venerdì 5 febbraio 2016

LA VIOLENZA NELLA STORIA. DECAPITAZIONI. N. TILIACOS, L’infame arte di tagliare la testa a un uomo, IL FOGLIO, 22 settembre 2104

Nel racconto delle gesta di Tamerlano, il Grande emiro a capo dell’Orda d’Oro, sovrano assoluto di un impero che fu tanto sterminato quanto effimero, brividi di orrore suscita la descrizione dei minareti di teste umane che il condottiero turco-mongolo faceva regolarmente erigere nelle città conquistate. Quei monumenti atroci al suo potere incontrastato erano anche efficaci strumenti di propaganda, minaccia e ammonimento per chiunque si illudesse di potergli resistere. Secondo una cronaca dell’epoca, riportata dallo storico francese Jean-Paul Roux nella biografia dedicata al fondatore dell’impero timuride, solo nella città di Isfahan si poterono contare quarantacinque di quei lugubri manufatti, costruiti con mille-duemila teste ognuno. Di regola si trattava di teste di soldati nemici, ma alla bisogna, se il progetto lo richiedeva, si usavano anche quelle dei civili maschi e a volte perfino quelle delle donne.




Tamerlano pensava e agiva in grande. Ma la logica dei suoi monumenti al terrore appare la stessa, oggi offerta comodamente in rete, delle decapitazioni di James Foley, Steven Sotloff e David Haines a opera dell’Isis, e prima ancora di quella di Daniel Pearl, il giornalista ebreo americano rapito e ucciso nel 2012 in Pakistan da un gruppo islamista. Se fosse poi confermata la notizia, di pochi giorni fa, di un piano di decapitazioni di civili rapiti a caso in Australia, da filmare e diffondere sul web a opera di locali militanti dell’Isis, potremmo concludere che il metodo Tamerlano continua a fare scuola, a seicentodieci anni dalla sua morte, a maggior gloria del medioevo postmoderno che il Califfato di Al Baghdadi ha l’ambizione di costruire nel Terzo millennio.

La testa mozzata del soldato ostile, del traditore, dell’infedele, del ribelle che non accetta la legge coranica dell’autoproclamato Stato islamico, è diventata il trofeo di una guerra del terrore basata sull’ostentato disprezzo del nemico. I video dell’Isis che documentano le esecuzioni sono “pornografia del terrore”, ha scritto in propostito Robert D. Kaplan su Atlantic. Come la pornografia classica, essa è concepita per essere accessibile a chiunque, a tiro di mouse. Il suo scopo è quello di spiegare nel modo più eloquente possibile che nessuno può credersi al sicuro, che chi non si converte è condannato. Pura pornografia del terrore è anche la foto diffusa su Twitter dal jihadista australiano Khaled Sharrouf (con la didascalia: “Questo è mio figlio!”), dove si vede un bambino di non più di sette anni che regge la testa mozzata di un soldato siriano. Sui media australiani che l’hanno riprodotta sono stati oscurati con una fascetta sia gli occhi del bambino sia i tratti della testa tagliata, ma l’orrore è garantito.

E’ difficile pensare, allora, che all’inizio della storia d’occidente, per come essa ci è stata tramandata, la morte per decapitazione era, a suo modo, un privilegio riservato ai notabili, agli aristocratici e ai sovrani (fino alla Rivoluzione francese, che in nome dell’égalité, se non della fraternité e men che mai della liberté, lo estese a tutti). Tagliare la testa del condannato era un modo per riconoscerne il rango, il potere, addirittura la facoltà di influenzare, anche dall’aldilà, il mondo dei vivi. Al popolo e ai borghesi, invece, erano riservati sistemi più “rozzi”, come lo squartamento, lo strangolamento, l’impiccagione.

ARTICOLI CORRELATI Noi, i sacrifici umani e i tagliagole Quando si taglia una testaA Roma, racconta Eva Cantarella nel suo libro sui supplizi capitali nell’antichità classica (Rizzoli), la decapitazione era la pena per i grandi traditori comminata dal rex e si praticava all’inizio con la scure (“securi percussio” era il nome della pena), vale a dire l’ascia che figura anche nell’emblema dei fasci littori. In età repubblicana, quel tipo di esecuzione sarebbe scomparso, ma l’ultima di cui si ha notizia attraverso Tito Livio ci appare particolarmente truculenta, nella sua torva sacralità. Si tratta della decapitazione dei figli del console Lucio Bruto, accusati nel 509 a. C. di voler restaurare la monarchia e decollati con la scure al cospetto del padre, vale a dire di colui che aveva loro comminato quella pena. Lo spettacolo del taglio della testa reclamava un pubblico numeroso, convocato dagli araldi al suono delle trombe. Tito Livio, scrive Eva Cantarella, “asserisce che la terribile visione aveva un formidabile effetto deterrente sugli spettatori: per tutti, essa era ammaestramento a evitare nel futuro comportamenti analoghi a quello punito”, ma in realtà la funzione fondamentale della decapitazione “era dimostrare l’autorità incontrastata di chi la infliggeva”.

Messa da parte l’ascia, le decollazioni continuarono lungo tutta la storia romana, ma a fil di spada. Con la spada fu decapitato a Roma, durante le persecuzioni anticristiane a opera di Diocleziano, anche Paolo di Tarso. Quel supplizio poteva essere inflitto solo ai cittadini romani, e Paolo lo era. Non lo era invece Pietro, che nello stesso periodo fu martirizzato con il sistema riservato a non cittadini, ai ladroni e agli schiavi: la crocefissione. A testa in giù, nel suo caso. Si narra che a chiederlo fosse lo stesso apostolo, che si riteneva indegno di morire come Cristo.

Pieter Paul Rubens, “Decollazione di san Giovanni Battista”, 1610 (Londra, National Gallery)


Quanto a teste mozzate, la storia dell’Urbe è comunque ricca di illustri esempi. A parte quella del generale cartaginese Asdrubale, scagliata dai romani nella tenda del fratello Annibale, ci fu quella di Catilina, portata a Roma come trofeo dopo la sua sconfitta, e quella di Marco Antonio Oratore (nonno del Marco Antonio più famoso che fu amante e sposo di Cleopatra), recapitata durante un banchetto al suo nemico giurato Caio Mario. Il quale ci si gingillò lietamente dopo essersi complimentato con il sicario ancora lordo di sangue, Publio Anneo.

Ci fu, soprattutto, la testa mozzata di Marco Tullio Cicerone. Il quale, caduto definitivamente in disgrazia e inseguito fino a Formia dai sicari del suo acerrimo nemico, il triumviro Marco Antonio (il già citato futuro marito di Cleopatra), quasi si consegnò agli assassini, offrendo loro il collo dalla lettiga. Lo scrittore viennese Stefan Zweig, in “Momenti fatali” (Adelphi), descrive con grande commozione la fine di Cicerone, “l’ultimo difensore della libertà romana, più eroico, più virile e risoluto in quest’ultima sua ora che non nelle migliaia e migliaia di un’intera vita”. Quella morte violenta non segnò l’ultimo atto dell’odio di Antonio per colui che lo aveva implacabilmente e pubblicamente accusato: “L’urgenza con cui il delitto era stato commissionato fa ritenere ai sicari che la testa della vittima abbia un particolare valore”, ed essi decidono di consegnarla personalmente ad Antonio, il quale li ricompensa lautamente e ordina poi che il capo e le mani di Cicerone siano inchiodati ai “rostra”, la tribuna dei magistrati e degli oratori così chiamata per via dei rostri delle navi catturate in battaglia che la ornavano. Era lo stesso pulpito dal quale Cicerone, con le sue orazioni e le sue filippiche “contro Antonio”, “aveva chiamato a raccolta il popolo, in difesa della libertà romana”. Nessuna invettiva da lui pronunciata, scrive Zweig, “ha mai denunciato in modo così eloquente il male eterno della violenza quanto il linguaggio muto del suo capo profanato: il popolo si avvicina timidamente ai ‘rostra’, poi con un senso di vergogna e di costernazione se ne allontana. Nessuno dei presenti osa protestare – siamo in una dittatura – ma angosciati, col cuore stretto in una morsa, abbassano lo sguardo avanti al tragico simbolo della loro repubblica crocifissa”. L’ebreo Zweig, che scriveva in pieno nazismo, mentre era in fuga dall’Europa (“Momenti fatali” uscì postumo, dopo il suo suicidio avvenuto nel 1942 in America), coglie l’elemento di contrappasso che emana dalla decapitazione del grand’uomo. Il distacco dal corpo rende la testa “autonoma”, a suo modo potente e incontrollabile. Là si concentra la forza dell’individuo, e la testa continua come a vivere di una vita propria. La testa mozzata, scriveva Vladimir J. Propp nelle “Radici storiche dei racconti di fate”, nelle fiabe popolari rimanda al defunto insepolto e inquieto, che reclama aiuto per trovare la pace eterna e in cambio offre i suoi servigi all’eroe della favola: “Chi aveva la testa in suo potere aveva in suo potere tutto l’essere: il morto era costretto ad aiutare i vivi”.

Ma anche fuori dal mondo favolistico, l’idea della testa che rimane “viva” subito dopo la decollazione la troviamo nelle leggende fiorite su Maria Stuarda, che si pretendeva avesse parlato dopo la decapitazione, o sulla testa di Charlotte Corday. La testa dell’assassina di Marat sarebbe arrossita dopo essere stata schiaffeggiata dal boia, che l’aveva raccolta dal cesto ai piedi della ghigliottina.

Decapitazione come pena riservata all’irriducibilità: non è, questa, anche la storia di san Giovanni Battista, il Precursore in tutti i sensi, narrata nel Nuovo testamento? La bella Salomè, che su consiglio della madre Erodiade chiede a Erode Antipa di avere, come premio per la sua danza, la testa del Battista su un vassoio – Giovanni aveva condannato pubblicamente Erodiade, che viveva more uxorio con Erode, fratello del marito – sarà oggetto, nella “Legenda Aurea” di Jacopo da Varazze, di una puntuale e fantasiosa nemesi. Mentre Salomè danza su un laghetto di acqua gelata, la lastra si rompe e lei precipita. Alla madre Erodiade, che tenta di trattenerla afferrandole i capelli, rimane in mano il capo della figlia, mentre il corpo si inabissa inesorabilmente nell’acqua gelida.

In apparenza irriducibili e invincibili, nel senso della immane potenza fisica o militare, sono invece i due decapitati più famosi del Vecchio testamento: il generale assiro Oloferne, la cui testa fu mozzata da Giuditta che lo aveva prima fatto ubriacare, e il gigante filisteo Golia, ucciso con un colpo di fionda e poi decapitato con la sua stessa spada dal fanciullo David.

Se, nel loro caso, la testa mozzata equivale alla superbia punita – la forza sconfitta dai deboli per eccellenza, la donna e il ragazzo – la decollazione di Cicerone, quella del filosofo Severino Boezio e più tardi quella di Tommaso Moro parlano di una funzione anche simbolica di quella pratica, che costringe al silenzio chi tacere non vuole, spegne intelligenze minacciose e pensieri indipendenti, separa il corpo dal capo, che gli dà ordini.

Di Boezio (480-524 d. C.), l’autore del “De consolatione philosophiae” che fu ministro del re Teodorico e poi per ordine di questi fu imprigionato e ucciso a Pavia, si tramanda la storia della decapitazione, avvenuta con la spada, nella sua cella. Accusato di arti magiche e “sacrilegium”, il filosofo era in realtà sospettato di voler ristabilire la “libertas romana” e di aver congiurato contro il re ostrogoto in favore di Giustiniano, imperatore di Bisanzio. Una leggenda fiorita dopo la sua morte (e tutte le leggende, dicono i pragmatici inglesi, sono da considerare con attenzione, in quanto “sottobosco della storia”) racconta che il fantasma privo di capo di Boezio, per nulla placato dalla santificazione per lui stabilita dalla chiesa, era solito aggirarsi attorno al luogo dell’esecuzione, con la testa sotto il braccio.

Quello dei santi cosiddetti “cefalofori” (che cioè portano in mano la propria testa) è un capitolo piuttosto singolare e nutrito del martirologio cristiano. Quei santi hanno la sorprendente caratteristica di non morire subito dopo la decapitazione. Raccolgono tranquillamente la testa mozzata e si incamminano verso il luogo che hanno scelto per essere seppelliti, dove poi sorgerà sempre una chiesa a loro consacrata. E’ la storia narrata su sant’Emidio di Ascoli Piceno, giovane vescovo nato a Treviri e protettore dai terremoti, che raccolse la propria testa tagliata dai romani persecutori e la portò per trecento passi fino al luogo dove fu seppellito e dove sorge la chiesa che porta il suo nome. E’ anche quello che si narra del nobile armeno che divenne san Miniato di Firenze, decapitato sotto Decio, e di santa Caterina di Alessandria. La quale, dottissima e bellissima, confutò con tale sapienza le argomentazioni di coloro che volevano farla abiurare dalla fede cristiana (se Cristo era morto, che dio era?) che il tetrarca romano Massimino Daia non trovò di meglio che farle tagliare la testa, dopo aver cercato invano di ucciderla sulla terribile ruota dentata. Di san Miniato si tramanda a sua volta, prima della decapitazione e della successiva passeggiata con la testa tra le braccia, la resistenza a mille torture mortali, tra ceppi che si scioglievano da soli, fornaci incandescenti dalle quali il santo riemergeva senza nemmeno una bruciatura e leoni che si inginocchiavano al suo cospetto, invece di sbranarlo. Anche san Dionigi (Denis), missionario nelle Gallie, primo vescovo di Parigi e patrono di Francia, dopo la decapitazione si riprese la testa e camminò fino al luogo dove fu eretta la chiesa in cui furono in seguito seppelliti tutti i re di Francia, dal X secolo fino al fatale 1789. Anche i resti dei ghigliottinati Luigi XVI e Maria Antonietta trovarono accoglienza a Saint-Denis nel 1815, dopo che per ordine dei Borboni, temporaneamente reinsediati al potere, erano stati cercati e ritrovati nel piccolo cimitero della Madeleine (lo stesso dove finirono altre famose vittime del Terrore, come la contessa Du Barry, Charlotte Corday, Olympe de Gouges: tutte ghigliottinate).

Parigi, 21 gennaio 1793: l’esecuzione di Luigi XVI in un dipinto dell’epoca

Anche se non può competere con i numeri insuperati di Tamerlano, in quanto a entusiasmo per le decapitazioni la Francia giacobina non fu seconda a nessuno. Grazie al medico e deputato all’Assemblea nazionale Joseph-Ignace Guillotin, il quale presentò il 9 ottobre 1789 un disegno di legge che aboliva le distinzioni per classe nella condanna a morte e promuoveva, con lessico da pubblicità di callifugo, metodi “facili e indolori”, morire con la testa tagliata divenne privilegio universale e democraticissimo, non più solo riservato ai nobili e ai sovrani.

Fu la beffarda vittoria dell’égalité, come si notava all’inizio. E’ per via di quel discorso con cui il volenteroso Guillotin caldeggiò all’Assemblea il suo progetto – che per il macabro umorismo involontario fece scoppiare a ridere i colleghi deputati e i giornalisti nelle tribune – che la macchina francese da decapitazione fu in seguito chiamata ghigliottina. Il vero artefice di quello che sarebbe diventato il simbolo della rivoluzione fu invece un tale Antoine Louis, medico anche lui. L’attrezzo, che diede impulso di dimensioni industriali alla macchina del Terrore giacobino (gli studi più recenti parlano di circa ventimila ghigliottinati) fu inaugurato il 25 aprile 1792 e sarebbe rimasto in funzione fino al 1977, data dell’ultima esecuzione capitale. Il primo ghigliottinato fu Nicolas Pelletier, condannato per omicidio e furto; l’ultimo, che fu anche l’ultimo sottoposto alla pena capitale in tutta Europa, si chiamava Hamida Djandoubi. Tunisino di origine, fu accusato di aver torturato e ucciso l’ex fidanzata Elisabeth Bousquet.

Sappiamo, dalle cronache della rivoluzione, che agli esordi la ghigliottina provocò una grande delusione tra tricoteuses e sanculotti. Per la rapidità dell’operazione, il pubblico si sentiva defraudato del solito spettacolo, del rituale sanguinoso che poteva ogni volta riservare brividi imprevedibili, ma ben presto si apprezzò la quantità, in sostituzione della qualità scenografica della triste faccenda. Tra tante rotolate nel cesto, la bella e nobile testa della principessa di Lamballe, amica e confidente della regina Maria Antonietta, trovò spazio in un romanzo di Dumas. La principessa nel 1791 era riuscita a raggiungere l’Inghilterra, dove aveva cercato aiuto per i sovrani francesi, ma volle comunque tornare a Parigi, nonostante la stessa regina l’avesse pregata di non farlo, per rimanere accanto alla sovrana, all’epoca confinata alle Tuileries. Dopo l’attacco dei rivoluzionari alla reggia e il trasferimento dei reali al Tempio, la principessa di Lamballe fu portata di fronte al tribunale rivoluzionario, che le ordinò di giurare fedeltà al nuovo regime. Il suo rifiuto sdegnato le costò il linciaggio, particolarmente lungo e orrendo, da parte della folla alla quale fu data in pasto dai “giudici”. La sua testa – la testa mozzata dell’amica prediletta della “cagna austriaca” – fu incipriata, pettinata e issata su una picca portata poi per le strade della città, fin sotto le finestre della cella del Tempio dove era prigioniera la regina. la quale fu invitata a gran voce dalla folla ad affacciarsi per salutare la sua cara dama di compagnia.

La documentata vocazione francese per le decapitazioni è comunque ben più antica delle vicende rivoluzionarie. Quando toccò ad Anna Bolena, seconda moglie del re inglese Enrico VIII, salire sul patibolo per essere decapitata, il consorte che la mandava a morire le usò la cortesia di convocare appositamente per lei il famoso “boia di Calais”, il competentissimo Jean Rombaud, la cui fama di decollatore “rapido e indolore” aveva oltrepassato la Manica. Particolare non secondario, il boia francese usava da maestro la spada, e non la rozza e imprecisa mannaia ancora in dotazione ai suoi rozzi colleghi inglesi. Alla bella Anna, definita “la più felice” ai tempi in cui era nel cuore del re – il quale per sposarla aveva rotto con la chiesa di Roma, che non voleva concedergli l’annullamento delle prime nozze con Caterina d’Aragona – almeno queste attenzioni erano dovute. I reati che le furono imputati per toglierla di mezzo (una totale montatura, allestita da Enrico VIII, quando si convinse che Anna non gli avrebbe mai dato il figlio maschio tanto voluto), rientravano tutti nella categoria del tradimento. La pena prevista in questi casi prevedeva impiccagione, sbudellamento e squartamento per gli uomini (fu in effetti la pena subita dai quattro accusati di complicità con Anna Bolena) e il rogo per le donne. Enrico commutò graziosamente la condanna al rogo con quella per decapitazione, e acconsentì all’uso della spada. Sappiamo che il “boia di Calais” fu pagato con ventiquattro sterline, e che Anna Bolena commentò la sua scelta, di cui era stata premurosamente informata, con il suo carceriere, il conestabile William Kingston. Gli disse che aveva sentito parlare della competenza del boia, e che comunque, con il suo collo delicato e sottile, non ci sarebbero di certo stati problemi.

Le cronache dell’esecuzione raccontano che Jean Rombaud aveva nascosto la spada nella paglia che circondava il ceppo, e che gridò di portargli l’arma quando già era comparsa, quasi magicamente, nelle sue mani. Questo indusse Anna a non voltarsi ma a guardare di fronte a sé, verso il ristretto e scelto pubblico convocato per assistere all’esecuzione, e consentì al boia francese di cogliere di sorpresa la condannata, evitando torsioni del collo che avrebbero reso più complicato quel suo importante “lavoro”. 

Anche di Anna Bolena – e come potrebbe essere altrimenti, nella patria dei manieri infestati dagli spettri? – si racconta che il suo fantasma inquieto vaghi con la testa sotto il braccio, proprio come una delle sante cefalofore celebrate dalla chiesa cattolica romana. Ci fu chi giurò di averlo avvistato al castello di Hever o alla Torre di Londra. Qui, nel 1864, un general maggiore del sessantesimo reggimento dei King’s Royal Rifle Corps raccontò che, guardando fuori dalla finestra, vide una sentinella nel cortile comportarsi in modo stravagante, come se dovesse fronteggiare qualcuno – una figura biancastra, avrebbe detto poi la guardia – per impedirgli di avanzare verso di lui. Il soldato caricò con la baionetta quel “qualcuno” prima di svenire, e avrebbe passato seri guai disciplinari se il generale non avesse testimoniato in suo favore. Ma anche in tempi più recenti, agli inizi degli anni Sessanta, il canonico W. S. Pakenham-Walsh, studioso della famiglia Tudor, scrisse nei suoi diari di essere stato per circa trent’anni in contatto diretto con Anna Bolena, attraverso apposite sedute spiritiche, e che la regina decapitata si comportava con lui come “un angelo custode”. Non abbiamo letto i diari del canonico Pakenham-Walsh, ma sarebbe interessante scoprire se lui e Anna Bolena abbiano mai parlato di Tommaso Moro, il politico e umanista cattolico che fu lord cancelliere sotto Enrico VIII e pagò con l’esecuzione il suo rifiuto di avallare la decisione del re di mettersi a capo della chiesa d’Inghilterra e quella di divorziare per forza da Caterina d’Aragona, allo scopo di sposare Anna. Anche Tommaso Moro, dopo un periodo di prigionia nella Torre di Londra, fu decapitato. La sua testa, per volere di Enrico VIII, rimase esposta sul London Bridge per un mese, prima che la figlia Margaret Roper (dopo aver pagato per il favore) ottenesse di portarla via per darle sepoltura con il resto del corpo.

La testa di Tommaso Moro, quella di Cicerone e quella di Boezio: accade per loro il contrario di ciò che il mito greco attribuisce alla testa della Gorgone Medusa, decapitata da Perseo con l’aiuto di Pallade Atena. Se lo sguardo della testa mozza di Medusa pietrificava chi lo avesse incrociato, quegli inermi oltraggiati parlano ancora con voce alta e chiara, mentre si rinnova la vitalità del loro pensiero. Sono vittoriosi su chi aveva voluto per loro un’eterna “damnatio memoriae”, affidata anche all’onta della testa mozzata, esempio “pedagogico” della fine che attende chi non si converte.

Nessun commento:

Posta un commento