Non che da noi gli attacchi agli interessi materiali di chi sta peggio manchino, anzi. Lo smantellamento del reddito di cittadinanza, il via libera all’evasione fiscale di sopravvivenza», la riforma Irpef, il de-finanziamento della sanità pubblica e l’autonomia differenziata, rappresentano un’erosione delle condizioni materiali perfino più marcata di quella prevista dalla riforma Macron.

La reazione delle piazze francesi è dovuta a due elementi cruciali, assenti in Italia.

Il primo riguarda l’incapacità di reazione alle violazioni della cosiddetta «economia morale». Con questo concetto, lo storico E.P. Thompson, nel suo lavoro sulle rivolte inglesi del 18° secolo, spiegò le azioni di protesta collettiva circa la distribuzione di generi di prima necessità andando oltre gli interessi materiali.

Oltre a questi, che svolgevano certamente un ruolo, la veemenza e la pervasività delle proteste erano da ricondurre alle violazioni da parte delle élite dei loro obblighi verso la collettività. Contava quindi il senso di giustizia verso tali obblighi e il senso morale che pervadeva la vita quotidiana delle classi popolari.

La riforma Macron è profondamente ingiusta, come hanno ben spiegato Mauro Napoletano e Andrea Roventini . La riforma lede dei basilari principi di giustizia sociale: il suo peso sarà assorbito dai lavoratori con titolo di studio più basso e che hanno quindi iniziato a lavorare prima. Si tratta di persone con un’aspettativa di vita più bassa e, per questo, la riforma aumenterà le diseguaglianze sociali. Inoltre, essa si inserisce in un contesto di sostanziale tenuta del sistema pensionistico e non trova quindi giustificazioni contabili.

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Quanto al peggioramento del rapporto deficit/pil seguito alle spese per contrastare l’emergenza Covid-19, non si vede perché questo debba essere coperto colpendo categorie non certo privilegiate, invece che tramite un prelievo fiscale su chi sta molto meglio. La violazione dell’economia morale – del senso di giustizia e di ciò che viene percepito come obbligo verso la collettività – è in Italia molto meno rilevante.

Gli italiani si caratterizzano per il combinato disposto di bassa fiducia verso le istituzioni, scarsa fiducia interpersonale e una più elevata fiducia verso le «cerchie a corto raggio», tipicamente quelle famigliari e parentali. È, questa, la condizione peggiore per l’azione collettiva. Nel nostro Paese è più facile indignarsi per un brutto voto dato ai propri figli, che per lo smantellamento della scuola pubblica. L’idea di «mio figlio a scuola» e quella relativa a «la scuola di mio figlio», seguono percorsi separati.

La seconda condizione è complementare alla prima e riguarda l’indebolimento delle organizzazioni di rappresentanza, il cui ruolo è proprio quello di dare forma all’azione collettiva anche in presenza di queste debolezze strutturali. Storicamente è stato così: la presenza di un sindacato forte e di un partito comunista forte ha permesso di «riempire le piazze» anche in presenza di questi limiti nella capacità di protesta collettiva degli italiani, per default impegnati a difendere il particulare. Oggi, le piazze sono vuote perché la rappresentanza sociale e quella politica sono deboli.

Quanto alle organizzazioni sindacali, manca oggi in Italia un sindacato aduso al conflitto sociale e con capacità di rappresentanza ampia e trasversale dei lavoratori.

Stefano Ungaro ricorda impietosamente che circa la metà degli iscritti Cgil sono pensionati, contro il 20% della Cgt. Quanto alla rappresentanza politica, Melénchon è stato votato al primo turno delle presidenziali da più del 20% dei francesi, con una sovra-rappresentazione nella fascia di età 18-34 anni. La “France Insoumise” sta giustamente cavalcando le proteste di piazza contro la riforma Macron, in ossequio all’idea liberale che la democrazia non si esaurisce nel momento del voto.

Decidere per il popolo e governare con il popolo sono due operazioni non perfettamente sovrapponibili. Nulla di tutto ciò è presente in Italia. Gli italiani hanno «rinunciato a pensare di poter essere loro lo Stato», scrive Fabrizio Tonello su questo giornale (5 aprile).

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La mancanza di capacità mobilitante delle organizzazioni di rappresentanza, tanto sociali che politiche, non contrasta la tendenza di lungo periodo degli italiani a difendere l’utile delle loro «cerchie strette». Per questo, per ora, le nostre piazze rimangono vuote.