sabato 22 luglio 2017

FILOSOFIA POLITICA. UN SAGGIO SU MARX DI FABIO VANDER. F. RAIMONDI, Il paradiso in terra alla fine della Storia, IL MANIFESTO, 20 luglio 2017

l problema di Marx e del marxismo è filosofico e nasce dal fatto che «il motivo dialettico», legato alla formazione hegeliana di Marx, «convive criticamente-problematicamente con il motivo ontologico derivantegli dalla lunga e approfondita frequentazione dei classici greci», per sfociare nella ricerca della «compossibilità di dialettica e ontologia, di idealismo e materialismo», di «critica» e «sistema», «rivoluzione» e «comunismo», «politica» e «filosofia», «negazione della negazione» e «positività», «storia» ed «essere». 


Secondo l’analisi che Fabio Vander offre nel suo Critica e sistema. Filosofia del giovane Marx (manifestolibri, pp. 366, euro 28), tale compossibilità non è stata realizzata né da Marx né dai filosofi marxisti (anche se con gradi di approssimazione diversi: il György Lukács di Storia e coscienza di classe, ad esempio, è meglio posizionato di Louis Althusser), perché il modo in cui hanno inteso la dialettica (e i suoi sinonimi: Hegel, idealismo, critica, rivoluzione, politica e storia) non è compatibile con la loro concezione dell’ontologia e dei suoi sinonimi: materialismo, sistema, comunismo, filosofia e essere.
Pur essendo discutibili sia la contrapposizione sia le sinonimie, secondo l’autore, la ragione principale del fallimento, più che nelle critiche sbagliate a Hegel, sta nel fatto che l’ontologia marxista è identica a quella di Parmenide. Se così fosse, poiché la rivoluzione si dà nella storia con lo scopo di porre fine alla lotta di classe, che è il motore della storia stessa, la rivoluzione condurrebbe verso una dimensione «altra», il comunismo, che però sarebbe senza storia e senza politica. E se la rivoluzione è nella storia, mentre il suo esito, il comunismo, ne è fuori, la «transizione» sarebbe impossibile; infatti: o è storica o non lo è; nel primo caso non porterebbe fuori dalla storia, nel secondo lo sarebbe già.
IL COMUNISMO, secondo Vander, è per Marx «il luogo del trascendimento integrale della dimensione politica», tanto che «in Marx non c’è dottrina politica del comunismo perché il comunismo non conosce politica» essendo «un “ambiente” dove non si pongono più “problemi” sociali, politici e storici». Una specie di paradiso che assomiglia più all’immagine datane da Lukács in Ontologia dell’essere sociale, per il quale o c’è politica o c’è comunismo, che alle parole di Marx.
La diagnosi impietosa, però, ha un rovescio, abbastanza trascurato dall’autore: se il comunismo non riesce a essere una dimensione altra da quella capitalistico-borghese, quindi non «altra» in senso mistico o assoluto, allora si è destinati a restare nella lotta tra le classi, nell’ingiustizia sociale, nello sfruttamento e così via: si resta nella storia e nella politica ma nella prospettiva o di una rivoluzione permanente o di un progressismo di sinistra di matrice liberale.
L’AUT-AUT è tra totalitarismo – Stalin, dice Vander, è già nell’anelito di Marx al comunismo come dimensione pura dell’essere – e storicismo, la bicicletta senza ruote, con la quale si pedala ma non si va avanti; tra presunta conoscenza positiva (ultima e definitiva) dell’essere e continuo cambiamento senza punti fissi.
In ogni caso, a voler abbandonare l’equilibrio hegeliano tra soggetto e oggetto, anche nei casi in cui l’accoglienza di Hegel sembra più marcata (alcuni nomi: Lukács e Herbert Marcuse, Rodolfo Mondolfo, Karl Korsch e Slavoj Zizek), si precipita spesso, secondo l’autore, nel primato dell’oggettivo (ontologia) sul soggettivo (dialettica). Al contrario, l’«ontologia dialettica» di Hegel, per dirla con Alexandre Kojève, consente di generare «una critica filosoficamente fondata, sistematica, capace di assicurare, cioè senza trascendenza, storia, politica, divenire», uscendo dall’opposizione metafisica delle due catene di sinonimi.
Ne dovremmo dedurre che la dialettica hegeliana è, al contempo, immanente e sistematica, critica e comunista? Oppure è il comunismo il principale bersaglio polemico di Vander? Se Marx è «totalitario» sin da subito e nulla cambia dopo il Manifesto (quando Marx prenderà risolutamente la strada dell’ontologia assieme a Engels) né col marxismo, allora o l’autore sta cercando un comunismo non marxista oppure la sua analisi ha l’aria di una liquidazione definitiva, almeno nelle intenzioni, del comunismo di ispirazione marxista.
AL DI LÀ DALLE SEMPLIFICAZIONI, forse eccessive e provocatorie, nel testo di Vander emerge una contrapposizione quasi manichea tra dialettica e ontologia, tra storia ed essere. Un dualismo metafisico attribuito al giovane Marx, che non credo sia di Marx, perché l’ontologia in Marx, se c’è, non ha solo una matrice greca, così come la dialettica non è solo quella hegeliana. Ovvi i riferimenti a Baruch Spinoza (non letto però con le lenti di Hegel) e che a Vander non sembra piacere, e all’atomismo.
Ritengo, inoltre, poco produttivo considerare Marx solo un filosofo (benché sia possibile leggerlo da filosofo), perché la filosofia è uno dei fattori che assieme al diritto, alle scienze, alla lotta politica e all’economia, tanto per citarne alcuni, ne genera il pensiero e l’agire politico. Penso, infine, che inserire Marx in un dialogo in cui i filosofi si parlano come se fossero fuori dal tempo e dallo spazio misconosca l’intento del giovane di Marx, che voleva liberarsi da questo tipo di filosofia mostrando che essa parla sempre da un punto preciso della storia e con fini altrettanto precisi.

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