domenica 6 agosto 2017

COME RISOLVERE LE DISEGUAGLIANZE. UN SAGGIO DI R. PRODI. G. BARBA NAVARETTI, Ritrovare l'eguaglianza, ILSOLE 24 ORE, 23 luglio 2017

a crescita inclusiva è oggi la parola d’ordine di qualunque politico occidentale avveduto. Un politico a cui è ben chiaro che i tre pilastri del progresso, forse dall’epoca Reagan-Thatcher, certamente dalla caduta del muro di Berlino, mercato, globalizzazione, tecnologia, hanno creato molta ricchezza, ma non distribuita a dovere. Mentre ovunque, soprattutto nei Paesi emergenti, cresceva il reddito medio pro-capite, nei Paesi avanzati aumentavano povertà e disuguaglianza. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale il destino dei figli rischia di essere ben peggiore di quello dei padri.


Come sollevare questo piano inclinato verso il basso? A questa domanda, difficilissima, soprattutto per l’Italia, prova a rispondere il nuovo libro di Romano Prodi, una conversazione con Giulio Santagata e Luigi Scarola. La risposta, giustamente mirata all’inclusione, rischia però di perdere di vista il progresso.
Il libro è un esercizio riparatore, un mending job, come direbbero gli inglesi, di una società ferita nel profondo. Una società dove il welfare diminuisce, il lavoro diventa precario, la demografia rende insostenibili i sistemi pensionistici, le classi medie perdono potere di acquisto. E un’economia dove c’è più finanza e meno attività reale; più capitale e meno lavoro; più tecnologia e meno uso dell’uomo.
È una narrazione un po’ scura, pessimista dalla parte di chi è rimasto fuori e si chiede cosa sia possibile fare per rientrare. Le proposte di Prodi sono molte ed equilibrate. Rendere il lavoro più stabile; favorire le nuove occupazioni e la formazione professionale; ridurre l’evasione fiscale e aumentare le tasse di successione; sviluppare un nuovo welfare, anche di mercato.
Ne esce certamente una visione di società migliore, un lavoro minuzioso di infermeria, di cucitura e disinfezione delle ferite. Un lavoro di cui nessun governo oggi può permettersi di fare a meno. Affannati dall’idea di progresso associata alla liberalizzazione e alla integrazione dei mercati, allo sviluppo tecnologico, per molto tempo ci siamo dimenticati di che stava fuori. È così emerso un populismo di rottura basato sulla negazione, sul contro tutto, un po’ cieco, senza soprattutto la necessità di un progetto politico vero. Un populismo di fatto di esclusione. Correttamente un nuovo e vigoroso tentativo di inclusione può essere il solo antidoto a questa profonda frattura sociale.
In tutto questo disegno manca però una visione forte di progresso. Il pendolo si è spostato troppo dall’altra parte. L’esercizio riparatore non riuscirà mai ad essere tale se la nostra società, la nostra economia e la nostra politica non riescono più a trasmettere un’idea di progresso, l’idea che i figli non staranno peggio dei propri genitori. E qui l’inclusione non basta.
Il progresso è presente nel libro di Prodi, ma un po’ distante, in una visione tenue o pessimista. Ci sono delle proposte, anche molto coerenti con le competenze e la storia del nostro Paese. Per esempio la proposta di rafforzare l’offerta di lavori sociali ed economicamente sostenibili: operatori sul territorio, non profit, il servizio civile. Sono tutte occupazioni che richiedono professionalità nuove, importanti in un Paese dove le comunità e le famiglie contano molto, con una popolazione in continuo invecchiamento, con un territorio che ha continui bisogno di prevenzioni e riparazioni. Proposte importanti, coerenti con una visione sociale del mercato, capaci di trasformare il welfare anche in un veicolo di sviluppo, ma insufficienti a dare al Paese abbastanza benzina per una crescita sostenuta.
Pessimiste sono invece le considerazioni sull’innovazione tecnologica. Descritta come un inesorabile sostituto al lavoro «anche volendo pensare che l’innovazione tecnologica riesca nel lungo periodo a produrre un ingente numero di posti di lavoro (…) resta il fatto che questo processo non si sta mettendo in moto».
E per quanto l’importanza di processi come Industria 4.0 sia del tutto condivisa, Prodi è preoccupato che l’Italia non sia in grado di prendere questo treno: «Stiamo subendo un danno doppio dalla rivoluzione tecnologica, perdendo imprese e lavoratori nella fascia bassa del mercato e acquisendone meno dei nostri concorrenti nella fascia alta».
Nel libro ci sono diverse indicazioni su come evitare di perdere il treno: più investimenti pubblici e privati, meno dipendenza dal credito bancario delle imprese, investimenti in formazione e istruzione. Ma rimane una profonda amara disillusione su cosa ci riserverà il progresso.
Mi chiedo se questa visione amara e malinconica non sia profondamente influenzata dalla mancanza di sviluppo che ha caratterizzato la nostra storia degli ultimi vent’anni. Crescendo dell’1 % all’anno arriveremo nel 2025 al reddito del 2007. Avremo perso 18 anni, quasi una generazione di crescita. E dopo 18 torneremo ad un punto che era comunque l’esito di oltre 10 anni di crescita asfittica, lenta e confusa. Cosa manca al nostro Paese è davvero l’inclusione? O forse il progresso? È molto diversa la narrazione sulla crescita inclusiva in un Paese dove si è cresciuto molto e non si è incluso abbastanza, rispetto ad un Paese dove si è cresciuto comunque poco o nulla. L’Italia ha dunque bisogno di progresso, di sogni realizzabili, di capire come muoversi su uno scacchiere in continuo movimento. E certo, lavorare sull’inclusione, ma bisogna saper pensare e proporre scenari che accendano i cuori e le speranze delle nuove generazioni. Pochi hanno un’esperienza di vita e professionale migliore di Prodi per capire e narrare il progresso. Spero che questo possa essere il tema del suo prossimo libro.

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