giovedì 13 novembre 2025

FILOSOFIA POLITICA. UN CONVEGNO SU MARIO TRONTI. PROSPERO M., Mario Tronti, una vita contro in cerca di un altrove, L'UNITA', 13.11.2025

 “Mario Tronti e il Novecento”, è il titolo del convegno dedicato al pensatore operaista, che si terrà dal 14 al 16 novembre a Roma, nella Sala del Treno, Centrale Montemartini, in via Ostiense 106. Tra gli altri interverranno Ida Dominijanni, Massimiliano Smeriglio, Claudio De Fiores, Rita Di Leo, Franco Milanesi, Giacomo Marramao, Luca Basso, Maria Luisa Boccia, Michele Filippini e Michele Prospero, che qui di seguito ragiona sulla figura del padre dell’operaismo.


Cosa lega il giovane Mario Tronti, che nel celebre convegno gramsciano del 1958, davanti a Togliatti e al fiore della cultura (non solo) italiana, pronuncia un intervento molto critico sullo storicismo allora dominante, al novantenne con accenno di barba ribelle che riflette, col giudizio disincantato di sempre, attorno alle antinomie del mondo? Oltre sessant’anni di riflessione hanno suggerito a taluni interpreti una chiave di lettura lecita ma alquanto scontata: quella che registra l’esistenza di molteplici Tronti, uno per ogni curva attraversata dal suo pensiero.

Lui stesso, però, menzionando le curiosità svariate e gli innesti apportati alla ricerca, rifiutava di inquadrare la propria vicenda intellettuale come una successione di maschere nella quale ad ogni nuova figura veniva dato il compito di sostituire la precedente mediante repentini ri-cominciamenti. Secondo Tronti, “tutto questo accidentato percorso di matta e disperatissima ricerca – operaismo, autonomia del politico, teologia politica, spiritualità e politica, grande pensiero conservatore, urlo di profezia, concretezza di utopia e perfino monachesimo combattente – ha in sé un filo che lega i passaggi, gli attraversamenti, tutti mirati a un al di là rispetto a questo tipo di mondo, a questo tipo di vita”.

Non si tratta di negare l’incombenza di cesure, scostamenti, evocando una lineare accumulazione di tante suggestioni in apparenza così eterogenee. Nondimeno è individuabile una mappa che conferisce un senso unitario a un cammino teorico-pratico all’insegna di una inquieta critica dell’esistente. “Provando e riprovando”, con aggiustamenti di tiro e finanche con correzioni di rotta, Tronti ritiene di aver inteso, negli anni, “scovare anche nella contingenza il varco di uscita dal qui e ora”. Ecco dunque la continuità di accenti, la rivendicata fedeltà persino, consegnata ad una scelta ideale originaria: la fabbrica e il convento, Lenin e i monaci, la piazza e il palazzo, la preghiera e la polvere, indicano diversi luoghi o ragioni che appartengono ad una medesima, confermata passione. Quel che resiste ad ogni svolta sta “dietro, a fondamento, solido perché costruito sulla roccia”, ossia “il punto di vista di parte, conquistato una volta per tutte, in giovane età”.

Il basamento materiale, il sostrato che nella sua durezza permane identico al cospetto delle variazioni degli accidenti e delle categorie del politico, è la classe, insieme alla prospettiva parziale che il grande soggetto partito (il movimento operaio) ha elaborato su di essa. Classe e partito, questi sono i referenti del pensare di parte che, esplorando l’esistenza sociale, setaccia pure codici appartenenti ad altri linguaggi, utili per calibrare le astrazioni determinate in vista di una rivolta, di una redenzione. Introdurre la classe significa abbozzare un pensiero che si rivolge contro i rapporti di forza favorevoli al capitale. “In una società polarmente divisa, per pensare, per fare, per vivere, non c’è altra risorsa che questa. Anche senza più le classi organizzate, anche senza la rappresentazione data dalla lotta di classe, l’odio di classe rimane. È la motivazione della propria ragione e della propria passione. Passione e ragione in divergente accordo” (Tronti).

Sulla scia di Dante e Machiavelli, il sentimento di odio è costruttivo di legami. Le dinamiche della inimicizia sono le matrici inestirpabili dell’autentica militanza politica. Non si accende l’agire collettivo, dando vita ad una coinvolgente pratica di massa, senza l’impulso empirico dello spirito di scissione. Anche nel quadro di una democrazia liberale, avverte Tronti, nulla di sostanziale vieta la organizzazione e il conflitto, la lotta e la divisione. La felice doppiezza va manovrata con cura come categoria costitutiva della politica. Essa aiuta a schivare le reti di un deleterio “immanentismo politico”, che firma la resa incondizionata al “presentismo assoluto”. Proprio la malfamata nozione di doppiezza, saldando “il già” e “il non ancora”, consente di esibire le legature con “il miserabilismus del nostro tempo” e di progettare il trascendimento di un universo inospitale

Negli anni 80, prima della tragica chiusura dell’esperimento di fuoriuscita tentato nel Novecento, la mutazione sistematica del capitale ha stabilizzato, adagiandole su basi nuove, le sue antiche logiche funzionali. Il ceto politico ed intellettuale della sinistra, sedotto dalle alchimie magiche di ricchezza e potere, ha disarmato la classe e reciso ogni dimensione etica della politica (la sola che conferisce “una rigorosa interiore bellezza” al prendere parte allo scontro). Con l’abbandono di ogni critica di sistema, i gruppi dirigenti sono precipitati nel vortice di una deriva antropologica, in un “lento, graduale, totalizzante processo di imborghesimento”. Il tradimento delle élite, in nome della truffa del “pragmatismo e responsabilismo”, è per Tronti una delle fonti del vuoto assoluto di ogni “punto di vista antagonistico”. È questo deserto ad aver alimentato il populismo e l’antipolitica, con le loro schematizzazioni binarie fittizie, sganciate dalla critica dell’economia politica. Per tornare a pensare contro il capitale, servono strappi e ricongiungimenti con la tradizione.

Più che lo “stanco discorso sull’egemonia”, illumina il giovane Marx critico radicale di tutto ciò che esiste. Muovendo dalle sue pagine, che spalancano la visione di un oltre, è utile comunque aggiungere altre testimonianze. Nel laboratorio per lo smascheramento del dominio può capitare di “andare a scuola del nemico”. Così Tronti parla delle sue intersezioni teoriche: “Il realistico discorso, moderno, di autonomia del politico ha trovato una sponda nelle antiche, eterne, dimensioni trascendenti disegnate dai discorsi di profezia e utopia. La teologia politica ha funzionato come mediazione di passaggio. La secolarizzazione dei concetti politici ha svelato l’arcano della politica moderna”. Investendo sul fondamento non friabile della filosofia in subbuglio contro il capitale, è possibile dividere, frantumare ogni “ecumenica unità”. L’ambizione è quella di recuperare entro un’ottica di parte, oltre alla classe, nuove figure che respingono le attuali forme di vita (“umili della terra”, “subalterni”, “chi sta in basso”).

La debolezza delle radici popolari e di classe delle sinistre di governo mostra la genetica vacuità e l’illusione di un “misero e neutro orizzonte democratico-progressista” ormai riconciliato con il presente, che vorrebbe solo rendere “più bello, pulito e perfetto, un tantino più giusto”. In un bilancio della sua parabola, Tronti avverte la irriducibile distanza dalle culture politiche che “non sanno più di lotta, di rivolta, di rifiuto, di abbattimento, di rovesciamento, scagliato contro tutta questa logica presente di sistema”. Dinanzi alla sconfitta e all’abiura dei simulacri della politica, per lui, “oggi è rimasto un solo modo umano di stare in questo mondo e in questa vita: starci da stranieri, cioè in esilio, in attiva attesa di altro”. Non è l’annuncio di una fuga dall’immanenza, la corsa per allontanarsi dal fastidio della contingenza. È piuttosto la manutenzione gelosa, che tocca agli eredi della grande storia del movimento operaio, dei concetti per reimpostare “un punto di vista sovversivo, inattaccabile, incatturabile, autonomo, in una parola, libero”.

Per ripartire dopo il diluvio non servono rassicurazioni. Una pagina del Tronti postumo rende tutta la tragica condizione di chi non rinuncia a pensare contro il capitale trionfante, e però avverte una qualche partecipazione alla colpa inespiabile del suicidio del soggetto: “Ognuno di noi, chi di più chi di meno, ha una parte di questa colpa. Finiremo la vita a chiederci che cosa personalmente potevamo fare e non abbiamo fatto, dove personalmente abbiamo sbagliato a indirizzare la nostra esistenza su un piano sia pure impegnato di lavoro intellettuale invece che su un terreno direttamente politico. Ripeto sempre questa frase: sento come una spina nella carne il muto rimprovero, dei morti e dei vivi, che sale dal fondo della mia parte, per non aver dato loro, di me, tutto quanto a loro dovuto”.

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