sabato 20 luglio 2013

SOCIOLOGIA DELLA POLITICA. GIUSEPPE DE RITA, Salvate i partiti anche da se stessi, IL CORRIERE DELLA SERA, 20 luglio 2013

È ormai evidente come l'attuale sforzo di ristrutturazione della politica si orienti più ai suoi assetti istituzionali che all'evoluzione della sua dimensione partitica. Siamo un po' tutti speranzosi che i comitati di saggi portino frutti sostanziali sulla configurazione futura dei pubblici poteri; che il metter mano ad alcune crisi gravi (nel federalismo incompiuto come nella incerta revisione delle Province) porti a una precisa ridefinizione del rapporto fra poteri centrali e poteri periferici; che la fatica quotidiana delle larghe intese di governo possa ridare funzionalità fisiologica alla dialettica delle parti in campo; che gli stessi impegni europei ci aiutino a fare ordine nelle decisioni a forte carica istituzionale, dal controllo della spesa al fiscal compact .


La politica sembra quindi volersi rinnovare lavorando su percorsi istituzionali, mettendo in secondo piano la revisione delle sue forme interne, cioè della sua dimensione partitica e delle componenti a essa complementari, dall'associazionismo al movimentismo, alle campagne d'opinione. Su questi aspetti c'è oggi il deserto, basta guardarsi intorno e fare quattro semplici constatazioni: il movimentismo grillino non riesce a tramutarsi in partito e rischia la disarticolazione; l'onda d'opinione per Scelta civica non si consolida in partito e rischia la frammentazione; il berlusconismo resta avventura personale e non si può prevedere se mai finirà per essere partito; e il Pd è attraversato da diverse ambizioni, posizioni e lotte. Le quattro componenti della attuale dialettica politica, in sintesi, non sembrano in grado di ripensare il loro destino partitico; e non ricevono alcun aiuto dalle sedi (le élite come i movimenti di base) tradizionalmente deputate ad alimentare un'avventura partitica.
Fare partito per farne strumento della politica sembra oggi dannatamente difficile perché impone cinque scelte decisive. Anzitutto impone qualche aggettivo che dia un senso di condivisione e appartenenza. Non bastano i richiami botanici o stellari o civici, bisogna esprimere quel che si vuole: in fondo nei grandi partiti del passato erano gli aggettivi (comunista o democristiano) a dare l'indispensabile messaggio. In secondo luogo c'è bisogno di individuare il blocco sociale di riferimento: non basta una condivisione d'opinione, necessariamente volatile, bisogna capire di quali componenti sociali si vuole fare interpretazione politica e rappresentanza istituzionale. In terzo luogo serve almeno un'idea di «forma partito» (assembleare, federale, burocratico che si voglia) per sfuggire alle scorciatoie recentemente percorse (l'enfasi sulle primarie, rivelatesi poi prigioniere degli apparati). E da tale necessità ne discende un'altra, quella di definire regole certe e costanti nel tempo; perché senza di esse si naviga a vista e con spinte e controspinte di ogni tipo. E infine, quinta esigenza, c'è bisogno di un programma, magari non di un lungo elenco delle cose da fare, ma di interpretazione e orientamento dei fenomeni e dei processi che attraversano la società italiana in questo momento di intensa e contraddittoria globalizzazione.
Nessuna delle forze politiche oggi in campo si è seriamente esercitata su queste cinque esigenze, e le conseguenze si vedono, così come si vedono le paure di potenziale caos disgregativo. Forse uno sforzo di ripensamento va fatto, magari in parallelo alle revisioni istituzionali oggi di maggior moda.

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