venerdì 8 maggio 2015

ITALIA. LIBERTA' DI STAMPA. IL CASO UNITA'. A. GILIOLI, L'Unità, i deboli e i forti, L'ESPRESSO, 8 maggio 2015

Domenica prossima Report affronterà la questione del quotidiano l'Unità, dei molti soldi che ha preso dallo Stato e sperperato, dei debiti che ha lasciato a mezzo mondo e dei suoi ex giornalisti querelati che oggi sono costretti a pagare non solo la propria parte di risarcimento, ma anche quella che spetterebbe all'editore.



Quest'ultimo aspetto (i dipendenti e i collaboratori esterni cornuti e mazziati) è quello che, in giro, produce più alzate di spalle, se non addirittura ironie, il che è del tutto comprensibile data la pessima reputazione della categoria e la convinzione che chiunque abbia fatto questo mestiere - sia pure da precario sottopagato, e sa Dio quanto pagava poco l'Unità - faccia parte della Casta.
Ci sta, e pazienza.
Tuttavia la questione, nei suoi accadimenti, merita lo stesso qualche attenzione perché è molto emblematica di un sistema in cui a pagare (letteralmente) sono soltanto i più deboli, mentre a cavarsela e non versare un quattrino sono i più forti.
Partiamo dall'inizio.
Primo: l'Unità, dopo essere stata organo del partito, è diventata nel tempo una società privata, la cui proprietà faceva capo a dei 'normali' imprenditori. Imprenditori che tuttavia, nel mettere i loro soldi in quel quotidiano, sapevano bene di non fare un affare diretto, nel senso che la testata non avrebbe potuto mai produrre utili. Allora perché ci mettevano i soldi? Perché favorire l'Unità significava acquisire robusti crediti nei confronti di un partito che aveva un grosso potere politico - e quindi avrebbe potuto ricambiarli.
Secondo: l'Unità, pur appartenendo formalmente a quegli imprenditori privati, è sempre rimasta appannaggio del partito e dei suoi vertici. Con una serie di clausole e di accordi interni, infatti, il partito ci faceva il bello e il cattivo tempo, ne nominava i direttori, ne determinava la linea editoriale, ne occupava gli spazi con le sbrodolate dei suoi esponenti, che erano obbligatorie in quanto imposte dall'editore ombra stesso, cioè dal partito.
In sostanza il meccanismo era: il partito continuava a essere il vero padrone del giornale, però i soldi ce li mettevano degli altri che poi sarebbero stati ricompensati dal potere politico che il partito stesso aveva.
Già qui, come si vede, la situazione non era delle più limpide. Se poi ci si aggiunge che il buco economico creato da questo giornale era in parte riempito con i soldi pubblici stabiliti da una legge che il partito stesso aveva fatto (con altri, in situazioni simmetriche), la puzza di marcio inizia a crescere parecchio.
A un certo punto, per svariati motivi, il meccanismo perverso ha tuttavia smesso di funzionare, soprattutto perché i partiti sono stati costretti - sotto la pressione di parte dell'opinione pubblica - a ridurre i finanziamenti pubblici (ma anche per altri motivi legati al cambio di dirigenza nel Pd e al cambio di imprenditori privati proprietari della maggioranza delle azioni: in poche parole, i due nuovi gruppi non andavano d'accordo tra loro).
Il risultato è stato la liquidazione della vecchia società proprietaria e la chiusura dell'Unità (che probabilmente riapparirà con altri proprietari più legati all'attuale Pd).
Chiusa l'Unità, sono andate a sentenza dozzine e dozzine di cause civili per danni, come ci sono in tutti i giornali (tutti) dato che per i potenti in Italia fare causa è uno sport quotidiano, il più delle volte a scopo intimidatorio. Poiché però la società stava fallendo, nessuno si è occupato di queste cause, tanto meno i consulenti legali del giornale che - non essendo più nemmeno loro pagati - non preparavano più le udienze, portando al giudice il materiale necessario per difendersi. I giornalisti spesso non venivano neppure a sapere che erano in corso i processi. Così le sentenze sono state tutte o quasi di condanna, anche per casi (alcuni li conosco personalmente) in cui non sarebbe stato difficile ottenere un verdetto opposto.
Ma non è finita: perché essendo la società ormai in liquidazione, le condanne si sono interamente riversate sui giornalisti, che quindi hanno dovuto pagare non solo la loro parte, ma anche quella che sarebbe spettata all'editore. La legge infatti prevede che il danneggiato possa rivalersi interamente sull'unica parte in grado di pagare, che in questo caso erano appunto le persone che - vuoi perché proprietarie di un'automobile o di un appartamento, vuoi perché nel frattempo avevano trovato un altro impiego - erano comunque più solvibili di una società che dichiarava di non poter pagare niente.
Conosco una collaboratrice esterna dell'Unità che, per un articolo di satira (!), non difesa in giudizio dall'Unità e addirittura ignara di essere sotto processo, ha scoperto a sentenza emessa di dover pagare 3.000 euro per la sua parte e altri 20 mila circa per la parte dell'azienda. E li ha pagati, tutti, dando fondo ai risparmi, perché l'alternativa sarebbe stato il pignoramento dell'appartamento dove abita.
In tutto questo, coloro che nella vicenda stavano nella parte alta della piramide - cioè il partito e i vari imprenditori che si sono succeduti alla proprietà - sono spariti e non versano un euro. Il primo, perché dice di non c'entrarci nulla, che l'Unità non era formalmente sua; i secondi, perché hanno messo la società in liquidazione e ciao.
Così sono andate le cose. E, per carità, succede ben di peggio, nessuno finirà sotto i ponti eccetera. Ma a pagare sono stati i più deboli su cui i più forti (partito e imprenditori) hanno rovesciato ogni peso. Ed è questa dinamica, ben oltre la questione privata dei giornalisti, quella che fa più ribrezzo e paura. Perché - appunto - trascende le categorie professionali.
Che poi nel caso ciò sia avvenuto proprio nel giornale di un partito fondato per difendere i deboli dalle angherie dei forti, beh, questo è un paradosso significativo sulla parabola di quel partito.

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