lunedì 5 settembre 2016

POLITICHE DELL'EDUCAZIONE. INSEGNARE IN INGLESE. Il rischio della svalutazione della lingua nazionale nella didattica (e nella considerazione scolastica) FACEBOOK AC. D. CRUSCA, 15 settembre 2014


Tra i provvedimenti sull’istruzione suscita qualche inquietudine l'attuazione ormai avviata delle norme sul CLIL (acronimo per Content and Language Integrated Learning), cioè l’insegnamento alle superiori di alcune materie in inglese. Sull’argomento diamo la parola a Claudio Marazzini, il nostro presidente.



Com’è noto, nel corso dei secoli l’italiano è stata una delle lingue sulle quali si sono scatenate più discussioni tra i dotti e i letterati. È la cosiddetta “questione della lingua”. Limitandomi ai tempi più recenti, fra le tappe rilevanti del dibattito linguistico italiano nel Novecento posso ricordare la discussione sui diritti delle minoranze linguistiche, conclusasi con la legge del 1999 in cui all’art. 1 è stato stabilito per la prima volta (non era detto in alcun’altra norma) che l’italiano è la lingua “ufficiale” (non “nazionale”, si badi) dell’Italia. Posso ricordare poi le campagne di Tullio De Mauro per la diffusione dell’italiano in tutti i ceti, la battaglia per la chiarezza nella comunicazione burocratica e amministrativa, sempre in corso. Infine ci sono state le discussioni suscitate dalle scelte legate al “politicamente corretto”, la questione del Consiglio nazionale della lingua, e ovviamente le discussioni sull’influenza dell’inglese. Non abbiamo dimenticato le riserve espresse alla fine del secolo XX sull’avvento di una cosiddetta “lingua selvaggia”, un italiano impoverito e poco regolato che penalizzava (forse ancora penalizza) le nuove generazioni uscite dalla scuola di massa, mettendo in dubbio la salda conquista della lingua come bene primario di tutti. Presto le nuove generazioni saranno salvate grazie a quel po’ di inglese distribuito dal CLIL? Bella domanda.

Oggi non è più questione di decidere sulla legittimità di singoli anglicismi, che sarebbero il male minore o nemmeno un male, ma proprio sull’uso dell’inglese integralmente al posto della lingua nazionale in importanti contesti. In primo luogo abbiamo l'università, nei corsi più avanzati, poi la scuola secondaria: con il CLIL (Content and Language Integrated Learning) è stato introdotto nelle scuole secondarie superiori un insegnamento disciplinare in inglese (in sottordine restano eventualmente le altre lingue possibili, ma negli Istituti tecnici l'alternativa pare esplicitamente esclusa).

La questione travalica ormai il confine dell’uso linguistico nella scuola e nell’università e si trasforma pian piano in una scelta di campo nella politica linguistica, con effetti sociali e civili di vasta portata. Si tratta probabilmente del capitolo più importante della questione della lingua nel secondo millennio. Per ora la vicenda non è chiusa. Il CLIL si avvia appena. Nell’Università si attende il verdetto del Consiglio di Stato, dopo che la prima sentenza della III sezione del Tar della Lombardia depositata il 23 maggio 2013 (n. 1348/2013) ha dichiarato illegittimo l’uso esclusivo dell’inglese nei corsi universitari e ha annullato la scelta del rettore del Politecnico di Milano, suscitando però una forte resistenza, appoggiata, ahimè, dal Ministero dell’istruzione. Credo sia la prima volta che un tribunale della Repubblica entra nel dibattito sulla “questione della lingua” e ne determina gli esiti, e per questo citerò i nomi dei giudici di primo grado: il presidente Adriano Leo, i due referendari Alberto Di Mario e Fabrizio Fornataro, estensore della sentenza, nella quale si afferma esplicitamente che «il carattere ufficiale della lingua italiana ne determina il primato in ogni settore della vita dello Stato». Intanto in molti atenei si studia il modo di aggirare la sentenza di primo grado, e si prosegue nella progettazione di corsi tenuti da italiani a italiani parlando più o meno bene in inglese, apparentemente per attirare stranieri, nella sostanza per trarre vantaggi da una normativa che premia con finanziamenti o punteggi tale tipo di scelta (cfr. Michele Gazzola, Il falso dibattito sull'internazionalizzazione dell'Università → http://on.fb.me/1sNgckx).

Siamo giunti quindi al vero problema. Secondo noi si profila un rischio: la svalutazione della lingua nazionale nella didattica e nella considerazione scolastica. La scuola, nel primo decennio del nuovo millennio, è stata interessata da interventi linguistici: la riforma della secondaria ha portato significativi spostamenti di ore da una disciplina all’altra, talora contraddittori persino rispetto al programma delle “tre I” del governo Berlusconi: si pensi al calo delle ore di inglese nei licei scientifici (anche se una delle “I” era appunto quella dell’inglese, assieme all’informatica e all’impresa). Le ore di italiano, coerentemente con questa visione educativa, sono state diminuite: nel liceo classico, nel liceo scientifico con l’opzione delle scienze applicate, nel liceo delle scienze umane, nell’istituto tecnico economico, nell’istituto professionale. Si è avuta l’introduzione del CLIL che prima nominavo, cioè l’introduzione dell’inglese come lingua di fatto obbligatoria per insegnare una materia curriculare "non linguistica". Quale dovesse essere questa materia, se scientifica o umanistica, è rimasta un'opzione libera, quasi si trattasse di un dettaglio di secondaria importanza. Scelta assai discutibile, questa, perché forse l’esperimento sarebbe stato meno rischioso se condotto nelle materie tecnico-scientifiche che hanno un saldo metalinguaggio, o che fanno uso di disegni, grafici, numeri e formule, e non puntano prima di tutto sulla lingua, sulla logica e sulla dialettica.

Ora qualche cosa si chiarisce con l’importante nota del MIUR prot. 4969 del 25 luglio 2014. L’applicazione di queste norme di luglio, senza dubbio equilibrate, ma ancora piuttosto vaghe, tanto da lasciare un margine di arbitrarietà (potremmo dire più ottimisticamente “un eccesso di responsabilità”) non indifferente alle singole scuole, ci sollecita ad aprire un dibattito serio sulla questione. Diamo dunque l’avvio a uno scambio di idee sul tema CLIL, sperando di evidenziarne i rischi e migliorarne gli attuali difetti.

Un po' di storia e un po' di principi generali. A suo tempo si partì dalla considerazione che per mettere in atto il progetto occorressero insegnanti con conoscenza dell’inglese al livello C1, ma di fatto costoro non erano disponibili in quantità sufficiente, come era del resto prevedibile. Di fronte alla necessità, mentre alcune università si mobilitavano per organizzare corsi,si sono accettati insegnanti al livello B2, e poi anche B1, in attesa di conseguire il livello alto inizialmente previsto. Primo aggiustamento al ribasso, insomma. L’accelerazione eventuale del provvedimento potrebbe dunque tradursi in una sorta di farsa, in cui un docente poco esperto fa finta di far lezione in inglese ad allievi italiani che capiscono peggio di quanto capirebbero con l’italiano. Ciò comporterebbe una perdita di qualità dell’insegnamento nella scuola già in crisi, senza alcun reale vantaggio per la conoscenza dell’inglese. L’insegnamento della lingua rischia di essere affidato a dilettanti volenterosi ma non specialisti, volontari rapidamente formati in clima di emergenza, mentre ai veri docenti di lingua inglese, formati allo scopo fin dagli studi universitari, sono state tolte, come dicevamo, ore preziose: scelta che mi pare assolutamente priva di coerenza.

La normativa, per quanto visibilmente azzardata, non è stata sostanzialmente modificata dopo la fine del governo di centro-destra, anzi sembra subisca ora una sorta di accelerazione, con le indicazioni sull'esame finale alla fine del ciclo di studi. Per di più, duole dirlo, nel mondo della scuola, spesso reattivo e talora turbolento, non si è manifestata alcuna seria resistenza al provvedimento, anzi si è vista la riforma con ingenuo favore, senza comprenderne le conseguenze. Probabilmente pesa il fatto che molti non hanno chiaro il concetto fondamentale di “lingua madre” e sottovalutano la necessità di possedere perfettamente almeno una lingua di partenza. Molti credono che si possa saltare direttamente sulla comoda scialuppa della lingua universale applicandola al contenuto delle discipline scolastiche dell'istruzione secondaria. Come si fa però a credere che lo si possa fare senza intoppi, quasi che le condizioni dell’atto comunicativo si riducessero sempre e solo all’interazione superficiale paragonabile a quella che si verifica nel turismo di massa o nell’amichevole scambio di convenevoli? Purtroppo la lingua serve anche in condizioni più difficili, per confrontare opinioni divergenti, per mettere alla prova interessi opposti, per scrivere leggi e norme, e via dicendo. Sono tutte situazioni in cui il possesso naturale della lingua avvantaggia grandemente chi lo ha per diritto di nascita. Svalutare la propria lingua nazionale concedendo gratis il primato ad altri, dunque, non porta necessariamente vantaggi. Ma con il CLIL – risponderanno immediatamente i suoi inventori e sostenitori – vogliamo proprio superare i limiti di un insegnamento della lingua tradizionale. Vogliamo eliminare le situazioni fittizie create per imparare un idioma nuovo. Noi applicheremo condizioni “vere”, parlando in inglese di cose solide come la matematica, la storia, la filosofia. Tuttavia, mi viene da osservare, quelle situazioni “vere” non diventano immediatamente fittizie ed evanescenti nel momento in cui si mescolerà apprendimento delle “cose” e sforzo per capirle e comunicarle in una lingua diversa? La lingua straniera usata per accostare per la prima volta argomenti difficili prima ignoti non complicherà inutilmente la didattica? Un po’ come se per imparare a fare roccia sulla parete di una impervia montagna si indossassero apposta brache strette e scarpe che fanno male. Oppure si finirà per scegliere una palestra facilitata,per comodità, per sentire di meno la morsa delle brache strette. In tal caso si imparerà di meno, a danno dei contenuti disciplinari.

Dietro il CLIL si agitano anche altri problemi, determinati dall’ansia di insegnare l’inglese in forme che si vorrebbero per forza assolutamente nuove, ad esempio anticipando i tempi. Usare l’inglese nelle scuole materne credendo di renderlo così lingua madre serve a poco. Si può fare qualche cosa, ma senza la pretesa di realizzare una metamorfosi dei parlanti nativi. Indebolire l’insegnamento disciplinare, lasciando credere che così si impara l’inglese “passaporto per il mondo” è un errore grave che rischia di compromettere la competenza solida nei contenuti, quella che ha permesso tutto sommato in questi anni la cosiddetta “fuga o esportazione dei cervelli”. Se quei cervelli hanno trovato ospitalità altrove, non è per i loro meriti nella conoscenza dell’inglese, ma semmai per la capacità dimostrata nelle varie discipline che professavano. Capisco che non siamo più ai tempi di Fermi, ma ricordiamo tuttavia che quando quello scienziato andò in America, conosceva abbastanza poco l’inglese, e aveva scritto in italiano e in tedesco. Ho sentito uno scienziato della mia generazione  (il prof. Massimo Trucco, Hillman Professor of  Pediatric Immunology Head,  Division of Immunogenetics,  Department of Pediatrics,  University  of  Pittsburg) raccontare il proprio battesimo internazionale, quando, al momento di essere reclutato in un centro (si noti) britannico di ricerca, gli fu detto: “Your English is bad, but your science is good”. Ricordiamoci che difficilmente si troverà spazio all’estero senza che la “science” sia “good”, e dunque diffidiamo delle sperimentazioni incaute. Si insegni pure l’inglese in maniera massiccia, e questo sarà positivo, ma non lo si adoperi per sottrarre spazio ai saperi che si trasmettono meglio e in maniera più naturale nella lingua materna, la quale, fra l’altro, serve da ponte verso le altre lingue.

Mi è capitato spesso di ripetere un pensiero di Massimo Arcangeli, secondo il quale nessuno è stato tanto determinato nel danneggiare l’italiano come gli Italiani: la loro anglofilia superflua e pretenziosa induce «a identificare i più grandi avversari dell’Italia con gli italiani stessi» (Cercasi Dante disperatamente. L’italiano alla deriva, 2012).


[Tratto, con rimaneggiamenti, da Claudio Marazzini, Da Dante alle lingue del Web, in L’italiano sulla frontiera: Vivere le sfide linguistiche della globalizzazione e dei mediaAtti del convegno internazionale (Basilea, 9-10 maggio 2014), in stampa]

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