lunedì 30 luglio 2018

POLITICA DELLE MIGRAZIONI E COLONIALISMO. AFRICA. R. SAVIANO, Prima deprediamo poi respingiamo, L'ESPRESSO, 26 luglio 2018

Studi, approfondimenti, analisi soccombono oggi al cospetto della più elementare delle bufale. Non è più necessario elaborare false notizie che almeno sembrino vere, non serve più alcuna intelligenza sottile per ingannare. Basta un’immagine e poche parole, rigorosamente assurde: ormai le persone, addestrate al peggio, sono inclini a credere a ogni cosa. 



Forse non ha più senso andare ogni volta indietro nel tempo, per cercare il momento esatto in cui il declino è iniziato, in cui il meccanismo democratico ha preso a scricchiolare. I colpi inferti sono stati tanti e nessuno può sentirsi assolto. Però abbiamo il dovere di impedire che la storia venga travisata, soprattutto quando è storia di morte e sofferenza.

Fabrizio Gatti in “Bilal” aveva già descritto, undici anni fa, quello che sta accadendo ancora oggi in Africa. Aveva descritto perché si parte, come si parte e chi può partire. È assurdo - ma di fronte allo smalto di Josefa assurdo non è più niente - dover riraccontare, ridescrivere, ribadire che nessuno lascia la propria terra senza un motivo più che valido e, di fronte a questa molteplicità di motivi, dobbiamo interrogarci su quanta parte di responsabilità abbiamo noi.

Sono pieno di sconforto perché la chiave per sovrastare con parole umane il rutto disumano di questo governo non l’abbiamo ancora trovata; sono pieno di sconforto perché esistono schiere di finti intellettuali, finti filosofi, finti YouTuber al soldo di Putin che, pagati per dare il loro maldestro contributo alla destabilizzazione dell’Europa, riscrivono la storia, se ne appropriano, la falsificano e noi glielo consentiamo, come se la storia avesse smesso di appartenerci, come se avessimo smesso di curarcene.

Fabrizio Gatti in “Bilal” parte da Milano in aereo e arriva a Dakar, la prima tappa del suo viaggio. Proprio Dakar mi ha fatto venire in mente l’isola di Gorée che dalla capitale del Senegal dista solo tre chilometri. L’isola di Gorée è un lembo di terra oggi Patrimonio dell’umanità, ma fino al 1848 è stato un luogo di sofferenze indicibili. Da lì partivano gli schiavi destinati al Nuovo Mondo. Milioni di africani: i più forti venivano imbarcati, i più deboli buttati a mare. Nessun rispetto per la vita. Nessuno.

Mi sembra assurdo dover scrivere oggi queste parole, sembra come se tutta la nostra storia, come se la storia dell’umanità fosse stata cancellata con un colpo di spugna; come se dovessimo rivivere tutto daccapo per capire. Abbiamo depredato l’Africa di esseri umani e poi l’abbiamo depredata di risorse. Abbiamo fatto nostro il sottosuolo e le sue ricchezze, il mare con i suoi frutti e oggi non accogliamo chi lascia una terra depredata. Depredata dai Paesi che, nonostante politiche predatorie, hanno il coraggio infame di chiudere i porti, di presidiare le frontiere, di respingere, di nicchiare, di temporeggiare.

E chi osa parlare del dovere di accogliere viene chiamato da questi impostori del pensiero e del linguaggio “negriero”. Quanto cinismo nel banalizzare, per fini propagandistici e con il placet di chi governa, la sofferenza e il sangue di un continente che ha visto deportati milioni di suoi figli. Ma cosa importa a questi bianchi occidentali cattolici possibilmente eterosessuali? Non sono problemi che riguardano loro né i loro antenati. Sicuramente riguarderanno i loro discendenti, ma la prerogativa di questi tempi è un ingiustificato e malsano egoismo.

Eppure, a dirla tutta, di negrieri l’Italia è piena e lo sarà fintanto che resterà in vigore la Bossi-Fini per regolamentare l’immigrazione, e fintanto che agli oltre 600 mila immigrati irregolari presenti in Italia non saranno dati permessi di soggiorno. Al di là del senso di umanità, al di là della necessità di accogliere per aiutare le sorti dell’economia del nostro Paese, esiste un legame strettissimo tra la capacità dei governi di gestire i flussi migratori e la capacità di gestire tutto il resto. Per ogni governo la gestione dell’immigrazione è un banco di prova: fallire su quello significa fallire su tutto il resto. E non è consentito barare: la storia che scrivono i vincitori - o quelli che si credono tali - è una storia ridicola, destinata a essere sbugiardata. È solo questione di tempo.

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