martedì 26 gennaio 2016

STORIA MORALE D'ITALIA. GLI ANNI OTTANTA IN UN SAGGIO APPENA USCITO. M. DAMILANO, Maledetti anni Ottanta, L'ESPRESSO, 22 gennaio 2016


L’ultimo numero della rivista “Il Paninaro” uscì il 4 dicembre 1989, un mese dopo la caduta del muro di Berlino, alla fine di quegli anni «afferrati, già scivolati via, vuoti come lattine abbandonate» di cui - e non solo secondo Raf - si pensava che non sarebbe rimasto niente.




«L’importante è stato esagerare, curare ogni aspetto della nostra immagine come in una foto di moda... Teniamoci di questi anni quello che più ci piace: una maggiore attenzione ai fatti di costume, una più viva e reale voglia di stare insieme, di divertirci, di guardarci intorno senza distogliere lo sguardo quando sotto i nostri occhi il mondo apparirà diverso da come lo vorremmo», intonò il de profundis per gli anni Ottanta Davide Rossi, futuro manager di associazioni confindustriali, all’epoca autore dell’imprescindibile “Guida al paninaro”, la magna carta della generazione Moncler: «Il cucco è giustificazione e fondamento di ognuno di noi. L’Essere si fa sempre più straordinariamente leggero, l’habitus diventa animus, l’immagine resta lo stendardo sempre cangiante del nostro modo di vivere e di pensare...».

Leggeri, si diceva all’epoca, perché la liquidità non era stata ancora sdoganata come luogo comune del dibattito intellettuale. E invece gli anni Ottanta sono qui, tra noi. Solidi. Pesantissimi. I figli del decennio hanno scalato la vetta, sono la nuova classe dirigente, la razza padrona. Come era successo ai predecessori del ’68, la loro immaginazione è andata al potere. E punta a restarci altrettanto a lungo.

Politicamente in Italia gli Ottanta cominciano con un anno di ritardo: nella primavera del 1981. «Diciamo no al piagnisteo nazionale dell’emergenza. Mentre nella vetrina ufficiale campeggiava la dottrina della grande crisi con le sue nuvole d’angoscia, la realtà, quella vera, camminava sui binari di un solido galleggiamento fino alle punte di una notevole espansione che hanno caratterizzato i due anni trascorsi», scandisce Bettino Craxi al congresso di Palermo, il primo della nuova era con il restyling nel simbolo, con un garofano alto quindici metri che l’architetto Filippo Panseca, new entry alla corte del leader, innalza sul Monte Pellegrino e bandiere dappertutto: «I garofani su tutti i vetri? Era una sala grigia, con tante finestre: così è diventata più viva».


L’anticipo delle tante scenografie inventate dall’architetto del Garofano nel decennio: lo psichedelico congresso di Verona del maggio 1984, con Craxi presidente del Consiglio, specchi e lustrini ovunque, «la Maxidiscoteca del Decisionismo craxiano», la definisce Giampaolo Pansa su “Repubblica” (in quel congresso il segretario del Pci Enrico Berlinguer viene fischiato dai compagni socialisti, morirà un mese dopo), il tempio di Rimini del 1987, la piramide telematica del congresso di Milano del 1989. Sembrano le pacchianate di un megalomane, sono un anticipo del futuro.
Vanno ritrovate negli anni Ottanta le radici del nostro presente, scrive Paolo Morando, giornalista del “Trentino”, nel libro appena pubblicato da Laterza dal titolo significativo: “’80. L’inizio delle barbarie”. Seguito ideale del precedente lavoro di Morando sui “dancing days”, il biennio 1978-79 in cui l’Italia passa dagli anni di piombo al riflusso, dalle P38 e dal sequestro Moro alle lettere private sui giornali e alla febbre del sabato sera. In contrasto con altri studi decisamente più positivi (Marco Gervasoni, “Quando eravamo moderni”, Marsilio, 2010).

Va cercata lì, negli anni Ottanta, scrive Morando, la lunga incubazione dell’Italia becera, l’Italia rampante, l’Italia razzista vista in azione negli anni successivi. Le ingiurie, la volgarità, l’odio per il diverso oggi dilagano senza freni sui social network, si muovono sulla rete, ieri correvano sul filo del telefono. Lunedì 14 luglio 1986 Radio radicale decide di mandare in onda le telefonate ricevute sulla segreteria telefonica dell’emittente ed è subito scandalo.

Da Nord a Sud improperi, insulti, bestemmie, apologie del fascismo. «Propongo un nuovo sport: il tiro al terrone», chiamano dal Piemonte. «Pertini sei uno stronzo. Merda. Viva il Duce», precisa un ascoltatore del Nord. E da Roma concludono: «Grazie tante e pijatevelo in culo».

Carinerie destinate a essere soppiantate dalle risse televisive e dalla violenza degli anonimi frequentatori di Internet. Ma degli anni Ottanta sopravvive nella memoria una strana stagione di prosperità e di abbondanza. «Cosa sono stati veramente gli anni Ottanta? L’unico decennio in cui per attraversare la strada bisognava indossare scarpe da barca e contemporaneamente un giubbotto da sci senza che questa fosse la contraddizione più grande», ha scritto Andrea Salerno in “Ottanta” (Rizzoli, 2006).

Icone pop: Quelli della Notte di Renzo Arbore e il triplete diPaolo Rossi contro il Brasile nei mondiali di Spagna del 1982 (eppure mai la memoria dei ragazzi degli anni ’80 ha cancellato l’egemonia di Italia-Germania 4 a 3 del 1970 tramandata dalla generazione precedente), i Duran Duran e gli Spandau Ballet, le lezioni americane di Italo Calvino e l’opera di Roberto D’Agostino (con Lucia Castagna) “Look parade” sugli smodati anni ’80. E il piccolo film generazionale di John Hughes “The Breakfast club”, con cinque studenti di un college americano messi in punizione a svolgere il compito: «Chi sono io?».

Stiamo da trent’anni a chiedercelo. E la risposta è diventata urgente, ora che i ragazzi degli Ottanta diventati grandi governano, dirigono giornali e reti televisive, comandano. Craxi è stato il primo leader della storia repubblicana a giocare a piene mani sul tavolo da poker della politica italiana la carta della personalizzazione: la mutazione genetica di un partito secolare, il rinnovamento, l’ottimismo. Ma era un uomo nato negli anni ’30 del Novecento, pienamente inserito nel secolo delle divisioni a sinistra. Discoteche e piramidi, ma anche il saggio su Proudhon contro Marx pubblicato dall’“Espresso”.

Silvio Berlusconi è stato il costruttore dell’immaginario degli anni Ottanta italiani. Il monopolista della tv commerciale e della pubblicità, ha impersonato la Milano da bere e “Drive In”. «Il suo autore, Antonio Ricci, durante il maggio francese aveva avuto diciott’anni, e aveva naturalmente manifestato e ciclostilato e cineforumizzato... il suo programma degli anni Ottanta non fu il tradimento della sua vita precedente, semmai al contrario la sua realizzazione più profonda - così come ci si era avvolti nel vento caldo della contestazione, adesso si tendevano le vele per sfruttare il vento gelido, che di quel vento caldo era stato il mandante, il vero soffio d’alimento... La risata che ci avrebbe dovuti seppellire tutti quanti era arrivata», ha scritto Nicola Lagioia, classe 1973, nel romanzo “Riportando tutti a casa” (Einaudi, 2009). Oggi sono al vertice della scalata al cielo i figli di quel decennio. E ne portano nel dna il patrimonio genetico: l’individualismo, il pragmatismo, l’essere cresciuti nella stagione della fine delle ideologie, della dispersione delle antiche forme organizzative.


L’ambiguità verso il passato. Matteo Renzi ha raccontato nel suo primo discorso alla Camera, il 25 febbraio 2014, chiedendo ai deputati la fiducia per il governo, di aver visto per la prima volta l’aula di Montecitorio in televisione il giorno in cui fu eletto presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il 24 giugno 1985, quando aveva da poco compiuto dieci anni.

Nell’estate scorsa, parlando al meeting di Rimini di Comunione e liberazione, teatro di svolte politiche e ecclesiali partito all’alba degli anni Ottanta, il premier quarantenne si è lasciato sfuggire una ben più significativa riflessione: «Fino agli anni Novanta l’Italia ha permesso a chi aveva voglia di provarci di fare le cose, con tutti i limiti e con le difficoltà, con tutte le contraddizioni e con tutte le inquietudini che ci sono state... Poi si è creato un meccanismo infernale per cui si è cercato di bloccare tutto, si sono scritte regole della pubblica amministrazione che non hanno impedito a chi voleva farlo di rubare, ma paradossalmente hanno impedito a chi voleva fare le cose vere di farle semplicemente».

E mai si era ascoltato un politico italiano fare un elogio così entusiasta del laissez-faire all’italiana di quel decennio, con i suoi frutti avvelenati, il debito pubblico, la devastazione ambientale, la tolleranza verso la mafia e la corruzione. L’eredità degli Ottanta che pesa oggi sulla nuova Italia

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