sabato 31 agosto 2019

SOCIOLOGIA POLITICA E NEOLIBERISMO. M. MAGATTI, Ridefinire il rapporto tra economia e società, ITALIANIEUROPEI, 3, 18 giugno 2019

Siamo dunque alla fine del neoliberismo? Anche se nella storia le continuità sono sempre rilevanti, io credo di sì. La crisi finanziaria ha rotto gli equilibri del ventennio 1989-2009 e ora il capitalismo è alla ricerca di una nuova conformazione. Di cui si intravvedono alcuni elementi embrionali. La buona notizia è che la partita non è ancora chiusa e c’è tuttora spazio (non per molto però) per una soluzione positiva. Anche se, nel frattempo, i rischi sono enormi.


Che piaccia o no, la presidenza Trump ha iniziato una nuova fase storica in cui l’obiettivo della potenza americana è quello di costrui­re nuovi rapporti di forza, militari e commerciali, a livello globale. Quando Trump dice che intende riequilibrare la bilancia commer­ciale tra Stati Uniti e Cina (negativa per 350 miliardi di dollari) im­plicitamente afferma che il modello della globalizzazione impostato da Reagan nei primi anni Ottanta e sviluppato poi da Clinton negli anni Novanta non è più conveniente per la potenza statunitense.
“Sovranismo” è il termine con cui, convenzionalmente, si definisce questa nuova offerta politica che sostanzialmente consiste nel ritor­no al nazionalismo. Del quale è difficile prevedere gli esiti finali. Le incognite sono tante. A partire dai rischi di una guerra commerciale che può sempre incattivirsi e dare luogo a forme più aperte di con­flitto. E tuttavia, la prima cosa da fare è prendere atto che il vento della storia è cambiato, cercando di capirne le ragioni che fondamen­talmente hanno a che fare con le conseguenze di lungo termine della crisi del 2008. Che ha messo fine al sogno prometeico dei decenni precedenti.
La spinta profonda che si va producendo in tutto il mondo sembra diretta verso forme di democrazia illiberali, dove il consenso politi­co si ottiene scambiando “efficienza per sicurezza”. Nel quadro di un modello autocratico che mescolerà, in combinazioni variabili, il controllo esercitato attraverso le tecnologie digitali e forme di auto­ritarismo politico. Modello che nel mondo è già norma e verso cui rischiano di dirigersi, pur tra mille resistenze, anche le democrazie occidentali. Dentro questa crisi è necessario distinguere almeno due questioni. Una istituzionale legata alla relazione Italia-Europa e l’al­tra più politica, legata ai caratteri della nuova offerta politica. Due questioni distinte ma collegate.
Come evidente, la sinistra in tutto il mondo è in grave difficoltà. Sono molte le ragioni di questo declino. Ma se si guardano i flussi elettorali, si vede chiaramente che la sinistra nel corso degli ultimi decenni è di fatto diventata la portavoce della forma capitalistica af­fermatasi nell’ultima parte del secolo. Se a Milano il PD vince in via Monte Napoleone e perde in periferia, c’è materia su cui riflettere. Ma la stessa cosa vale in America o in Francia.
Si potrebbe dire che Clinton e Blair hanno rappresentato l’apogeo della fase storica cominciata col liberismo di Reagan e Thatcher, ri­uscendo a combinare le istanze soggettivistiche del Sessantotto con le spinte liberalizzanti del neoliberismo. Col risultato che i partiti di sinistra sono diventati quei partiti radicali di massa di cui avevano parlato Pier Paolo Pasolini e Augusto Del Noce. La difesa dei diritti indivi­duali si è col tempo alleata con la grande finanza, finendo per costituirne il sostrato ideologico.
Ed è qui che nasce il distacco dei ceti medi e popolari tanto più indeboliti quanto più lonta­ni dai principali centri di attrazione economica: aver privilegiato il tema della differenza rispet­to a quello della diseguaglianza, l’aumento delle opportunità alla protezione ha finito per creare quel clima sociale in cui siamo oggi immersi. Difatti, gli effetti positivi della globalizzazione hanno mostrato la tendenza a concentrarsi nello spazio (grandi città) e tra i gruppi so­ciali. È stato merito della nuova destra aver capito l’esistenza di una domanda popolare insoddisfatta. Si possono e debbono criticare le tesi dei populisti. Ma è certo che sono stati tali partiti a sapere ascol­tare il grido che saliva da molti strati sociali.
Per la sinistra il presupposto di un nuovo cammino passa dal rico­noscimento di questo grave errore. O almeno dal riconoscimento che la fase storica post 1989 – nella quale la sinistra ha giocato un ruolo importante nel governo dei processi globali – si è ormai chiusa. Il problema non è dunque tornare alla stagione storica precedente. Riaccendere i motori dell’economia per come l’abbiamo conosciuta. Ma immaginare una fase nuova, a partire dalla domanda di umaniz­zazione, di giustizia, di pace, di qualità che, presente (e anzi prevalen­te) nella nostra società, rimane però latente e senza parola. Il cuore del discorso riguarda la ridefinizione della relazione tra economia e società e tra individuo e contesto circostante. La ridefinizione, cioè, del legame sociale.
Da un lato, la situazione nella quale ci troviamo riporta alla ribalta la questione che Keynes aveva dovuto affrontare nel dopoguerra: allora come oggi, si tratta di gestire le conseguenze negative di una fase in cui l’economia finanziarizzata si è posta come variabile indipenden­te, nell’idea che lo sviluppo sociale fosse il semplice effetto secon­dario della crescita economica (trickle-down effect). Dall’altro lato, sul piano più culturale, si tratta di rimettere in discussione l’idea che la libertà consista nel pro­gressivo abbattimento di ogni obbligazione, per principio considerata oppressiva. Liberazione come sradicamento porta solo a frammentazio­ne, diseguaglianze, nuove dipendenze. La libertà o è un progetto comune o non è.
Si pagano oggi i conti della fase storica alle nostre spalle: tutto centrato sulla soddisfazione del de­siderio individuale, il nostro modello di crescita ha progressivamente eroso ogni intermediazio­ne politica, svuotato le istituzioni, indebolito la trama dei rapporti sociali. La sfida è ricomporre la relazione economia-società in un momento in cui l’economia non riesce a raggiungere i livelli di sviluppo degli anni passati e la società appare sfibrata e inadatta a sviluppare quelle nuove forme di integrazione di cui pure avrebbe bisogno. La rabbia e il rancore che tutto ciò sprigiona sono sotto gli occhi di tutti. Ed è da questi sentimenti negativi che occorre partire. Il lavoro di ricucitura che la fase storica richiede può voler dire cose molto diverse. Anche se il problema non è se ma come, chi e perché tratteggerà questa ridefinizione. Il discorso dei sovranisti ha due aspetti problematici. Prima di tutto esso è orientato contro gli altri: i migranti, gli avversari commerciali, l’establishment. Lo spostamento di prospettiva è qui fondamentale perché permette di portare avanti un’operazione di accentramento del potere politico, economico e tecnologico. Questo è il secondo aspetto problematico. È proprio perché si sta combattendo qualcuno che si compiono passaggi politici spericolati. Senza una rotta precisa di medio-lungo termine. L’esito finale di questa nuova ideologia è “l’effetto Lucifero”: distinguere il valore delle diverse vite apre la stra­da alla perdita del senso della comune umanità.
Un nuovo discorso politico deve assumere molto seriamente la do­manda di mediazione tra la vita individuale e i grandi processi glo­bali, proponendo la rilegatura del rapporto tra economia e società nel quadro di una nuova visione della libertà. Il tema latente è infatti quello della ricostituzione del legame sociale. Non contro qualcuno ma per qualcosa. Un tema cioè di alleanza. Lo spirito del nostro tem­po è stato perfettamente colto dallo slogan di una recente pubblicità: «ora finalmente puoi lasciarti guidare». Ecco, a causa del disordine e del caos che regnano nella vita individuale e collettiva – residui tossici dell’epoca precedente – siamo entrati in una stagione in cui si chiede di scambiare libertà per sicurezza.
Se non si vuole che la domanda di legame sociale sia regressiva, occorre lavorare per ricreare le condizioni politiche e istituzionali che permetta­no lo sviluppo integrato delle persone, delle comunità, delle loro econo­mie. Ciò implica una politica capace di identificare priorità (cioè forme del valore) da raggiungere insieme, in quella logica che Michael Por­ter chiama “valore condiviso”. Ciò significa lavorare per strutturare un nuovo scambio tra interessi economici (attraverso la creazione di nuove opportunità di profitto – e dunque di crescita economica – secondo una logica di sostenibilità), sociali (con la produzione/distribuzione di nuovi beni capaci di aumentare la soddisfazione non solo quantitati­va e individualistica dei cittadini) e politici. Obiettivo che può essere raggiunto solo attraverso una politica in grado di farsi garante di tutti coloro che contribuiscono al raggiungimento delle priorità comuni che stanno alla base del valore condiviso che si intende accrescere. Si può chiamare tale scambio sostenibile-contributivo.
La capacità della politica di porre alcune questioni strutturali è qui fondamentale. Questioni che riguardano le cornici istituzionali e re­ golative entro cui la vita sociale ha luogo. È qui che si incontra anche il secondo piano del ragionamento, relativo alla questione dell’Italia e dell’Europa. È chiaro infatti che il progetto dell’Unione si trova oggi di fronte a un bivio: o diventa capace di costituirsi come un efficace e affidabile mediatore politico tra la vita individuale e i grandi processi mondiali o il rischio del suo naufragio diventa realistico. È questa in fondo l’origine della querelle sui migranti attorno a cui l’attenzione dell’opinione pubblica si è focalizzata negli ultimi anni. Il proble­ma è avere una politica comune capace di governare un processo complesso, evitando ogni semplificazione ideologica e cercando nel contempo soluzioni giuste, intelligenti ed efficaci. A partire dal rico­noscimento che quanto è stato fatto fino a oggi è inadeguato. Allo stesso modo, si può e si deve discutere della regolazione dei mercati finanziari e del degrado ambientale. È venuto il momento per ridiscutere le regole della finanza internazionale e ricollocare la produzione eco­nomica entro l’arco di un vincolo di sostenibi­lità. Se non si affrontano questi nodi, Bruxelles continuerà a essere percepita come la principale alleata delle banche contro gli interessi popolari. Tra austerity e finanza allegra occorre trovare una terza via, anche chiarendo che non sono gli inte­ressi bancari quelli da privilegiare. Occorre avere la forza e la capacità per riproporre la centralità del lavoro e dell’ambiente – ripensati alla luce della categoria di con­tribuzione – per superare davvero la crisi nella quale ci dibattiamo. Nella consapevolezza che siamo entrati in una stagione in cui non basterà più il consumo per avere la crescita. Nel tempo che viene, prima occorre mettersi insieme per creare valore (a livello di singola organizzazione, di territorio, di paese, di continente) e solo così sarà possibile sostenere i propri consumi.
Più in generale la vicenda dell’Unione è arrivata a un punto di svol­ta. Al punto in cui siamo, o si va avanti o si va indietro. Così come siamo è impossibile rimanere a lungo. Ciò di cui abbiamo bisogno sono nuovi assetti istituzionali capaci di ricostruire quella relazione tra economia e società di cui si è parlato.
Da qui viene anche la questione italiana. L’Italia costituisce un pic­colo paese per cui lo smantellamento dell’Unione comporterebbe dei rischi importanti, soprattutto tenendo conto dell’alto livello di indebitamento. Da molti punti di vista, l’Europa conviene all’Italia. A condizione però che l’Europa sia davvero Europa. Altrimenti bi­sognerà prendere atto che è necessario percorrere una strada diversa, pensando a come stare al mondo da soli. Compito che comunque ri­mane all’ordine del giorno. La buona notizia è che dentro il modello sostenibile contributivo sopra delineato c’è un modo tutto italiano di vivere l’economia e la società. Non si tratta di inventare nulla. Solo di ascoltare quello che di buono già succede in tanti territori che di fat­to declinano nell’oggi il nostro modello storico. Diventando capaci di dargli voce e rappresentanza. Quel modello, infatti, che esiste già nella parte migliore del paese, punta su tre fattori: la qualità integrale dei processi di produzione; l’integrazione tra l’impresa e il suo terri­torio; lo sviluppo del capitale umano. Se l’Italia fa l’Italia, investendo con decisione su queste tre dimensioni, il nostro paese ha le carte in regola per giocare un ruolo da protagonista nell’Europa e nel mondo del futuro. Un paese guardato con ammirazione e forse anche con un po’ di invidia.
Sono molti secoli che l’Italia non è più centro del mondo. La modernizzazione, come sappia­mo, viene fatta altrove. In queste condizioni, la prosperità dal paese dipende dalla sua capacità di decodificare quei codici traducendoli nei propri. È un lavoro difficile e delicato ma indispensabile per poter uscire dalla stagnazione decennale in cui siamo finiti. Sta­gnazione che, non a caso, comincia proprio nel momento in cui il progetto democristiano del dopoguerra perse la sua energia mentre il modello craxiano di una modernizzazione laica si è stemperato nel berlusconismo che ha colto solo gli aspetti più superficiali e de­responsabilizzanti del neoliberismo. Oggi ciò che serve al paese è una nuova idea del suo futuro. È solo riuscendo a dare sostanza alla distintività derivante dalla nostra marginalità che l’Italia può tornare a essere competitiva, giusta e prospera.
Le difficoltà in cui il paese si dibatte e le tensioni che scuotono il contesto internazionale non si possono negare. Così come non si può negare il forte vento che tende sempre a spingere verso soluzioni illiberali. Eppure, erano molti anni che, nascoste tra le pieghe delle metamorfosi in corso, non si intravedevano opportunità così grandi per reinventare il futuro.
Per muoversi positivamente su questa strada scongiurando gli evi­denti rischi di implosione e regressione che vediamo attorno a noi ci vuole una nuova visione capace di ripensare il rapporto tra economia e società nella prospettiva di un nuovo sviluppo sostenibile-contri­butivo che parli il linguaggio di una libertà che si riconosce sempre in relazione agli altri, al territorio, all’ambiente. Un modello, a dire il vero, che si attaglia perfettamente alla storia e alla tradizione italiane nei suoi risvolti più positivi e attraenti. La sfida certamente è difficile. Ma non è forse davanti alle sfide più impegnative che diventiamo tutti capaci di dare il meglio di noi?

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