domenica 30 novembre 2014

ANTROPOLOGIA E POLITICA. G. AMENDOLA, La politica sulla vita non fa ostaggi. Recensione a Didier Fassin, Ripoliticizzare il mondo, IL MANIFESTO, 21 novembre 2014

 La rela­zione tra vita e poli­tica ha costi­tuito, almeno dalla fine degli anni Ottanta in poi, il tema cen­trale del dibat­tito teorico-politico, e in par­ti­co­lare di quello ita­liano. 


Non a caso, la bio­po­li­tica è stata indi­vi­duata come una sorta di mar­chio di fab­brica della cosid­detta Ita­lian Theory, Pro­prio in Ita­lia, però, si è spesso corso il rischio che la gene­ri­cità di un ter­mine come vita finisse per affo­gare in una peri­co­losa indi­stin­zione l’intera que­stione della bio­po­li­tica. Si può dire, anzi, che la «vita» sia spesso ser­vita, nel nostro dibat­tito teo­rico, per neu­tra­liz­zare dif­fe­renze e scelte poli­ti­ca­mente impe­gna­tive: un bel richiamo a un gene­ri­cis­simovivente, spe­cie in una cul­tura come quella ita­liana nella quale vita­li­smi e idea­li­smi si sono intrec­ciati con mal­fa­mati esiti poli­tici, può in fondo sem­pre ser­vire a scac­ciare dalla rifles­sione poli­tica sog­getti e con­flitti reali, e a rimet­tere in cir­colo con il vestito nuovo meta­fi­si­che tra­di­zio­na­lis­sime. Ciò non toglie, però, che attra­verso la bio­po­li­tica sono state nomi­nate que­stioni seris­sime, e mal si rea­gi­rebbe agli abusi e alle gene­ri­cità archi­viando sia il ter­mine che la questione.
Molto utile, allora, disporre di que­sto Ripo­li­ti­ciz­zare il mondoStudi antro­po­lo­gici sulla vita, il corpo e la morale (ombre corte, pp. 177, euro 18, cura e tra­du­zione di Chiara Pilotto) dell’antropologo fran­cese Didier Fas­sin, già ben noto in Ita­lia per le sue ricer­che su sicu­rezza e poli­zia (di recente è stata tra­dotta, da La Linea, La forza dell’ordine. Antro­po­lo­gia della poli­zia nelle peri­fe­rie urbane). Il libro è appunto un intenso corpo a corpo con il pro­blema della bio­po­li­tica, intesa, con Fou­cault, come nesso tra poli­tica, corpo e verità. Oltre la crisi degli alfa­beti tra­di­zio­nali della poli­tica moderna, sostiene Fas­sin, una ripo­li­ti­ciz­za­zione, la rico­stru­zione di un senso com­ples­sivo dell’azione poli­tica, è ancora pos­si­bile, ma deve calarsi nel vivo delle sog­get­ti­vità, dei corpi e degli affetti.

TEC­NI­CHE DI GOVERNO

La bio­po­li­tica resta quindi un pas­sag­gio obbli­gato e cru­ciale. Per Fas­sin, però, il discorso fou­caul­tiano è insuf­fi­ciente: Fou­cault enun­cia come deter­mi­nante il tema della poli­tica della vita, ma, in fondo, lo lascia cadere quasi subito. In Fou­cault, scrive Fas­sin, dopo i rife­ri­menti a una bio­po­li­tica in senso stretto con­te­nuti alla fine del corso del 1977, Biso­gna difen­dere la società, o in La volontà di sapere, l’attenzione fini­sce per con­cen­trarsi piut­to­sto sulle tec­ni­che di governo delle con­dotte (il tema della gover­na­men­ta­lità) che sul senso e sul valore delle con­crete poste in gioco oggetto di quelle tec­ni­che. I rife­ri­menti al potere della vita in quanto talespa­ri­reb­bero, e il Fou­cault gover­na­men­tale pro­dur­rebbe infine una «bio­po­li­tica senza vita»: più pre­ci­sa­mente, una poli­tica sulla vita piut­to­sto che una poli­tica della vita.
Pro­ba­bil­mente, que­ste obie­zioni risen­tono di un certo clima inter­pre­ta­tivo, simile a quello che ricor­da­vamo con rife­ri­mento al dibat­tito ita­liano: let­ture che ridu­cono il tema della gover­na­men­ta­lità ad una sorta di ana­li­tica delle tec­no­lo­gie di governo, in verità, non man­cano. L’impressione è che, quando Fas­sin in sostanza obietta che l’analisi del potere mar­ce­rebbe astrat­ta­mente sepa­rata da quella del nesso soggetto/verità, col­pi­sca effet­ti­va­mente un punto cri­tico di molte inter­pre­ta­zioni, ma lasci fuori invece let­ture più intrec­ciate e sti­mo­lanti del per­corso fou­caul­tiano, quelle appunto che hanno rifiu­tato di sepa­rare sog­get­ti­vità e gover­na­men­ta­lità, sog­get­ti­va­zione e potere, etica e poli­tica. Del resto lo stesso Fas­sin ricorda come ecce­dano ogni pre­sunta «bio­po­li­tica senza vita» sia l’impegno per­so­nale di Fou­cault nelle lotte dei movi­menti sociali, sia «il suo orien­ta­mento teo­rico più tardo, rivolto alla dimen­sione etica del governo di sé e degli altri»: il che con­ferma l’idea che la scelta come obiet­tivo cri­tico di un Fou­cault che ridur­rebbe la bio­po­li­tica a tec­nica di governo sia debi­trice a una let­tura un po’ troppo com­par­ti­men­tata del per­corso foucaultiano.

LA SCOM­PARSA DEI SOGGETTI

Ma lasciamo pure agli stu­diosi fou­caul­tiani que­ste, comun­que rile­vanti, que­stioni inter­pre­ta­tive, e veniamo a cosa Fas­sin intenda poi, dal canto suo, per poli­tica della vita. Qui lo sguardo antro­po­lo­gico offre molti mate­riali per un approc­cio alla bio­po­li­tica che superi deci­sa­mente ogni ambi­gua gene­ri­cità dei rife­ri­menti alla vita e al vivente. Non per nulla, Fas­sin cri­tica con deci­sione un altro dispo­si­tivo attra­verso il quale i discorsi sulla vita rischiano di vedersi neu­tra­liz­zata la loro pre­cisa por­tata poli­tica: quello che separa di netto vita bio­lo­gica e vita sto­ri­ca­mente qua­li­fi­cata, il fatto di soprav­vi­vere, la vita in sé e la «vita che si vive attra­verso un corpo e come società». È alle moda­lità di impli­ca­zione reci­proca e com­plessa delle diverse dimen­sioni che invece biso­gne­rebbe guar­dare: in altri ter­mini, ogni vita è sem­pre una forma di vita sto­ri­ca­mente pro­dotta, con­tro ogni taglio tra forma di vita ed ele­mento bio­lo­gico, quale può emer­gere per esem­pio nell’approccio di Han­nah Arendt, almeno quando separa di netto lo spa­zio poli­tico da quello della vita natu­rale (e riduce a quest’ultima dimen­sione tutto lo spa­zio dell’economico-sociale) o in quello di Agam­ben, in cui l’insistenza sulla nuda vita rischia di pro­durre «indif­fe­ren­zia­zione del poli­tico» e, soprat­tutto, «la scom­parsa dei soggetti».
Niente nuda vita e niente vita in sé, quindi, non bìos con­tro zoè, ma vite sto­ri­ca­mente qua­li­fi­cate e corpi sui quali poteri sto­ri­ca­mente e poli­ti­ca­mente pre­ci­sa­bili inci­dono la pro­pria azione.
Poli­tica della vita signi­fica, per Fas­sin, che il fatto di vivere, nel senso di con­ser­vare la vita, di soprav­vi­vere, si impone come cri­te­rio di legit­ti­mità ultima dell’azione poli­tica. Se i domi­nati, durante il capi­ta­li­smo indu­striale, usa­vano il pro­prio corpo essen­zial­mente come fonte di forza lavoro, ora il corpo, la sua stessa esi­stenza in vita, si trova ad essere gio­cato diret­ta­mente come fonte di diritti. L’economia poli­tica clas­sica dello sfrut­ta­mento del lavoro si intrec­cia così pro­fon­da­mente con un’economia morale, in cui si viene chia­mati ad esporre il pro­prio corpo, a rac­con­tarlo, a cer­ti­fi­carne con­ti­nua­mente il disa­gio e le sof­fe­renze come titolo legit­timo per recla­mare diritti o almeno assi­stenza. Le inda­gini sul campo pre­sen­tate da Fas­sin illu­strano con straor­di­na­ria con­cre­tezza l’affermarsi di que­sta nuova bio­le­git­ti­mità e delle nuove disu­gua­glianze, delle nuove gerar­chie che attra­verso que­sta nuova «cit­ta­di­nanza bio­lo­gica» si producono.
michel-foucault
La bio­le­git­ti­mità è, per esem­pio, l’anima pro­fonda della ragione uma­ni­ta­ria (tema cui Fas­sin ha dedi­cato uno dei suoi libri più noti) che si è impo­sta nelle poli­ti­che migra­to­rie. Quanto più il senso poli­tico del diritto d’asilo viene neu­tra­liz­zato dalle poli­ti­che secu­ri­ta­rie, tanto più avanza la logica uma­ni­ta­ria: non a caso, il sistema dei per­messi di sog­giorno tem­po­ra­nei per l’accesso a cure medi­che indi­spen­sa­bili viene a sosti­tuire pro­gres­si­va­mente la pos­si­bi­lità, sem­pre più ardua, di otte­nere asilo poli­tico. La pro­ce­dura ammi­ni­stra­tiva costringe ad un’esposizione sem­pre più indi­vi­dua­liz­zata della pro­pria sto­ria: inve­ste la sog­get­ti­vità, richie­dendo il sup­ple­mento d’anima di una nar­ra­zione il più pos­si­bile pate­tica e per­sua­siva; allo stesso tempo, obbliga all’oggettività del docu­mento, all’esibizione con­ti­nua di certificati.
Sul ver­sante della pre­ca­rietà eco­no­mica ed esi­sten­ziale, le cose non vanno diver­sa­mente: la piega com­pas­sio­ne­vole e cari­ta­te­vole assunta da sistemi di wel­fare sem­pre più con­di­zio­nati costringe a rac­con­tare e a docu­men­tare la pro­pria dif­fi­coltà estrema, per riu­scire a sfrut­tare le resi­due elar­gi­zioni di un’amministrazione sem­pre più discre­zio­nale, che mescola con­ti­nua­mente giu­sti­zia e pietà nelle pro­prie gri­glie di valutazione.
Nel gioco con­ti­nuo di «costru­zione di sé e di sot­to­mis­sione allo Stato», nel «dop­pio pro­cesso di sog­get­ti­va­zione e assog­get­ta­mento», la vita diventa così il ter­reno sul quale si gioca la legit­ti­mità morale e poli­tica della pro­pria pre­senza. Una gio­vane donna hai­tiana può rac­con­tare l’uccisione del padre mili­tante poli­tico, il rapi­mento della madre, lo stu­pro col­let­tivo che ha subito: ma tutto que­sto non le varrà, nella stroz­za­tura gene­rale del diritto d’asilo, quanto la deci­siva cer­ti­fi­ca­zione della pro­pria sie­ro­po­si­ti­vità. I corpi sono così affer­rati in un gioco di vio­lenza poli­tica espli­cita, in cui lo Stato costringe ad esi­birsi con­ti­nua­mente come vit­tima, e di vio­lenza strut­tu­rale impli­cita, attra­verso «l’incorporazione di un pas­sato e di un pre­sente violenti».

UNA TRA­GICA LETTURA

La poli­tica della vita, letta in que­sto senso, segna evi­den­te­mente un ulte­riore avan­za­mento della forza dei pro­cessi di pre­ca­riz­za­zione, insieme morale e poli­tica, delle esi­stenze, sot­to­messe con­ti­nua­mente all’obbligo di esporre la pro­pria estrema fra­gi­lità per mostrare la pro­pria legit­ti­mità. E fin­ché l’analisi si incen­tra sui gio­chi di potere incen­trati sul corpo, una visione ultra­di­sci­pli­nare della bio­po­li­tica non può che pre­va­lere. Del resto, lo stesso Fas­sin non lo nasconde: la sua let­tura della bio­po­li­tica resta una let­tura segnata dal tra­gico. Ma i testi di Fas­sin offrono chiavi di let­tura che vanno oltre un’analisi dell’intensificazione bio­po­li­tica delle forme dell’assoggettamento.
Per com­pren­dere la poli­tica della vita e le con­trad­di­zioni di fondo della ragione uma­ni­ta­ria e com­pas­sio­ne­vole, è fon­da­men­tale l’uso, ricorda Fas­sin, del con­cetto di eco­no­mia morale: quel tes­suto di norme ed obbli­ghi, di valori e di affetti, che defi­ni­sce ciò che si può tol­le­rare e ciò che intol­le­ra­bile, ciò che si può fare e ciò che non si può fare, e che è indi­spen­sa­bile per cogliere lo spes­sore etico, irri­du­ci­bile alle spie­ga­zioni mec­ca­ni­ci­sti­che ed eco­no­mi­ci­sti­che, della sto­ria di classe. L’attenzione alle eco­no­mie morali nasce appunto den­tro la sto­ria sociale delle rivolte con­ta­dine prima e ope­raie poi: Edward Pal­mer Thomp­son, lo sto­rico sociale che espli­citò que­sta idea, la uti­liz­zava pro­prio per valo­riz­zare, all’interno della for­ma­zione della classe ope­raia inglese, un mondo di pas­sioni e di usi, di sim­boli e lin­guaggi, che nes­suna let­tura deter­mi­ni­stica sarebbe stata in grado di cogliere.

ESI­STENZE COATTE

In que­sto senso, l’attenzione alle eco­no­mie morali può rom­pere la male­detta cir­co­la­rità del «dop­pio pro­cesso» di assog­get­ta­mento e di sog­get­ti­va­zione, e per­met­terci di sco­prire, anche nelle zone dei subal­terni e dei mar­gi­nali, le mille stra­te­gie della pro­du­zione di sog­get­ti­vità. E pro­prio in que­ste stra­te­gie, pre­ca­rie ma costanti, spesso di sot­tra­zione e di sus­si­stenza, ma anche di rifiuto e di rivolta, le poli­ti­che della vita incon­trano con­ti­nua­mente la pos­si­bi­lità di una rottura.
Così, anche la ragione uma­ni­ta­ria si mostra con­ti­nua­mente attra­ver­sata da sto­rie col­let­tive che la modi­fi­cano con­ti­nua­mente; resi­stenze che pos­sono for­zarla dall’interno e tra­sfor­marla radi­cal­mente, rica­lan­dola nel fuoco dei con­flitti pol­tici, pro­prio facendo leva su quel sen­ti­mento dell’intollerabile che lo stesso uma­ni­ta­ri­smo mobi­lita con­ti­nua­mente. Pro­prio per­ché la vita non è mai nuda, ma sem­pre sto­ri­ca­mente qua­li­fi­cata, i campi dell’umanitario, del wel­fare cari­ta­te­vole, della pro­du­zione di mar­gi­na­lità, sono più che mai campi deci­sivi di inter­vento poli­tico: l’affermarsi sem­pre più intenso delle poli­ti­che della vita, in fondo, signi­fica anche una sem­pre pos­si­bile inten­si­fi­ca­zione, diret­ta­mente poli­tica, delle micro­stra­te­gie di sus­si­stenza e di resi­stenza che attra­ver­sano con­ti­nua­mente i luo­ghi dell’assistenza e del ser­vi­zio sociale.
L’umanitarismo può gestire le vite, gerar­chiz­zarle e pre­ca­riz­zarle nei modi più pene­tranti, ma lo stu­dio delle «eco­no­mie morali» ci ha sem­pre messo davanti momenti deci­sivi in cui il sen­ti­mento etico dell’intollerabile si fa motore di resi­stenza poli­tica, di sog­get­ti­va­zione, e le stra­te­gie di soprav­vi­venza e di sot­tra­zione agli obbli­ghi e ai con­di­zio­na­menti si rive­lano, al fondo, forme della lotta di classe e della pos­si­bi­lità di «ripo­li­ti­ciz­zare il mondo».

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