovarla in carcere va, regolarmente, il figlio che abbandonò quando aveva 8 anni per entrare in clandestinità.
Costrette ad accettare i pochi incarichi remunerati disponibili, come la pulizia interna, le brigatiste, nel 2010, protestarono per la riduzione di queste opportunità: prima guadagnavano circa 400 euro e in seguito la paga si ridusse a 30. Ultimamente, grazie all'associazione Solidarte, si sono dedicate a lavori di artigianato in cuoio creando un piccolo marchio, "Pig" che ha un doppio significato: la pelle del maiale che usano per creare alcuni oggetti e la sigla "Pellacce in gioco".
Per far passare le interminabili giornate nelle celle singole e negli spazi riservati alla socialità, le ex terroriste hanno aderito per qualche tempo a un progetto dell'associazione "Centro Yoga e Shiatsu Shiayur". "Si sono consultate tra di
loro e hanno detto sì" spiega il direttore, Rosario Romano. "Le ricordo intelligenti, educate, collaborative. A un certo punto però decisero di smettere: continuare a seguire il corso voleva dire accettare le istituzioni che loro rifiutano". Irriducibili.




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I FUNERALI DI GALLINARI - 2013
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/19/brigate-rosse-tutti-gli-ex-militanti-ai-funerali-di-gallinari-foto/474925/

INTERVISTA A ERRI DE LUCA - 2009
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/lecce/notizie/politica/2009/25-giugno-2009/erri-de-lucala-lotta-armata-non-era-terrorismo-quegli-anni-fu-guerra-civile--1601501435511.shtml

INTERVISTA CON A. FARANDA - 2003
http://www.repubblica.it/online/cronaca/romafirenzedue/faranda/faranda.html

G. FERRARA: DI NUOVO LE BRIGATE ROSSE - 2007
http://www.la7.it/otto-e-mezzo/video/di-nuovo-le-brigate-rosse-13-02-2007-84662

Quel filo rosso Roma-Bologna
che lega il "fronte delle carceri"
Le intercettazioni nel penitenziario:
"L'unica possibilità è l'azione esemplare..."
di CARLO BONINI

ROMA - Il generale dei carabinieri Sabato Palazzo ha guidato per anni il Ros dell'Arma. Ne conosce i più recenti incarti. Oggi si occupa d'altro (è comandante interregionale dell'Arma in Puglia), ma sembra disporre di buone informazioni di cui non fare mistero. E' storia di ieri: ai cronisti che incontra a Bari spiega: "Riteniamo di avere una visione abbastanza chiara dell'organizzazione nell'ambito della quale è maturato anche l'omicidio di Marco Biagi". "Anche", perché "la struttura individuata a suo tempo dal Ros per l'omicidio D'Antona è in qualche modo la stessa che è implicata nel delitto Biagi. Hanno sparato con la stessa pistola e ci sono elementi raccolti in questi giorni che portano sempre in quella direzione. Il punto di partenza attuale dell'omicidio Biagi è completamente diverso da quello D'Antona, nel senso che abbiamo una base di attività già svolte che ci consente di poter fare dei buoni passi avanti nell'immediato".

L'effetto "annuncio" è di quelli robusti. Come appare tutt'altro che casuale l'accelerazione nella rincorsa delle parole che da martedì scorso non ha risparmiato uno solo dei terminali investigativi. Ma a cosa si riferisce il generale Palazzo? Di quale "struttura" parla? In quale anfratto sta rovistando oggi il Ros?

La risposta è in un nome e qualche curiosa coincidenza. Troppo poco evidentemente per poter affermare responsabilità di chicchessia, abbastanza per ingrassare un sospetto o radicare un'ipotesi investigativa. Vediamo.

Da qualche giorno, sul tavolo del comando del Ros una nota informa che se esiste un filo che incrocia le vicende D'Antona e in ipotesi Biagi, quel filo va tirato dal corposo e meticoloso incarto delle indagini della primavera scorsa condotte dalla Procura di Roma e dall'Arma a carico di otto militanti di "Iniziativa comunista" (oggi liberi con l'accusa di associazione sovversiva). Che quel filo passa per Bologna e attraversa l'esistenza e i legami di una signora di 55 anni. Si chiama Severina Berselli ed è la compagna di vita di Sante Notarnicola, classe 1938, entrato in carcere rapinatore (era nella Banda Cavallero) per essere qui formato negli anni '70 alla militanza brigatista.

Sui due nomi, per anni, gli uomini dell'Antiterrorismo si sono applicati con ossessiva costanza. Nelle loro biografie politiche, il Ros - e nel maggio scorso il gip di Roma Otello Lupacchini - rintracciava le stimmate di una militanza extraparlamentare ritenuta "prossima" o comunque "contigua" a quell'area di potenziale reclutamento della nuova leva del Terrore. Annotavano gli inquirenti: "La Berselli, già esponente di primo piano della "Associazione familiari detenuti comunisti", risultava con il marito nell'area di coordinamento dei "Comitati contro la repressione", della rivista "Il Bollettino dell'Associazione solidarietà proletaria" e del Centro di documentazione Il "Filo rosso" con sede a Bologna". Ma - ecco il punto - questo impegno aveva incrociato e incrocia, tra il giugno del '99 e le settimane scorse, una brigatista irriducibile: Maria Cappello.

Maria Cappello non è un nome qualunque. Militante delle Brigate rosse per il Partito comunista combattente, condannata all'ergastolo per gli omicidi del sindaco di Firenze Conti (1986) e del senatore Ruffilli (1988), è oggi detenuta a Trani. La sua cella, la notte del 20 marzo scorso, viene rovesciata come un guanto. Gli uomini dell'Antiterrorismo cercano qualcosa che somigli a quel che già nell'aprile dell'anno precedente hanno trovato (fogli di carta velina che contengono le bozze della rivendicazione dell'omicidio D'Antona). Cercano insomma un qualsivoglia pezzo di carta che dimostri la "continuità" tra gli irriducibili del fronte delle carceri e chi, all'esterno, non si è mai liberato del fantasma della lotta armata. Qualcuno - ipotizzano - ha continuato e continua a fare da postino. Se è accaduto per D'Antona, accadrà anche per Biagi. Al Ros, si riprendono in mano le trascrizioni dei colloqui in carcere di Maria Cappello con la donna che, negli ultimi anni, ha continuato a farle visita, la sua finestra sul mondo dei liberi: Severina Berselli da Bologna.

Di Severina Berselli e Maria Cappello si conosce il contenuto di almeno otto colloqui intercettati: il 15 ottobre e 20 dicembre 1999, il 19 febbraio, 15 maggio, 22 settembre e 30 ottobre 2000, il 29 gennaio 2001. Tutti all'interno del carcere di Latina (dove allora era detenuta la Cappello). Ma è stata annotata anche una visita in tempi più recenti. Nel carcere di Trani, dove la Cappello è stata trasferita dall'aprile dello scorso anno per consentirle la "socialità" con il marito Fabio Ravalli (altro irriducibile delle Br, come la moglie condannato all'ergastolo per gli omicidi Conti e Ruffilli).

I colloqui tra le due donne, nonostante la consapevolezza di essere probabilmente ascoltate, appaiono - almeno nelle trascrizioni che ne fa il Ros - espliciti. La Cappello - siamo nell'agosto '99 - spiega all'amica che "l'iniziativa D'Antona genererà un rallentamento del cosiddetto Patto di Natale" e che a legittimarla era sufficiente osservare come "tra tutte le iniziative che sono state fatte intorno alla mobilitazione della fabbrica, questa (l'omicidio D'Antona ndr.) è stata quella che maggiormente ha raccolto le tensioni in un certo modo". La Berselli, citando un tale "Franco" di cui l'Antiterrorismo non è mai riuscito a ricostruire l'identità, prova a ragionare su quale scenario apra l'omicidio di via Salaria e con quali implicazioni: "Ascolta, Maria, Franco diceva che la classe operaia nei paesi imperialisti è completamente integrata, non c'è più contraddizione. Di conseguenza l'unica possibilità è l'azione esemplare, come momento destabilizzante, perché intanto la cosa viene dai paesi del sud del mondo...che era un po' la tesi dei compagni della Raf".

Ma nelle conversazioni tra la Cappello e Berselli - annota ancora il Ros - fa ingresso, più volte, anche il rapporto tra i militanti Br che nelle carceri continuano a proclamarsi "prigionieri politici", l'organizzazione esterna e le scelte assunte in quel momento da Giuseppe Maj, bergamasco, una vita nella sinistra extraparlamentare, leader dei Carc e fratello di Luigi, latitante riparato a Parigi. La Berselli chiede se la Cappello riceva in carcere la pubblicistica dei Carc (E lei: "Mi sa che non riceviamo più niente") per poi spiegarle con quella che sembra un'ombra di sorpresa: "Quelli di Milano fanno degli opuscoli. Dentro fanno discorsi... cioè, parlano di clandestinità... E poi se hai visto la rivista "Resistenza" c'è quell'articolo soggettivisti eccetera, un articolo legato alla storia di Roma, riferito proprio all'azione (l'agguato a D'Antona ndr.)".

Dove e se porterà da qualche parte il filo tirato dal Ros si vedrà. A sentire Palazzo, l'Arma sembra crederci.

(26 marzo 2002)







DUEMILA ANNI DI CARCERE, 26 ERGASTOLI

13 ottobre 1988 LA REPUBBLICA


ROMA Ventisei ergastoli, centoventisette condanne che vanno da 30 a pochi anni, venti assoluzioni e infine, pene minori per i pentiti come stabilisce la legge. In totale sono stati comminati, complessivamente, circa 1800 anni di carcere. Questo il consuntivo della sentenza emessa ieri dalla Seconda Corte di Assise presieduta dal dottor Sergio Sorichielli a conclusione del processo Moro ter, un processo che ha trattato numerosi delitti commessi dalla colonna romana delle Br, a cominciare dall' uccisione dello statista democristiano. Dopo un dibattimento, durato circa due anni, il dispositivo é stato letto ieri, nell' aula bunker del carcere di Rebibbia, al termine di una camera di consiglio durata 9 giorni. La lettura é durata oltre cinque ore, un elenco interminabile di imputati, di reati commessi tra il 1978 e il 1983 e di pene comminate. Tra gli imputati c' erano i brigatisti irriducibili, i dissociati dalla lotta armata, i pentiti. Cominciamo dai 26 ergastoli. Al carcere a vita sono stati condannati i brigatisti: Barbara Balzarani, Giovanni Senzani, Rita Algranati, Vittorio Antonini, Susanna Berardi, Roberta Cappelli, Marcello Capuano, Alessio Casimirri, Renato Di Sabbato, Eugenio Pio Ghignoni, Carlo Giommi, Vincenzo Guagliardo, Maurizio Jannelli, Cecilia Massara, Paola Maturi, Franco Messina, Luigi Novelli, Alessandro Padula, Remo Pancelli, Alessandro Pera, Marina e Stefano Petrella, Nadia Ponti, Pietro Vanzi, Enrico Villimburgo (di recente arrestato a Parigi insieme a Giovanni Alimonti), Paolo Sivieri. Per quest' ultimo il pm aveva chiesto l' assoluzione per insufficienza di prove, la Corte, invece lo ha ritenuto responsabile dell' omicidio dell' agente di custodia Raffaele Cinotti. Tra le altre condanne da rilevare, innanzi tutto, quella dell' ex senatore socialista Domenico Pittella, presente in aula alla lettura della sentenza. E' stato condannato a 12 anni e sei mesi di reclusione. Come direttore sanitario di una clinica aveva curato la brigatista Natalia Ligas, rimasta ferita durante l' attentato all' avvocato Antonio De Vita, difensore del pentito Patrizio Peci. Inoltre era accusato di aver programmato un piano con le Br di Giovanni Senzani per sequestrare l' assessore regionale Schettini, suo compagno di partito.La Corte lo ha anche condannato a 140 milioni di lire da risarcire alle parti lese e, tra queste,la Regione Basilicata. Ventidue anni ad Alimonti Una condanna a 10 anni è stata inflitta all' avvocato Giovanna Lombardi ritenuta colpevole di reati associativi, mentre per l' ex centralinista della Camera, Giovanni Alimonti, la pena é di 22 anni. Ma ecco l' elenco delle principali condanne: Vittorio Bolognesi (30 anni), Enzo Calvitti( 21 anni), Francesco Caviglia (22 anni), Domenico Delli Veneri (16 anni e dieci mesi), Antonino Fosso, arrestato di recente all' Eur mentre stava organizzando un attentato forse all' on. De Mita (8 anni e sei mesi), Prospero Gallinari (17 anni e sei mesi), Natalia Ligas (30 anni), Francesco Lo Bianco (30 anni), Maurizio Locusta (13 anni e un mese), Antonio Marini (5 anni), Giorgio Panizzari (16 anni e dieci mesi), Francesco Piccioni (6 anni), Fabio Raccosta (13 anni e un mese), Salvatore Ricciardi (27 anni), Giuseppe Scirocco (27 anni), Giorgio Semeria (16 anni e dieci mesi), Franco Varanese (12 anni) e Lino Vai (9 anni). A Renato Curcio, presente in gabbia i giudici hanno inflitto 16 anni e dieci mesi, mentre a Mario Moretti la condanna é di 30 anni. Quattro imputati, grazie alla decisione di dissociarsi dalla lotta armata, pur riconosciuti colpevoli di gravissimi reati, hanno evitato la condanna all' ergastolo. La pena ridotta a 30 anni é stata inflitta a Odorisio Perrotta, Giorgio Baciocchi, Giorgio Benfenati e Manuela Villimburgo, sorella del br condannato all' ergastolo. Sconti di pena significativi sono stati applicati per i venti pentiti che appartenevano alla colonna romana delle brigate rosse. Queste le condanne che la Corte ha riservato agli imputati che durante la lunga istruttoria hanno collaborato con la giustizia : Roberto Buzzati (16 anni), Loris Scricciolo (16 anni), Giuseppe Palamà (16 anni), Walter Di Cera (16 anni), Viero Di Matteo (21 anni), Matilde Carli (12 anni) Massimo Corsi(13 anni), Annunziata Francola (21 anni), Pasquale Giuliano (3 anni), Emilia Libera (15 anni), Antonio Savasta (10 anni), Emilio Manna (6 anni), Giovanni Marceddu (11 anni), Nicola Mariani (7 anni), Antonio Marrocco (12 anni), Michele Pigliacelli (12 anni). I due giornalisti del settimanale l' Espresso Giampiero Bultrini e Mario Scialoja che furono arrestati per aver avuto un incontro con il br Giovanni Senzani sono stati assolti insieme ad altri venti imputati. Si tratta di Giorgio Vanzi, Enrico Triaca, Saverio Saporito, Giancarlo Starita, Ottaviano Pezzetta, Ivano Moroni, Roberto Paolucci, Ugo Melchionda, Rosario Albano, Sergio Bartolini, Spartaco Brancale, Nicola De Lussu, Giuseppe Di Biase, Pierina Di Giulio, Silvano Favi, Antonio Ianfasci, Stefano Laudenzi, Arnaldo Linterni, Loredana Marrari e Andrea Tusiello. Al termine della lettura della sentenza, l' avvocato Nicola Buccico, che nel processo ha difeso la Regione Basilicata costituitasi parte civile in relazione al presunto progetto di rapimento dell' assessore regionale Fernando Schettini da parte delle brigate rosse ha detto che la legittimità della presenza della Regione quale parte civile esce collaudata dalla sentenza emessa che ha sancito l' esistenza di gravi elementi di responsabilità emersi durante l' istruttoria. Inoltre il penalista ha affermato: I contrasti fra l' ex senatore socialista e ex presidente della commissione sanità del Senato, Domenico Pittella, e la Regione Basilicata in ordine al destino della clinica delo stesso Pittella a Lauria, in provincia di Potenza; i rapporti con i terroristi Ligas e Senzani e il programmato sequestro dell' assessore Schettini sono solo alcuni degli aspetti patologici di una vicenda estranea al costume politico della Basilicata. Per conoscere nei dettagli l' operato della Corte di Assise occorrerà attendere le motivazioni della sentenza. Il processo ha tratto origine da una maxi istruttoria scaturita dalle indagini sulla vicenda Moro ma che ha preso anche in esame tutta una serie di episodi criminali attribuiti alla colonna romana delle br dal febbraio ' 77 alla fine del 1983. Tra i principali reati contestati agli imputati figuravano l' omicidio del generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, il rapimento del magistrato Giovanni D' Urso, l' attentato all' ex vice capo della Digos, Nicola Simone, inoltre rapine e furti.
di FRANCO SCOTTONI



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