martedì 7 luglio 2020

EPIDEMIE PANDEMIE E RIFLESSIONI FILOSOFICHE. RISPOSTA A BADIOU. ANTIPER, Tra mercati antichi e rotte globali Commento a “Sulla situazione epidemica” di Alain Badiou, SINISTRAINRETE, 1 luglio 2020

Il filosofo francese Alain Badiou ha scritto qualche tempo fa un intervento sulle conseguenze della pandemia SARS-2 in cui formula una serie di interessanti osservazioni con cui può essere interessante confrontarsi.
Dice Badiou
Non ho trovato dunque nient’altro da fare che provare, come tutti, a sequestrarmi in casa mia, e nient’altro da dire se non esortare tutti a fare altrettanto. Rispettare, su questo punto, una rigida disciplina è tanto più necessario in quanto è un sostegno e una protezione fondamentale per tutti coloro che sono più esposti: certo, tutto il personale medico curante, che è direttamente sul fronte, e che deve poter contare su una ferma disciplina, ivi comprese le persone infette; ma anche i più deboli, come le persone anziane, in particolare quelle in EPAD (European Prevention of Alzheimer’s Dementia) o immunodepresse; e inoltre tutti coloro che vanno al lavoro e corrono così il rischio di un contagio.


Si tratta di una domanda che tutti si sono posta: è giusto sequestrarsi in casa durante la pandemia, ovviamente, avendone la possibilità? Si noti che qui il filosofo francese dice “mi sono sequestrato” e non “sono stato sequestrato” (come forse avrebbe detto uno come Agamben) ponendo così il sequestro nei termini di una scelta, sia pure obbligata, e non di un obbligo subìto.
Come è noto le cose non stanno esattamente come le pone Badiou perché, a dire il vero, non si poteva far diversamente che “sequestrarsi in casa”, dal momento che le misure varate dai governi prevedevano multe salatissime ai contravventori e pattugliamenti delle città (fino al ridicolo degli elicotteri in azione su tetti di casa e spiagge deserte). Quello che Badiou intende dire, evidentemente, è che quella del lockdown è stata una scelta condivisibile.
È certamente condivisibile prendere ogni precauzione di fronte ad un virus di cui non possediamo il vaccino e che produce conseguenze gravissime in una quota pur minoritaria dei contagiati; non foss’altro, come sottolinea molto opportunamente Badiou, per abbassare la diffusione del virus e ridurre al minimo il rischio di contagio tra le persone più fragili o esposte.
D’altro canto, secondo la stessa linea di ragionamento, un analogo “sequestro” dovrebbe applicarsi anche alle “normali” influenze stagionali che mietono anch’esse, ogni anno, migliaia di vittime. Invece, vecchi e malati vengono lasciati morire ogni anno come se fosse la cosa più normale del mondo anche quando molti di loro potrebbero vivere meglio e più a lungo con maggiori cure e attenzioni.
Sarebbe bello se la “grande paura” prodotta da questa pandemia servisse da stimolo per pretendere una maggiore attenzione nei confronti di tutte le altre gravi patologie che affliggono le persone, anziane e non, per pretendere nuovi investimenti nella cura e un’inversione della tendenza allo smantellamento della Sanità Pubblica.
Magari questa inversione di tendenza è persino possibile, almeno in certa misura e a condizione che milioni di persone si mobilitino con decisione per imporre maggiori investimenti nella ricerca scientifica, nella cura della salute, nella prevenzione delle malattie.
E tuttavia è lecito un certo pessimismo.
In questi mesi di lockdown è emersa una certa “docilità popolare” a subire ogni tipo di imposizione e una scarsa propensione a mettere lo Stato con le spalle al muro, inchiodandolo alle proprie responsabilità. Bisognerebbe infatti tenere bene a mente che il gran numero di morti che si prospetta a “fine” pandemia nei paesi occidentali deriverà innanzitutto dal fatto che l’organizzazione sempre più “snella” della Sanità Pubblica (dove c’è) e la sua progressiva svendita al capitale privato ha eroso ogni margine di resilienza nei confronti di eventi anche poco più gravi della norma.
Se in Italia disponessimo ancora di 922 letti di terapia intensiva ogni 100.000 abitanti come nel 1980 (e non solo poco più di 250) non avremmo dovuto sacrificare alcuni per salvare altri, se avessimo avuto maggiore capacità di svolgere test virologici a livello di massa e soprattutto attorno alle persone più a rischio, se non avessimo giocato con la pelle dei lavoratori (soprattutto con quelli della Sanità)… avremmo avuto certamente tassi di mortalità inferiori.
Alain Badiou osserva acutamente che la diffusione del virus è il portato di un “connubio natura-società” nel senso che l’infezione nasce in un ambiente “naturale” (ammesso che esista ancora una naturalità che possa essere completamente distinta dall’umanità [1]), ma poi si sviluppa a livello globale attraverso i collegamenti dell’“impero” cinese con il resto del mondo.
Evidentemente, se la Cina fosse un paese isolato dal mondo la diffusione del virus sarebbe stata molto meno forte [2].
Continua Badiou
Un’epidemia ha questo di complesso, che è, sempre, un punto di articolazione tra le sue determinazioni naturali e le determinazioni sociali. La sua analisi completa è trasversale: bisogna afferrare i punti in cui le due determinazioni s’incrociano, e trarne le conseguenze.
D’altra parte la diffusione del virus è anche un esempio di connubio tra natura e un certo tipo di società nel senso dell’effetto catastrofico prodotto dalla combinazione di virus e riduzione ai minimi termini – chiamiamola “neo-liberista”, per semplicità – della capacità di protezione sociale e sanitaria.
A questo punto, nell’indagare la catena causale che ha prodotto la pandemia, indugiare sulla “sporcizia” dei mercati di Wuhan – come peraltro fa lo stesso Badiou – finisce per aiutare la propaganda razzista anti-cinese [3]. Badiou ne è consapevole e infatti si sente in dovere di stigmatizzare
“…tutti coloro che lanciano, sulle reti sociali di Internet, delle favole tipicamente razziste fondate su immagini truccate, secondo le quali tutto proviene dal fatto che i Cinesi mangiano i pipistrelli quasi crudi, vivi…”
Il punto è che la macellazione “al volo” di Wuhan non è l’aspetto principale della questione e lo “spillover” – come viene chiamato il salto “dall’animale all’uomo” (come se l’uomo non fosse esso stesso un animale) – è avvenuto attraverso un contatto soltanto indiretto con i pipistrelli che già in passato erano stati individuati come possibili “accumulatori” per i virus Corona
“Il nuovo coronavirus 2019-nCoV, che l’OMS ha deciso di chiamare SARS-CoV2, isolato nell’uomo per la prima volta alla fine del 2019, dalle analisi genetiche e dai confronti con le sequenze di altri coronavirus da diverse specie animali sembra essere originato da pipistrelli. In particolare due coronavirus dei pipistrelli condividono l’88% della sequenza genetica con quella del SARS-CoV2 (rispetto ad altri due coronavirus noti per infettare le persone – SARS e MERS – SARS-CoV2 condivide circa il 79% della sua sequenza genetica con SARS e il 50% con MERS). Come per SARS-CoV e MERS-CoV, si ipotizza che la trasmissione non sia avvenuta direttamente da pipistrelli all’uomo, ma che vi sia un altro animale ancora da identificare che ha agito come una specie di trampolino di lancio per trasmettere il virus all’uomo.” [4]
Da questo comunicato dell’Istituto Superiore di Sanità dobbiamo dedurre che la pandemia non è nata mangiando pipistrelli vivi. E neppure cotti alla griglia. Quindi, sì, i pipistrelli sono all’origine del virus ma, no, non è stata la loro macellazione “al volo” al mercato di Wuhan la causa reale della diffusione del virus, sebbene poi la “catena della diffusione” sia passata dall’affollatissimo mercato di Wuhan.
È stato certamente molto più il fatto di essere un hub che non quello di essere sede di forme di macellazione arcaiche che ha trasformato il mercato di Wuhan in un focolaio.
Questa convivenza tra il carattere di megalopoli di Wuhan e la permanenza di pratiche antiche di vita è il segno di un passaggio ancora in corso che è di carattere storico e non antropologico (come vuole la propaganda razzista che poi, in realtà, serve solo a costruire consenso su una linea di scontro che gli Stati Uniti, e particolarmente Trump, hanno adottato da alcuni anni nei confronti dell’ascesa cinese).
Come si sa, i virus hanno un periodo di incubazione e all’inizio dell’epidemia, quando la diffusione e la differenziazione sono ancora contenute, i sintomi possono sembrare quelli di una influenza stagionale un po’ più potente (la virologa Ilaria Capua aveva parlato di possibile evoluzione del virus in “raffreddore”).
Si tratta di un punto importante perché, se decidiamo di leggere le scelte politiche dei decisori occidentali come inevitabili (come sembra fare Badiou), allora dobbiamo leggere allo stesso modo le scelte dell’establishment cinese, evitando di farci cassa di risonanza dei ribelli filo-Trump di Hong Kong (come ha fatto un certo filosofo sloveno “pop”), puntando il dito su presunti ritardi, omissioni, sottovalutazioni… del tutto indimostrate e che oggi, dopo gli atteggiamenti assunti da leader occidentali come Trump o Bolsonaro o Johnson e dopo la grande varietà di strategie di risposta alla pandemia – dal lockdown in stile cinese all’“apri tutto” in stile trumpiano – fanno soltanto sorridere.
Badiou prosegue
“Tocchiamo qui una contraddizione maggiore del mondo contemporaneo: l’economia, ivi compreso il processo di produzione di massa degli oggetti manifatturieri, dipende dal mercato globale. Si sa che la semplice fabbricazione di un telefono cellulare mette in moto del lavoro e delle risorse, comprese anche quelle minerarie, in almeno sette stati diversi. Ma d’altro canto, i poteri politici restano essenzialmente nazionali. E la rivalità degli imperialismi vecchi (Europa, USA) e nuovi (Cina, Giappone…) impediscono ogni processo di formazione di uno Stato capitalista mondiale. L’epidemia è anche un momento in cui questa contraddizione tra economia e politica si fa patente. Anche i paesi europei non riescono ad adattare in tempo le loro politiche di fronte al virus”
In questo passaggio ci sono altri elementi interessanti.
Il primo punto è questo: la pandemia si diffonde come fenomeno globale, ma viene affrontata attraverso strategie di carattere nazionale e questo dimostra che la globalizzazione è avanzata molto dal punto di vista economico (scambio di merci, speculazioni finanziarie, trasporti…), in buona parte dal punto di vista culturale (mangiamo sushi e seguiamo le serie Netflix), ma è rimasta molto arretrata dal punto di vista della governance politica (checché ne sperino i “trasformazionalisti” [5] o i filosofi sloveni).
Un secondo punto interessante è che quello che Badiou definisce la Cina “imperialista” e questo è un giudizio che meriterebbe di essere approfondito adeguatamente (ovviamente non in questo contesto) perché è davvero una questione cruciale che non può essere risolta in modo frettoloso.
Badiou propone, come metafora dello “stato di eccezione” pandemico, lo stato di guerra e scrive
“Si sa da gran tempo che in caso di guerra tra paesi, lo Stato deve imporre, non soltanto, certo, alle masse popolari, ma ai borghesi stessi, delle costrizioni considerevoli, e questo per salvare il capitalismo locale. Alcune industrie sono quasi nazionalizzate, a profitto di una produzione di armamenti intensiva, ma che sul momento non produce alcun plusvalore monetizzabile. Una gran quantità di borghesi sono mobilitati come ufficiali e esposti alla morte. Gli scienziati cercano, notte e giorno, d’inventare nuove armi. Gran numero di intellettuali e di artisti sono chiamati ad alimentare la propaganda nazionale ecc.”
Badiou osserva correttamente che, così come avviene nello “stato di eccezione” prodotto dalla guerra, anche in quello prodotto dalla pandemia è lo Stato che deve prendere il controllo perché lasciare al mercato la regolazione delle situazioni di emergenza conduce inevitabilmente al collasso. Si tratta di un acquisizione che il cosiddetto neo-liberismo ha ormai assunto strutturalmente nel proprio DNA.
Lo Stato interviene per salvare il sistema del capitale e riconsegnare al capitale la migliore situazione possibile dopo la fine dell’emergenza. Non stupisce che ci possano essere piccole frizioni tra le esigenze dello “stato di eccezione” e gli interessi di alcune frazioni del capitale privato (in Italia lo abbiamo visto molto bene con le lamentele di Confindustria, peraltro soprattutto verbali).
Questo vuol dire non è affatto impensabile il ricorso a misure che possono apparire “straordinarie”, ma che in realtà non lo sono più di tanto
“spesa pubblica di sostegno alle persone che hanno perso il lavoro, o ai lavoratori autonomi a cui si chiude il negozio, che impegna cento e duecento miliardi di denaro pubblico, lo stesso annuncio di «nazionalizzazioni»: tutto questo non ha nulla di sbalorditivo o di paradossale”
Gli aiuti ai lavoratori e alle imprese non sono un fatto sbalorditivo e meno che mai devono lasciar intendere che il rinnovato protagonismo dello Stato conduca al socialismo (come un certo riflesso condizionato anti-neo-liberista suggerisce in modo quasi automatico in certi ambienti sinistri [6]).
Chi non ha ancora capito che lo Stato può essere capitalista, nazista, razzista, imperialista… e continua a pensare che “lo Stato è bene” perché il “privato/mercato è Male” è irrecuperabile e non merita alcun tentativo di essere recuperato.
“Si può anche dire che indebolendo, da decenni, l’apparato del servizio sanitario nazionale, e in verità tutti i settori dello Stato che erano al servizio dell’interesse generale, lo Stato borghese aveva agito piuttosto come se niente di simile a una pandemia devastatrice potesse mai colpire il nostro Paese. Su questo lo Stato è assai colpevole, non soltanto nella sua forma-Macron, ma anche in quella di tutti coloro che l’hanno preceduto da oramai almeno trent’anni”
A parte il riferimento all’“interesse generale” – concetto pericolosissimo che meriterebbe di essere criticato puntualmente e che cozza frontalmente proprio con il discorso di Badiou (come si spiega infatti che viene colpito da qualcuno un interesse che sarebbe di tutti e dunque anche di quel qualcuno?) – il punto non è una presunta “mancanza di lungimiranza”, ma piuttosto la presunzione di riuscire a far fronte a situazioni di crisi come quella in corso nonostante i processi di “razionalizzazione” – ovvero di smantellamento e privatizzazione – imposti ai sistemi sanitari.
Badiou parla di interessi “più generali” e lascia intendere che lo Stato è costretto ad assumere una posizione essa stessa generale
“la congiuntura obbliga lo Stato a non poter gestire la situazione se non integrando gli interessi di classe, di cui esso è il fondamento di potere, in interessi più generali, e ciò in ragione dell’esistenza interna di un «nemico» esso stesso più generale”
Ora, certamente lo Stato deve prendere in mano la situazione per impedire che il sistema crolli sotto il peso del caos prodotto dalla pandemia. Ma se lo fa non è in nome di un interesse “più generale” bensì in nome di un interesse del tutto particolare come quello di non far crollare l’attuale sistema capitalistico.
È nell’interesse del capitale che lo Stato è costretto, talvolta, a prendere decisioni che dispiacciono al capitale e a svolgere il suo compito di struttura di potere, ma anche di “intellettuale collettivo” del capitale (cosa che del resto Badiou aveva più o meno detto in precedenza).
Come detto, Badiou è convinto che il virus prefiguri un vero e proprio “stato di guerra” e sulla base di tale stato spiega l’azione del Governo francese
“povero Macron, che fa unicamente, e non peggio di un altro, il suo lavoro di capo di Stato in tempo di guerra o di epidemia”
La metafora della guerra è efficace – al punto tale che è stata usata più o meno da tutti –, ma non è ingenua e bisogna stare attenti a legittimare l’idea dello “stato di guerra” perché essa porta con sé la legittimazione dello “stato di eccezione” giuridica, politica e socio-economica che ne deriva e che, soprattutto, se ne farà derivare; dopo la guerra c’è il dopo-guerra e nel dopo-guerra (come peraltro durante la guerra) ogni dissenso è bandito, così come ogni richiesta sociale e salariale [7].
A quel punto, o la guerra diventa occasione di rivolta/rivoluzione (“trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria” si sarebbe detto in altri tempi) oppure, se non se ne ha la forza (e, a guardarsi intorno, probabilmente neppure l’intenzione) allora bisogna prepararsi ad un silenzio ancora più assordante di quello di questi mesi nelle nostre città.

Note
[1] Il sociologo americano Jason W. Moore ha svolto interessanti osservazioni a proposito del rapporto indistricabile tra “umanità” e “società” parlando di umanità-nella-natura e di natura-nella-umanità. Cfr. Jason W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, Ombre Corte, 2015
[2] E’ una riflessione del tutto in sintonia con le conclusioni di Albert-László Barabási nel suo famoso testo, Link. La scienza delle reti.
[3] Zaia: “I cinesi mangiano topi vivi”. L’ambasciata di Pechino protesta, lui si scusa, Rainews
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/zaia-cinesi-mangiano-topi-vivi-ambasciata-protesta-lui-si-scusa-6630af83-073d-49b3-8e60-0f47339f672d.html
[4] Covid-19, molto probabile un ruolo per i pipistrelli, ma si cerca ancora l’ospite intermedio, ISS, 12 febbraio 2020
https://www.iss.it/primo-piano/-/asset_publisher/o4oGR9qmvUz9/content/covid-19-molto-probabile-un-ruolo-per-i-pipistrelli-ma-si-cerca-ancora-l-ospite-intermedio
[5] Cfr. Luke Martell, Sociologia della globalizzazione, Einaudi, 2012.
[6] Cfr certe affermazioni di Luciana Castellina e di Etienne Balibar nella video-conferenza dal titolo Coronavirus: Oltre l’emergenza: un mondo nuovo, una nuova Europa, a cui hanno partecipato anche Donald Sasson e Heinz Bierbaum.
[7] Osservatorio Repressione, Francia: Cariche della polizia sui lavoratori della sanità https://www.osservatoriorepressione.info/francia-cariche-della-polizia-sui-lavoratori-della-sanita/

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