mercoledì 4 novembre 2020

BREVE CRONACA DEGLI ANNI DELLE PASSIONI TRISTI. 11. TELEVISIONE POLITICA SOCIETA' ITALIANA. DALLA TV DELLA PRIMA REPUBBLICA ALLA TV COMMERCIALE. M. SALVATI, L'egemonia televisiva, LA REPUBBLICA, 4 dicembre 2003

 PER capire come mai in Italia si litighi tanto attorno alla televisione, ben al di là della ricca predazione berlusconiana sul mercato dei media, e perfino al di là del pur nevralgico dibattito sulla libertà d'espressione e di informazione, basta sintonizzarsi, a notte alta, su qualche replica della vecchia Rai, in qualche nicchia satellitare. Quella televisione era il contrario di questa. Come la riforma agraria, come il dirigismo Iri sull'economia, esprimeva una vocazione pedagogica e un'aspirazione sociale.

Alberto Lupo e A-M. Guarnieri ne LA CITTADELLA, adattamento TV del 1964
Intervista di A. Gnoli a A-M. Guarnieri (2014)




Si rivolgeva agli ex contadini per alfabetizzarli e affrancarli dal dialetto, ai nuovi ceti medi urbani per acculturarli. Divulgava Manzoni e Cronin, Omero e Dostoevskij, Collodi e Simenon. I comici come Walter Chiari e Fo erano affabulatori torrenziali, i modi e i tempi erano quelli del teatro. E, come diceva Gaber, arrivava al sabato sera televisivo solo chi aveva già superato da anni l'esame del pubblico. Quella televisione, per dirla in breve, esprimeva una classe dirigente, dunque una gerarchia (censura compresa, ovviamente).


La tv commerciale, fin dal suo nascere, è stata antigerarchica. Ha annullato nel volgere di pochi anni la divisione tradizionale tra protagonisti e pubblico, fungendo da potentissimo moltiplicatore dei modi di dire e di pensare del nuovo ceto dei consumatori. Una specie di basic-television, populista e impulsiva quanto il monopolio pubblico era stato precettoso e azzimato, demagogica e impolitica quanto la Rai lottizzata era un (discusso) simulacro della democrazia dei partiti. Da veicolo di orientamento politico e digrezzamento culturale, con Mediaset la tv diventa pura rappresentazione dell'entusiasmo produttivo-consumistico del secondo boom.


Un'immagine dal film di N. Moretti IL CAIMANO (2006)



Che questa rivoluzione dei gusti, dello stile, del linguaggio, della natura stessa del piccolo schermo fosse dirompente, specchio della rivoluzione piccolo borghese che stava spazzando via il tradizionale duopolio borghesia/classe operaia (e relativi valori) nel quale l'Italia repubblicana era nata e cresciuta, apparve chiaro fin dai primi passi della tv berlusconiana. Ha perfettamente ragione chi sostiene che la vera discesa in campo fu di parecchio antecedente a quella finalmente politica del ?94: quando Berlusconi fonda un partito, la sua base è già plasmata e orientata da palinsesti esplicitamente, allegramente devoti alla way of life subamericana della nuova Italia affrancata da ansie culturali e remore solidaristiche.

Lo strappo identitario è storico. Ha anche i suoi meriti: l'ipocrisia cattolica e il moralismo comunista (ah, quel Berlinguer che boccia la tv a colori?) erano una griglia malsopportata, e anacronistica, per un paese secolarizzato e avido di benessere, in fondo passato in una sola generazione (con conseguenti traumi da crescita forzata) dalla penuria al benessere. Ma nella volgarità formale e sostanziale dell'estetica berlusconiana, in quell'ingordigia vanesia e incauta, da quattrino facile, da successo disinvolto, un pezzo di Italia ha individuato da subito, per istinto, per carattere, un nuovo conformismo, acritico e aggressivo, antipolitico e anticulturale. L'antiberlusconismo, come il berlusconismo, è di molto antecedente a Forza Italia. E vedere la Rai prima spiazzata, poi spaesata, infine sciaguratamente convinta di poter concorrere con Mediaset non cercando nuove differenze (o rimarcando le antiche), ma scimmiottandone i format e lo stile, è stato uno dei segnali forti, forse il più forte di tutti, che una nuova egemonia era instaurata, quella del consumo e del denaro come soli valori forti.

In fondo alla china (o in cima alla scalata vittoriosa, a seconda dei punti di vista) la Gasparri benedice un assetto mediatico nel quale il servizio pubblico è stato dapprima snaturato culturalmente, poi assoggettato ai vincitori. I malumori e l'autentico sdegno di mezzo paese attorno a questa sinistra uniformità non corrispondono solamente ai famosi "timori per il pluralismo", che pure ispirano una legittima ansia. Descrivono, anche, lo smacco e il lutto per un'identità perduta, la paura di non trovare più, sullo schermo domestico, qualcosa che rassomigli alla storia e ai gusti degli sconfitti, l'amarezza per una capitolazione storica, quella della Rai-Rai, tv pubblica e cioè preservata almeno in parte dalla maledizione dell'audience, la Rai nella quale si era assunti, mica un secolo fa, dopo un colloquio con Pasolini o Zavoli o Eco, e adesso ha stabilito il suo Fort Alamo presso i giochini ameni di Bonolis, e nel suo quartier generale, ci si perdoni lo schematismo, vede sedere lo stato maggiore del nemico. Temendo il Tapiro d'Oro come supremo affronto, gavettone interno alla stessissima compagnia di giro, quella che ha deciso che la tv non serve per fare gli italiani, come credevano forse pateticamente i vecchi dirigenti pubblici, ma serve per fare i soldi, come credono tutti, esattamente tutti, nell'anno primo dell'Era Gasparri, anno ennesimo dell'Era Berlusconiana.

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