domenica 30 aprile 2017

FILOSOFIA POLITICA. E. SEVERINO SU G. MARRAMAO. E. SEVERINO, Instabilità, destino del mondo, CORRIERE DELLA SERA, 30 aprile 2017

Sono d’accordo: «Il problema del presente e della sua concettualizzazione è un problema eminentemente filosofico piuttosto che storiografico». Lo ribadisce Giacomo Marramao, intervenendo in Filosofia dei mondi globali. Conversazioni con Giacomo Marramao (Bollati Boringhieri). Il «presente» a cui egli si riferisce è l’«Occidente». Si tratta di vedere, poi, come ci si accosta al «problema eminentemente filosofico» del presente. Volendo esprimere subito il mio parere direi che, nonostante le intenzioni, nel discorso esplicito di Marramao, i cui saggi hanno un largo e meritato successo internazionale, la storiografia (circondata soprattutto dalle cosiddette scienze umane) ha la meglio sulla filosofia; mentre quest’ultima, o uno dei suoi tratti autenticamente essenziali, si trova là dove lui non sembra cercarla, anche se essa circola (inevitabilmente) anche nelle vene della problematica dell’amico Giacomo. Un rilievo questo — ora proverò a chiarire — che d’altra parte può essere rivolto a gran parte delle riflessioni filosofiche del nostro tempo. «Il nostro presente», scrive Marramao è un risultato «sempre provvisorio, precario e in divenire: dunque strutturalmente instabile».



Giacomo Marramao (1946)
Giacomo Marramao (1946)

L’Occidente è appunto questo risultato. Ma, chiedo, da dove provengono i concetti di «provvisorietà», «precarietà», «divenire», «instabilità strutturale»? Non sono certo le discipline scientifiche e nemmeno la storiografia ad averli evocati. E nemmeno la filosofia del nostro tempo. La quale estende sì a ogni cosa il carattere dell’instabilità e del divenire, ma, appunto, estende qualcosa di già noto. In qualche modo, quei concetti sono già presenti sin dall’inizio della vita dell’uomo. Adamo presta ascolto al serpente appunto perché ritiene che il proprio stato sia instabile, provvisorio, e decide di cambiarlo, decide di diventare altro da ciò che egli è. Ma la filosofia, facendosi innanzi presso l’antico popolo greco, compie un gesto essenzialmente più radicale: per la prima volta intende l’instabilità delle cose del mondo come il provenire dal loro non essere, trattenersi provvisoriamente nell’essere e scendere di nuovo nel non essere. Il loro non essere è il loro esser nulla. Su questa evocazione dell’«essere» e del «nulla» passano in sostanza distrattamente anche quelle posizioni filosofiche (peraltro non frequentate da Marramao e dai suoi interlocutori) che dell’«essere» e del «nulla» hanno continuato a parlare. Ma su questa evocazione cresce la storia di ciò che chiamiamo «Occidente».
Marramao conosce questo mio discorso. Sa che il contenuto di esso mostra che quella evocazione è l’irruzione dell’errare estremo (e cioè che tale contenuto è in contrasto con l’intero Occidente, e non solo — e pertanto, ovviamente, anche col pensiero di Heidegger). Ma sembra non vedere che, se ci si accosta al problema filosofico del presente, si può scorgere che l’Occidente è appunto il luogo dove è stato evocato quel senso radicale dell’instabilità che invece per lui ci costringerebbe a dire che il presente non può essere «concettualizzato» — quasi che «provvisorietà», «instabilità», «divenire», ecc. non siano i concetti che reggono la vita e le opere della civiltà occidentale. È perché si crede in questi concetti che si agisce conformemente a essi — sia per ridurre il più possibile la propria provvisorietà, sia per render provvisorie e infine annullare le forze da cui si è minacciati —, tracciando così i confini dell’Occidente, che ormai abbracciano l’intero Pianeta. La filosofia è la madre dell’Occidente. Diciamolo sottovoce: ha aperto il vaso di Pandora. (Ma — ancora più sottovoce — è anche destinata a togliersi i veli dal capo e a illuminare la mano che lo richiude).

«Filosofie dei mondi globali», a cura di Stefano Franchi e Manuela Marchesini (Bollati Boringhieri, pagine 182, euro 17)
«Filosofie dei mondi globali», a cura di Stefano Franchi e Manuela Marchesini (Bollati Boringhieri, pagine 182, euro 17)

Al fondamento della «globalizzazione» di cui oggi si parla, e anche della particolare curvatura che Marramao ne propone, si trova la globalizzazione costituita dalla rete di tali concetti. Sostenendo — come egli sostiene — che la globalizzazione non è l’occidentalizzazione del mondo perché è un processo in cui l’Occidente stesso resta profondamente modificato dalle dimensioni locali in cui esso si distende, si perde quindi di vista il permanere e il progressivo dilatarsi e rafforzarsi di questa rete. La quale irretisce progressivamente gli eventi che formano la storia dell’Occidente — interpretazione ebraico-cristiana del mondo, impero romano, islam, Rinascimento, fine delle guerre di religione e nascita dello Stato-nazione, scienza moderna, illuminismo, capitalismo, comunismo, guerre mondiali, globalizzazione tecno-economica. Li irretisce (e non solo questi, grandi, ma anche quelli piccoli, vissuti dagli individui), non ne è irretita — anche se, certamente è via via diverso e anche profondamente diverso il peso che essa si trova a reggere e il volto da essa via via mostrato. Lo stesso succedersi di tali eventi non viene forse interpretato, dalla coscienza storica dell’Occidente, come l’incarnazione dell’instabilità, ossia del non esser ancora, essere per un po’, non esser più? E infatti Marramao scrive che il presente è una «sorta di interregnum tra un “non più” e un ”non ancora”», senza avvedersi di aver messo le mani nel fuoco.
Nel volume succitato il filosofo statunitense Hayden White, alla cui posizione Marramao è molto vicino, scrive che «l’Occidente è entrato in una fase in cui, a causa della globalizzazione, è così permeato di elementi di altre culture, che ha perso la maggior parte di quegli aspetti che lo avevano storicamente definito». «La maggior parte»! La questione centrale è l’individuazione di tali parti e del loro peso. L’Occidente ha certamente perso il carattere, ad esempio, di Respublica christiana o di relazione tra Stati-nazione, ma è pur sempre all’interno di quella rete che è avvenuta la sua trasformazione — così come è perché si è stati e si è convinti della radicale precarietà delle cose che nel secolo scorso sono esistite le due grandi «guerre di annientamento», si è deciso l’annientamento del popolo ebreo e da parte del fondamentalismo islamico si decide di annientare il mondo cristiano-occidentale.
White e Marramao si uniscono al clima culturale oggi dominante: il rifiuto di ogni reductio ad Unum. (E la rete di cui parlo è appunto l’Unum supremo dell’Occidente). Ma non sembrano accorgersi che anche il loro rifiuto è un Unum, e altrettanto intransigente. Se si obbiettasse che c’è qualcosa che sfugge alla imprevedibile e instabile Molteplicità delle cose, gli avversari dell’Unum non esiterebbero a riacciuffarlo e a ributtarlo nel Molteplice (concepito in questo o quel modo — e il discorso di Marramao è appunto uno di questi modi). In altri termini: il clima culturale oggi dominante rifiuta ogni verità assoluta e definitiva, ma non si cura troppo di mostrare come esso non sia uno scetticismo ingenuo che (lo sapeva già la filosofia greca) di fatto tratta come verità assoluta la propria negazione di essa. Eppure esiste il sottosuolo filosofico del nostro tempo — pressoché ignorato dal clima culturale oggi dominante —, nel quale si mostra l’impossibilità di ogni verità definitiva, ma la si mostra in modo tale che questa impossibilità non ha nulla a che vedere con lo scetticismo ingenuo.
Giacomo Leopardi, Friedrich Nietzsche, Giovanni Gentile sono i grandi abitatori di questo sottosuolo (come indicano i miei scritti a loro dedicati). Esso è la forma più rigorosa, coerente e potente della rete. È la convinzione che la verità supremamente evidente sia, appunto, la provvisorietà, precarietà, divenire, instabilità strutturale delle cose del mondo, cioè il loro uscire provvisoriamente dal loro esser nulla; e sulla base di questa convinzione tale sottosuolo mostra l’impossibilità dell’esistenza di ogni verità definitiva e di ogni Essere eterno, sì che l’unica verità definitiva è appunto il travolgimento, il divenire, di ogni presunta verità definitiva e di ogni presunto Essere eterno. Questo sottosuolo è la forma più rigorosa, coerente, potente di ciò che sopra ho chiamato l’errare estremo. La più potente, perché autorizza la tecnica a oltrepassare ogni limite e a guidare il mondo. La koiné a cui appartiene anche la specifica posizione di Marramao non può dunque riconoscere nel percorso dell’Occidente alcuna meta che non sia il risultato di progetti mai garantiti e che in lui si configurano soprattutto come progetto politico: volontà di realizzare una «democrazia transnazionale», cioè un «assetto policentrico» di poteri che si controllano reciprocamente.
Ci si illude cioè che la politica possa guidare la tecnica. È ignorata l’argomentazione che altrove svolgo sulla necessità che, dopo il dominio sulla politica da parte dell’economia, si faccia avanti il dominio della razionalità tecno-scientifica sull’economia e a maggior ragione sulla politica. Tale razionalità non è una «tenaglia di uniformazione tecnologico-mercantile», come scrive Marramao, perché la tecnica sta svincolandosi dal mercato e perché il suo scopo è l’aumento indefinito della potenza, ossia quell’apertura senza limiti che è l’opposto della tenaglia. L’errare estremo è colmo di splendore — come Lucifero lo è di luce.

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