domenica 19 agosto 2018

STORIA DEL COMUNISMO. IL PCI NON COMPRESE I FATTI DI PRAGA. U. DE GIOVANNANGELI, "A Praga morì il comunismo" .Intervista con M. FLORES, HUFFPOST, 19 agosto 2018

"Quell'Agosto del 1968, il gruppo dirigente del Partito comunista italiano non comprese, o non volle comprendere, che a Praga si stava consumando l'ultima possibilità per sperimentare la riformabilità del comunismo. Una responsabilità storico-politica che non è stata lenita dall'Enrico Berlinguer, segretario generale del Pci, che anni dopo parlò della fine della spinta propulsiva del socialismo reale.

Ormai era troppo tardi. L'Armata Rossa che occupa Piazza San Venceslao, la sanguinosa repressione messa in atto dai Paesi del Patto di Varsavia, furono una lezione che d'allora chiunque si ribellò ad Est non scordò mai: il comunismo poteva essere combattuto e sovvertito ma riformato no". A sostenerlo, in questa intervista ad HuffPost è lo storico Marcello Flores. "Quanto poi alla nuova sinistra sessantottina – aggiunge il professor Flores – con rare eccezioni, liquidò la Primavera di Praga come un evento tutto sommato secondario, perché ai loro occhi Alexander Dubček aveva l'imperdonabile limite di essere un riformista e non un rivoluzionario".


Di questi giorni, cinquant'anni fa, si consumava nel sangue e nella repressione sovietica la "Primavera di Praga". Professor Flores, un ricordo personale e una riflessione politica legata a quel momento.
"I ricordi di cinquant'anni fa sono quelli di un giovane fortemente antisovietico e non certo perché 'reazionario'. Tutt'altro. Di quei giorni, così intensi e drammatici, ricordo, per restare alla sinistra, la sottovalutazione da parte di quella nuova, sessantottina, perché di quella Primavera e del suo leader, Alexander Dubček, non piaceva il profilo, troppo 'riformista' e poco, o niente 'rivoluzionario'. Quanto poi al Partito comunista italiano, non si può parlare di sottovalutazione. ma di una distanza tanto più marcata quanto più forte era il legame con l'Urss. Quel legame era talmente forte che non fu un caso che il gruppo del Manifesto fu espulso su questa questione".
Se rivede da storico quell'evento e lo analizza volgendo lo sguardo a sinistra, quale sottolineatura ritiene più significativa?
"Se la vedo da storico, la fortissima incomprensione di quello che significava la Primavera di Praga. Una incomprensione colpevole, comunque la si voglia motivare, perché quella era l'ultima occasione per sperimentare la riformabilità del comunismo. Praga rimase totalmente sola, o per meglio dire fu lasciata sola, in Occidente, da quei partiti comunisti che pure rimarcavano l'esigenza, rivendicandola come elemento identitario, di vie nazionali al socialismo. Alla Cecoslovacchia ciò non fu permesso. E ciò fece sì che da quel momento in poi l'idea dominante anche nelle opposizioni interne ai Paesi del blocco sovietico, era che il comunismo non fosse riformabile e dunque non poteva che essere combattuto, sia pure in forme diverse. Avemmo infatti Solidarnosc, e prima ancora Charta 77 che si mossero su un terreno di rivendicazione di diritti politici, civili, sociali, e di spazi di libertà, ma ormai nessuno più pensava a un socialismo riformato. L'ultimo a tentare questa carta fu Gorbačëv".
C'è chi ha definito Michail Sergeevič Gorbačëv un illuso...
"Un illuso? Direi di no. Sicuramente un utopista a cui poi sfuggirono di mano le dinamiche che lui stesso aveva messo in moto, soprattutto sul terreno delle nazionalità. E infatti, l'Unione finì perché ogni repubblica decise di andare per conto proprio".
Quindici dicembre 1981. In una tribuna politica che passò alla storia, il segretario generale del Pci, Enrico Berlinguer, riflettendo sulle vicende che avevano segnato la Polonia, con il colpo di stato del generale Jaruzelski affermò testualmente: "Quello che mi pare si possa dire in linea - è che ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell'est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d'inizio nella rivoluzione socialista d'ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, e che ha dato luogo poi a una serie di eventi e di lotte per l'emancipazione nonché a una serie di conquiste...". Un passo indietro nel tempo, per un'altra considerazione che resterà negli annali della storia: 11 giugno ' 76, in una celebre intervista a Repubblica. L' Italia non deve uscire dalla Nato, dichiara Berlinguer il Patto Atlantico può essere uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà. Professor Flores, queste, come altre, impegnative affermazioni di Berlinguer possono essere lette come una sorta di riflessione autocritica, sia pure a distanza di anni, sull'atteggiamento del Pci verso la Primavera di Praga?
"Non è mia intenzione sminuire la portata delle parole che ha citato, tuttavia quelle considerazioni non rimarginano la ferita del '68 e non assolvono l'allora gruppo dirigente del Pci da responsabilità che sono politiche, e non solo storiche. Non si doveva attendere 13 anni e i fatti di Polonia per riconoscere ciò che era già chiaro a Praga nel '68, e ancor prima in Ungheria nel '56, se non addirittura nel 1921. Ma per restare alla Primavera di Praga, che è il tema di questo nostro colloquio, non riconoscere che l'invasione della Cecoslovacchia rappresentava già, senza alcun dubbio, la fine della 'spinta propulsiva', questo rappresenta un imperdonabile errore che non è solo di analisi ma perché rappresenta per il Pci marcare ancora una scelta di campo. L'aver aspettato più di dieci anni per prendere atto di una realtà già chiara un decennio prima, ha una sola spiegazione: il legame con l'Urss impediva di vedere la realtà. E chi quella realtà aveva provata a metterla a nudo, viene considerato un 'eretico' ed espulso o messo ai margini...E questo legame con l'Urss impedisce la formazione in Italia di un grande partito socialista e democratico unico".
Professor Flores, cinquant'anni dopo la Primavera di Praga, socialismo è ancora una parola spendibile per una sinistra in profonda crisi di identità?
"Io credo che al momento non lo sia, perché il peso del fallimento della Storia è ancora troppo forte. Dopo di che credo che gli ideali del socialismo di fine '800 e inizio '900, rimangano tutti validi e ancora aperti".
Ma quei principi e quei valori a cui lei fa riferimento, come dovrebbero coniugarsi oggi e potrebbero rappresentare il fondamento ideale da contrapporre al sovranismo imperante?
R)"Direi di sì. Quei valori e principi, che richiamano all'idea di solidarietà, di uguaglianza, di inclusione, e che intendono tenere assieme diritti civili e diritti sociali, hanno strutturato esperienze importanti di democrazia e di welfare nel secolo scorso. Occorre però, a mio avviso, uno sforzo, politico e culturale, per arrivare a una nuova formulazione capace di definire anche un nuovo vocabolario politico che sia al passo coi tempi. E' questo un passaggio cruciale, un impegno inderogabile, perché quei valori non finiscano sotto le macerie delle esperienze fallimentari del '900, sia del comunismo che della socialdemocrazia".
L'Europa potrebbe essere il luogo politico di questa innovazione?
"Più che potrebbe, dovrebbe. Ma le difficoltà sono sotto gli occhi di tutti".

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