lunedì 5 settembre 2016

POLITICHE DELL'EDUCAZIONE. INSEGNARE IN INGLESE. P. DI STEFANO, L'impaziente inglese. Intervista con C. Marazzini, LA LETTURA,

La discussione sul rapporto tra inglese e lingue nazionali, specie nell’insegnamento, è sempre viva. Ovviamente non solo in Italia ma ovunque in Europa. Non è un caso che sull’argomento si sia tenuto a Firenze, lo scorso fine settimana, il convegno annuale dell’Efnil (European Federation on National Institutions for Language), una federazione delle istituzioni che nei diversi Paesi si occupano dello sviluppo e della salvaguardia delle lingue nazionali (ufficiali): l’obiettivo è quello di promuovere il multilinguismo nell’Unione Europea, dando sostegno a tutte le lingue, per evitare lo strapotere dell’inglese. Dopo il convegno fondativo del 2003, l’Efnil è tornata a riunirsi nella sede dell’Accademia della Crusca, per concentrarsi su un tema-chiave: «L’uso delle lingue nell’insegnamento e nella ricerca universitaria: passato, presente, futuro». Ne sono venuti fuori, detti in breve, alcuni elementi di rilievo.


1. Nella gran parte dei Paesi l’uso delle lingue nell’insegnamento, anche universitario, è regolato da leggi dello Stato che, pur prevedendo l’inglese, confermano l’obbligatorietà e la prevalenza della lingua nazionale. Le eccezioni sono parziali e riguardano i gradi di studio più elevati (master e dottorati) ma sempre in convivenza con la lingua nazionale.
2. L’esperienza dimostra che l’inglese dei non anglofoni è per lo più povero o talmente specifico da risultare poco comprensibile agli altri anglofoni e in particolare ai nativi.
3. Gli specialisti delle più diverse provenienze chiedono che venga assicurata la migliore formazione culturale nelle lingue dei singoli Paesi.
4. È ovvio che ciò non cancella il riconoscimento dell’utilità e anzi spesso della necessità dell’uso dell’inglese nell’istruzione universitaria, ma a tre condizioni: che non si rinunci a una formazione in lingua nazionale; che si distingua tra livelli iniziali di studio e livelli finali; che si differenzi tra le varie materie: quelle con un linguaggio «bloccato» o «formulistico» (matematica, chimica, fisica, elettronica) e le altre. Per esempio, si considera negativo l’abuso di inglese per discipline come la medicina o l’architettura, che non sono solo insegnamenti da laboratorio.
Claudio Marazzini, che insegna Storia della lingua italiana all’Università Piemonte Orientale di Vercelli, è da pochi mesi presidente dell’Accademia della Crusca. Qualche giorno fa, su Facebook, è intervenuto a proposito del Clil (Content and Language Integrated Learning), la metodologia didattica introdotta dalla riforma Gelmini che prevede un insegnamento disciplinare (non linguistico) in inglese nelle scuole secondarie superiori: supponiamo, la matematica, la storia dell’arte o la geografia non insegnate in italiano ma in inglese. La sua è una critica severa: «Indebolire l’insegnamento disciplinare, lasciando credere che così si impara l’inglese “passaporto per il mondo” è un errore grave che rischia di compromettere la competenza solida nei contenuti, quella che ha permesso tutto sommato in questi anni la cosiddetta “fuga o esportazione dei cervelli”. Se quei cervelli hanno trovato ospitalità altrove, non è per i loro meriti nella conoscenza dell’inglese, ma semmai per la capacità dimostrata nelle varie discipline che professavano».
Professor Marazzini, la «questione della lingua» di recente è finita per la prima volta in mano alla magistratura: il Tar della Lombardia ha annullato la decisione del rettore del Politecnico di adottare esclusivamente l’inglese nei corsi di laurea magistrale. E adesso si attende la sentenza del Consiglio di Stato. Che ne dice?
«La sentenza di primo grado afferma esplicitamente che “il carattere ufficiale della lingua italiana ne determina il primato in ogni settore della vita dello Stato”. Ma già qualcuno ha studiato il modo di aggirarla proseguendo nella progettazione di corsi tenuti da italiani a italiani parlando più o meno bene in inglese, apparentemente per attirare gli stranieri, ma nella sostanza per avere vantaggi da una normativa che premia questa scelta con finanziamenti o punteggi. Altrove, per esempio nel Paesi Baltici, lo scontro tra università e politici sull’argomento si è risolto con delle leggi che prevedono la gradualità: per le lauree di livello basso l’inglese non può superare il 10-15 per cento, poi si sale, ma senza mai andare oltre il 50 per cento».
Sarebbe utile anche in Italia una legge analoga?
«Certo, anche perché noi italiani siamo i più accaniti nemici della nostra lingua e della nostra tradizione, di cui cerchiamo in tutti i modi di cancellare le tracce. Corriamo dietro al mito dell’internazionalizzazione trasformandola subito in burocrazia: quanti studenti stranieri si riescono ad attirare con l’inglese… Con questo criterio le università ne hanno fatte di tutti i colori. Per esempio, ci sono atenei che hanno pagato il soggiorno a studenti cinesi venuti da noi per fare il concorso di dottorato. Non importa la qualità, ma la quantità».
Quali sono i fattori che sconsigliano l’abbraccio indiscriminato della lingua inglese a certi livelli della formazione?
«Ci sono due aspetti: quello cognitivo, secondo il quale uno studente o ricercatore che pensa e parla sempre in una lingua che gli è estranea non può esprimere al massimo le proprie potenzialità; quello sociale che riguarda lo scambio tra sapere e società. Bisogna salvaguardare la funzione sociale della lingua, che è quella di assicurare la circolazione della conoscenza: per esempio, un medico, un veterinario, un architetto o un ingegnere devono saper comunicare con pazienti, clienti, cittadini in genere; ma se acquisiscono una competenza solo in inglese non potranno farlo al meglio».
Quando si parla di questi argomenti, si formano subito due schieramenti: i modernisti che stanno con l’inglese e i conservatori che difendono la lingua nazionale. Lei è un conservatore?
«Non mi piacciono le due vie radicali. Io penso ovviamente che l’inglese vada mantenuto, ma con equilibrio: l’imposizione indiscriminata è una forzatura che rischia di nuocere al Paese non solo sul piano culturale, ma anche sul piano economico, come dimostrano ormai da tempo gli studiosi di economia linguistica. In Germania le università non rinunciano certo al tedesco, tanto meno in Francia al francese. Nessuno può negare all’inglese lo spazio su certe riviste internazionali, in particolare per alcune discipline. Ma nelle valutazioni dei nostri concorsi universitari c’è un’esterofilia provinciale: la pubblicazione in lingua straniera su una rivista estera vale di più. Ma chi l’ha detto! In Italia ci sono fior di riviste di storia, di letteratura, di architettura, di ingegneria, di medicina, di economia… Non tenerne conto significherebbe sancire l’inesistenza dello spazio della cultura e della ricerca italiane. Le posso raccontare un aneddoto?».
Certo.
«Un famoso medico italiano, specialista in malattie infantili, chiamato a lavorare negli Stati Uniti, raccontava che nel suo battesimo straniero un collega gli disse: “Your english is bad, bat your science is good”».
I primi a sancire l’inesistenza dell’italiano sono spesso tanti sindaci e autorità pubbliche che si avventurano a parlare l’inglese anche quando rischiano di fare brutte figure…
«Io credo che una figura pubblica debba usare la propria lingua nazionale nei discorsi ufficiali (userà l’inglese, se lo conosce bene, a tavola, nei pranzi, nei corridoi, nei rapporti e scambi dietro le quinte). È possibile, noi italiani dobbiamo guardare sempre al Papa? Non solo usa l’italiano (che non è la sua lingua madre), ma lo fa ufficialmente anche quando va in Corea. È proprio vero che alla fine gli italiani si ritrovano sempre con il Papa, più che con le loro autorità civili, come al tempo dei bombardamenti di San Lorenzo a Roma. La spinta più potente all’italiano nel mondo viene proprio dal fatto che il Papa parla italiano, il che costringe i vaticanisti stranieri a masticare la nostra lingua. Viceversa, i nostri politici, anche quando fanno le riforme scolastiche, non se ne preoccupano mai».
Paolo Di Stefano

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