giovedì 9 aprile 2020

EPIDEMIE PANDEMIE E RIAPERTURA. M. FAGOTTO F., Se prossimità e distanza sociale ci sono imposte dall'economia, 9 aprile 2020



   Tutta la discussione sulla fine delle restrizioni e sul “ritorno alla normalità” ruota esclusivamente intorno a motivi economici. Di fatto il problema non è tanto la famosa mancanza di libertà, pure evocata nei giorni scorsi. Il problema vero è l’economia che non riparte.  Per cui scopriamo, finalmente, quello che tutti sapevano. Il costringere a restare in casa non è la fine dei diritti umani. Restarsene a casa vuol dire, ma non per tutti, non lavorare. Dico “non per tutti” perché, nel frattempo, diverse categorie rimaste a casa hanno potuto sperimentare il famoso “smart working” che qualche anno fa si chiamava “tele-lavoro”.



   Per cui c’è chi produce beni immateriali (insegnamento, attività finanziarie, pagamenti, ecc.) e chi continua a produrre beni molto materiali (nonostante l’avvento della famose, ma mai viste, stampanti 3D). Difficile immaginarsi di poter produrre beni alimentari, auto, oppure effettuare una seduta odontoiatrica via Skype. Per non parlare della produzione di acciaio e della costruzione di ponti. In effetti, in alcuni di questi casi le attività non si sono mai fermate (le industrie alimentari, i corrieri che trasportano gli alimenti nei supermercati, gli stessi supermercati hanno continuato a lavorare nelle sedi tradizionali).
   Ora l’immancabile università Bocconi ha monetizzato i costi, in termini di perdite ovviamente, del blocco di quelle attività che hanno bisogno della prossimità, proprio il contrario della distanza sociale: “Le misure di distanziamento sociale bruciano - secondo uno studio della Bocconi - il 6,6% del pil. Alberghi, stabilimenti balneari, aerei, parchi divertimenti e ristoranti sono i settori che rischiano di pagare il prezzo più salato ai provvedimenti "anti-droplet" perché ripartiranno più tardi degli altri.” (E. Livini, Quanto costa un metro di distanza? Il conto (salato) del distanziamento sociale,Repubblica, 9 aprile 2020)
L’esperto che accompagna ogni giorno il capo della Protezione civile per comunicare i numeri aggiornati dell’epidemia, vedendo molte donne in platea, ha detto che l’attività che sarebbe più pericoloso riaprire è quella della parrucchiera.  
   Così, per un curioso paradosso, proprio quelle attività fondate sulla promiscuità sociale, causa concomitante ed evidente di quello che stiamo subendo, pagherebbero il pegno di quanto (involontariamente?) hanno generato. Ma nessuno lo dice. E se il virus ci stesse insegnando (eterogenesi dei fini) esattamente questo, che dovremmo reinventare altre modalità di vita?
Quando il terrorismo islamico colpì la metropolitana di Londra, l’allora primo ministro Tony Blair disse che quell’attentato (come, in generale, le minacce del fondamentalismo) non avrebbe certo messo in discussione lo stile di vita degli inglesi (cioè degli occidentali tout court). Adesso un virus ci costringe a riformulare la stessa domanda, suggerendoci che quello che tutti chiamano “normalità” proprio normale non lo era e non lo è.
   Un imprenditore intervistato ha definito la situazione che si sta vivendo con la parola “sospensione”. Il termine è suggestivo: la sospensione implica un’attesa, un bloccarsi del tempo nel suo scorrere scontato e prevedibile. Sospensione come “suspense”.  Nel cinema, e non solo, la suspense implica che il protagonista, e noi con lui, si trovi di fronte ad una situazione di incertezza che genera ansia nell’attesa, però, che qualcosa accada, si sveli e che la normalità riprenda il suo corso. Certo, la sospensione potrebbe essere più pragmaticamente, semplicemente la ‘sospensione delle attività’. Eppure credo che si stia insinuando nella sensibilità collettiva qualche dubbio in più sulla tenuta dei modelli che hanno regolato la nostra mentalità fino ad oggi.  
   Le sfide che quello che chiamiamo impropriamente ‘natura’ ci sta lanciando da qualche tempo e sempre con maggiore determinazione dovranno farci ricredere su numerose convinzioni coltivate e sedimentatesi troppo ingenuamente nel tempo sull'onda di quella magica parola che è stata "progresso".


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