martedì 7 aprile 2015

ITALIA. LIBERTA' DI STAMPA. C. MALAVENDA, L’idea sbagliata di restringere il diritto di cronaca, CORRIERE DELLA SERA, 6 aprile 2015

Caro direttore, 
il premier si è detto pronto ad intervenire, per risolvere il nodo intercettazioni, con misure che non blocchino i magistrati e, contemporaneamente, consentano di soddisfare il sacrosanto diritto di cronaca. 


Saggia decisione e, tuttavia, par di capire che voglia anche limitare la diffusione delle conversazioni di cui, secondo lui, avvocati, magistrati, addetti ai lavori e media avrebbero abusato, in modo incredibile ed inaccettabile. 
Certo il programma è ambizioso, ma il clima non è dei migliori. 
I giornalisti continuano ad avere la giusta pretesa di scegliere le conversazioni da pubblicare ed a volte sbagliano. 
Le persone non indagate, ma messe ugualmente alla berlina, protestano, a volte del tutto immotivatamente, invocando sanzioni esemplari ed interventi legislativi. 
Tecnici e politici, incuranti del malaffare che tocca oramai gangli vitali, ne hanno fatto una questione di principio e ciascuno di loro è sicuro di avere in tasca la formula giusta, per arginare il dilagare delle conversazioni, che tracimano dagli atti giudiziari, fin sui giornali e in tv. 
E taluni, richiesti o meno, mandano al governo i loro suggerimenti, che hanno in comune lo smantellamento del sistema di regole vigenti, cui nessuno sembra oramai attribuire alcun credito. 
Nell’attesa di conoscere quale sarà la soluzione che, secondo Matteo Renzi, è a portata di mano, bisogna dire che le poche proposte, finora avanzate, non paiono andare nella direzione da lui indicata. 
Se occorre anche tutelare il diritto di cronaca, infatti, le misure da adottare non dovrebbero impedire ai giornalisti, entrati in possesso legittimamente di atti, brogliacci e file audio, di selezionare gli stralci, a loro parere meritevoli di diffusione. E se le intercettazioni sono irrinunciabili, non bisognerebbe limitarne l’uso o addirittura abolirle. 
Eppure Carlo Nordio ha sostenuto, con un certo seguito, che sarebbero pericolose per i dialoganti - un modo elegante per indicare gli indagati - ed addirittura nefaste per i terzi, estranei alle indagini. 
Propone, perciò, di eliminarle dal codice, ad eccezione delle intercettazioni preventive, quelle che servono solo ad acquisire notizie per prevenire i reati più gravi, associazione mafiosa e terrorismo in primis, e non certo per individuare chi sia il responsabile di quelli già commessi. 
Intercettazioni che - nessuno lo ha ricordato - consistono in ascolti a tappeto, facilmente prorogabili, disposti dal solo pm, su richiesta del ministro dell’Interno o di altri organi delegati, sulla base di meri elementi investigativi e senza alcun intervento del giudice. 
Le intercettazioni, se la proposta venisse accolta, verrebbero così utilizzate solo per prevenire - e non per accertare - tutti i reati, per i quali è oggi possibile disporle, così ampliando a dismisura uno strumento invasivo, che solo la gravità dei reati per cui è oggi previsto può giustificare. 
I risultati, infatti, non possono essere usati nel processo e vengono distrutti, chi ne rivela i contenuti commette reato, ma nessuno degli intercettati saprà mai di esserlo stato e le informazioni raccolte possono ugualmente essere utilizzate «a fini investigativi», senza alcuna garanzia o controllo. 
La Commissione Gratteri, un supporto tecnico, con funzioni consultive, a quel che si è inteso, suggerisce, poi, come ha ricordato qualche giorno fa Giovanni Bianconi sul Corriere , di introdurre un nuovo reato, la «pubblicazione arbitraria delle intercettazioni»; e di punire, con la multa da 2 mila a 10 mila euro - non proprio un’inezia - o con la reclusione da due a sei anni, chiunque diffonda le intercettazioni, se il loro contenuto è diffamatorio e risulti «manifestamente irrilevante ai fini di prova». 
La sanzione riguarderebbe certamente i giornalisti - per i quali, dunque, tornerebbe il carcere - che decidessero di pubblicare anche conversazioni non pertinenti alle indagini perché, parafrasando il Garante della privacy, secondo il quale non tutto ciò che è di interesse per il pubblico è anche di pubblico interesse, non tutto ciò che non interessa il pm è anche privo di pubblico interesse. 
Ma potrebbe applicarsi anche a giudici e magistrati che, sempre secondo le norme elaborate dalla Commissione, non dovrebbero inserire, nei loro provvedimenti, ad eccezione delle sentenze, il testo integrale delle intercettazioni, a meno che esse non siano rilevanti ai fini della prova. 
La violazione di questo criterio, non agevole da applicare, li esporrebbe a facili denunce dei loro indagati. 
Potrebbe accadere, ad esempio, al gip che diffondesse, trascrivendole in un’ordinanza di custodia cautelare, intercettazioni utili solo ad inquadrare il contesto criminoso, con la consapevolezza che, così facendo, esse diverrebbero subito pubbliche. 
Facile intuire la serenità con la quale i magistrati si troverebbero a redigere i loro atti, spesso forieri di conseguenze assai negative per i destinatari. 
Il governo non si è pronunciato su queste proposte e si confida che non sia il silenzio di chi, tacendo, acconsente; e non ha ancora reso note le norme, che finalmente scioglieranno il nodo. 
La verità, a noi sembra, è che nessuno possiede ricette miracolose e per disciplinare una materia così complessa, occorre ragionare con pacatezza, senza fretta e certo non sull’onda di polemiche, suscitate da proteste, spesso tutt’altro che disinteressate. 
Una sola cosa è certa, molti sono i diritti in gioco e tutti meritano di essere ugualmente garantiti. 

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