Una proposta di legge chiede di istituire una giornata per le vittime delle nostre guerre in Africa, una pagina buia a lungo taciuta. Boldrini, prima firmataria: «Ricordiamo gli eccidi durante il fascismo e la caccia al nero ad Addis Abeba». Le strade e i monumenti dedicati ai gerarchi e gli sforzi per «decolonizzare lo sguardo»
«Noi non abbiamo scheletri nell’armadio, non abbiamo una tradizione coloniale, non abbiamo sganciato bombe su nessuno e non abbiamo messo il cappio al collo a nessuna economia». A parlare così, qualche anno fa, era Manlio Di Stefano, allora deputato del Movimento 5 stelle e sottosegretario agli Esteri nei due governi Conte e poi con Draghi presidente del Consiglio.
Il suo pensiero non è per nulla isolato. Di Stefano non è il primo né l’ultimo della lista di chi dimentica che per 75 anni, dal 1885 al 1960, l’Italia dominò gli abitanti di quattro stati africani: Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia. Quella stagione non è mai entrata nel dibattito pubblico nazionale. L’Italia non pagò per i crimini commessi, coltivando invece il mito degli “italiani brava gente” e alimentando una memoria del suo passato come “colonialismo buono”.
L’idea è diffusa da destra a sinistra. «Un pugno di intellettuali politicizzati vuole riscrivere l’epopea tricolore d’oltremare. Ma basta fare un viaggio laggiù per vedere il buon ricordo della nostra gente», ha scritto su La Verità il responsabile cultura di CasaPound. E pochi giorni fa, a Propaganda Live, una firma di valore come Filippo Ceccarelli si è lasciato sfuggire che «l’Italia è un paese senza colonialismo». Un’espressione infelice – il riferimento era al Medio Oriente nel secondo dopoguerra – che è bastata per attirargli critiche sui social.
LA PROPOSTA DI LEGGE
Riportare alla luce la questione dei crimini di guerra italiani e avviare un processo di analisi critica è l’obiettivo della proposta di legge per «l’istituzione del giorno della memoria per le vittime del colonialismo italiano», presentata martedì da Laura Boldrini, deputata del Partito democratico. Con lei, in conferenza stampa alla Camera, c’erano Nicola Fratoianni di Alleanza verdi e sinistra e Riccardo Ricciardi del M5s. Il tutto sotto l’ombrello dell’Anpi, per cui è intervenuto il presidente Gianfranco Pagliarulo.
«La giornata di ricordo che vogliamo fissare per il 19 febbraio, anniversario della strage di Addis Abeba, è l’occasione per avviare un processo di studio e riflessione che coinvolga le giovani generazioni e le comunità afrodiscendenti – ha detto Boldrini, prima firmataria della proposta – Un modo per ricordare gli eccidi, le campagne militari, le leggi razziali, la deportazione e la prigionia di cui ci macchiammo».
«È chiaro che, con questa maggioranza, in parlamento non ci sono i numeri per far passare la legge – ha subito riconosciuto Fratoianni – Ma intanto noi poniamo il tema. Il colonialismo spiega il pregiudizio razzista che ancora oggi pervade le pieghe più nascoste della società italiana. Un razzismo ordinario che può esplodere in episodi terribili o continuare a covare sotto la cenere».
QUATTRO COLONIE
La “piccola” storia coloniale dell’Italia si può dividere in due fasi. La prima espansione, a cavallo tra Otto e Novecento, per volere del leader della sinistra storica Agostino Depretis e poi di altri presidenti del Consiglio del Regno – come Francesco Crispi e Giovanni Giolitti – che guidarono una serie di spedizioni per colonizzare due stati nell’Africa orientale, l’Eritrea e la Somalia, e uno nel Maghreb, la Libia.
C’è poi la seconda fase, in epoca fascista. Tra il 1929 e il 1930 il maresciallo Pietro Badoglio e il generale Rodolfo Graziani ebbero l’incarico da Mussolini di “pacificare” il Fezzan e la Cirenaica: un via libera per sterminare la resistenza armata e spopolare intere regioni. Per togliere sostegno alla ribellione antitaliana, 100mila abitanti dell’altopiano di Gebel furono deportati nei campi di concentramento. Le esecuzioni sommarie e la mancanza di cibo e acqua portarono alla morte di 50mila persone.
Ma tra le quattro colonie quella che gli italiani conoscono di più è l’Etiopia, conquistata dal duce tra il 1935 e il 1936. Un’impresa gigantesca per cui il regime impiegò carri armati, aviazione militare, bombardamenti (di cui una piccola parte con il gas nervino). Dopo la fine della seconda guerra mondiale i governi italiani chiesero l’amministrazione fiduciaria delle colonie, in vista dell’indipendenza. Ci venne negata in Eritrea e in Libia ma concessa in Somalia fino al 1960.
LA STRAGE DI YEKATIT 12
Il punto più basso del colonialismo italiano è rappresentato dalla strage di Addis Abeba del 1937. Era il 12 del mese di Yekatit, che nel calendario etiope corrisponde al nostro 19 febbraio. Quel giorno, dopo che partigiani etiopi cercarono di uccidere il viceré Rodolfo Graziani, i soldati fascisti massacrarono migliaia di uomini, donne e bambini. Una cieca rappresaglia che vale la pena rivivere tramite le parole dello storico David Forgacs, che ricostruisce l’accaduto in Messaggi di sangue (Laterza 2020):
«Il 19 febbraio, poco prima di mezzogiorno, nove bombe a mano furono lanciate durante una cerimonia nel cortile del palazzo Guenete Leul, ad Addis Abeba. Bersaglio principale dell’attentato, opera di due soli uomini, era il maresciallo Rodolfo Graziani, che officiava la cerimonia […]. Graziani venne ferito dalle schegge delle esplosioni ma non ucciso e fu trasportato all’ospedale in automobile.
Il lato anteriore del palazzo era difeso da soldati italiani, carabinieri e ascari, che reagirono contro 3.000 etiopi, per la maggior parte poveri e anziani, stipati nel cortile adiacente. L’eccidio durò quasi tre ore, tutte le persone davanti al palazzo furono uccise. Era solo la prima ondata di un massacro che si sarebbe allargato alle zone residenziali: l’uccisione dei civili continuò per altri due giorni e causò la morte di oltre 4.000 persone».
Le violenze furono perpetrate soprattutto da camicie nere e civili italiani: alla “caccia al nero” si unirono anche operai, burocrati e impiegati coloniali, che massacrarono gli etiopi a fucilate e manganellate; dando fuoco alle loro case o investendoli con i camion. Il regime provò a mantenere il silenzio sull’eccidio tagliando i cavi telefonici, ma osservatori delle ambasciate straniere fecero trapelare la notizia al Times di Londra e al New York Times.
Ma la ferocia del colonialismo non si vide solo nelle stragi e nelle deportazioni. Fu anche apartheid razzista e sessista, costruita con norme e sentenze a partire dal ’37, quando il governatore dell’Eritrea, Vincenzo De Feo, vietò la coabitazione di cittadini italiani e sudditi autoctoni e stabilì pene in caso di «rapporti promiscui». Obiettivo delle politiche segregazioniste era mantenere la società coloniale «razzialmente pura».
VIE E MONUMENTI
In Italia «le grida di quegli spettri restano sepolte sotto decenni di oblio e di svilimento. Le nostre città ne sono piene, eppure non li notiamo, non capiamo cosa dicono, leggiamo i loro nomi e non li riconosciamo», ha detto lo scrittore Wu Ming 2 riferendosi a lapidi, edifici e targhe stradali: migliaia di luoghi, su e giù per l’Italia, che «ci parlano invano del passato coloniale o ci ripetono che fu un’impresa eroica e patriottica».
Da tempo il collettivo Wu Ming è impegnato nella mappatura di strade e monumenti dal sapore coloniale. Solo a Roma ci sono vie dedicate a Reginaldo Giuliani, Antonio Locatelli e Alfredo De Luca, che con l’aviazione fascista portarono morte e distruzione in Etiopia. Piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione Termini, è intitolata ai soldati italiani caduti nella battaglia del 1887 a Dogali, in Eritrea.
E nel tranquillo borgo di Affile, fuori Roma, «sopravvive il mausoleo dedicato a Graziani, inaugurato nel 2012 da Francesco Lollobrigida, ieri assessore in regione e oggi ministro nel governo Meloni», ha ricordato Boldrini in conferenza stampa, mentre il nome del “maresciallo dell’aria” Italo Balbo risuona nelle 21 vie d’Italia che ancora lo omaggiano.
UNO SGUARDO DIVERSO
Nel 2020, sulla scia delle proteste di Black Lives Matter, è stata lanciata una petizione per cambiare nome alla fermata Amba Aradam, sulla linea C della metropolitana di Roma: per togliere il riferimento alla cruenta battaglia della guerra d’Etiopia (diventata anche un curioso modo di dire) e intitolarla al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola. In consiglio comunale sono state approvate mozioni in tal senso e il nome della stazione sarà presto cambiato in Porta Metronia.
L’Assemblea capitolina ha poi adottato una mozione che la impegna a «risignificare i luoghi dedicati alle conquiste d’Africa». Un passaggio accolto con gioia da Rete Yekatit 12-19 febbraio, che mantiene vivo il ricordo della strage: «Con interventi di contestualizzazione e didascalie dobbiamo modificare gli odonimi della città. Non cancellare ma aggiungere riferimenti agli episodi storici, in gran parte criminali, a cui le intitolazioni si riferiscono».
Su questo insiste anche la proposta di legge presentata alla Camera: «È sorto un movimento di decolonizzazione dello sguardo che chiede di assegnare un significato nuovo, veritiero e più giusto a quelle tracce – si legge nella relazione introduttiva – È venuto il momento di discuterne, con un percorso di riflessione che coinvolga storici, istituzioni e scuole». Senza continuare a sperare nell’oblio.
PROPOSTA DI LEGGE
D’INIZIATIVA DELLA DEPUTATA E DEI DEPUTATI
BOLDRINI, FRATOIANNI e RICCIARDI (RICCARDO)
Istituzione del Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano.
ONOREVOLI COLLEGHI E COLLEGHE! – La presente proposta di legge intende istituire un «Giorno della memoria» in ricordo delle vittime africane, in Libia, Eritrea, Etiopia, Somalia, nei 70 anni di occupazione coloniale italiana. Secondo le stime dello storico Ian Campbell, che rivede al rialzo quelle di Angelo Del Boca, tali vittime furono circa 700.000.
Sul colonialismo italiano pesa il torto di una rimozione storica, culturale e politica ancora inspiegabile:
un buco nel registro delle morti del Novecento, pagine bianche nei libri di storia e nella coscienza storica nazionale. Nato relativamente tardi, ma durato il tempo necessario per spargere sangue e dolore nelle terre e tra i popoli d’Oltremare, poco conosciuto nelle sue reali dimensioni. 70 anni di occupazione coloniale così articolata: dal 1882 in Eritrea, dal 1889 in Somalia, dal 1911 in Libia, dal 1935 in Etiopia, fino alla caduta del Fascismo, nel 1943. In Somalia, poi, l’Amministrazione Fiduciaria Italiana è andata avanti dal 1950 al 1960.
Nulla a che vedere con l’idea degli «italiani brava gente», colonizzatori buoni, andati nei Paesi africani per costruire ospedali, scuole e infrastrutture, aiutare le popolazioni locali e civilizzarne i costumi.
In realtà, il comportamento delle istituzioni italiane – anche durante i governi Giolitti e Crispi, ma soprattutto durante il periodo fascista – non si differenziò molto da quello delle altre potenze coloniali in quanto a ferocia.
Le espropriazioni di terreni alle popolazioni locali, l’imposizione di norme sociali ed economiche che ne hanno stravolto le vite, hanno costituito la base sulla quale è stata costruita la presenza degli italiani nelle colonie. Le atrocità commesse dagli italiani, sia militari sia civili, sono state numerose e ampiamente documentate, così come l’uso massivo delle armi chimiche sulle popolazioni civili, le deportazioni di massa in Cirenaica e le stragi indiscriminate in Etiopia.
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Tra i crimini più efferati si ricorda quello di cui è protagonista Rodolfo Graziani, che a partire dal 1930 organizza la deportazione di circa 100.000 abitanti della Cirenaica, quasi la metà della popolazione, in grande maggioranza vecchi, donne e bambini. Li fa marciare lungo la Sirte per oltre 1.000 chilometri, li abbatte durante i trasferimenti quando si ammalano, deperiscono per la fame o cercano di fuggire, li fa languire in campi di concentramento. In questi vasti attendamenti circondati da reticolati di filo spinato, dove le razioni di cibo sono misere e le condizioni igienico-sanitarie drammatiche, le internate e gli internati sono sottoposti a torture, forzati alla prostituzione, subiscono furti e violenze da parte dei soldati di guardia. Fucilazioni e impiccagioni sono frequenti.
Gli stenti e le violenze costano la vita a un numero stimato tra le 40.000 e le 60.000 persone, circa il 40% della popolazione del Gebel.
I crimini del colonialismo italiano avvengono ovunque, e in Etiopia, in particolare, con l’uso dei gas.
Mussolini, ormai nessuno lo può negare, invia a Graziani e Badoglio, a partire dal 27 ottobre 1935, 27 telegrammi, in cui ordina di impiegare gas asfissianti e vescicanti contro le popolazioni civili. Il 22 e il 23 dicembre tre squadriglie aeree rovesciano sull’Etiopia tonnellate di bombe esplosive e 42 bombe C500 T caricate a iprite; tra il 23 dicembre e il 29 gennaio 1936 i bombardamenti con l’iprite sono 31: esplodono 380 bombe, ognuna delle quali contiene 212 chilogrammi di gas. Lo scoppio avviene a 250 metri dal suolo e sparge, in un’area di circa 1 chilometro, gocce che provocano ustioni sanguinanti e uccidono.
La Convenzione di Ginevra del 17 giugno 1925, che il regime fascista sottoscrisse il 3 aprile 1928, in verità proibiva l’uso di un’arma tanto micidiale.
Le popolazioni vengono gasate, con atti terroristici puntualmente documentati dall’Aviazione in Africa Orientale, che annota data, luogo, tipo di bomba e reparto: in tutto 65 bombardamenti sul fronte Nord, 45 sul fronte Sud dell’Etiopia. Vengono sganciati oltre 2.000 quintali di bombe e 500 tonnellate di gas tossici, sulle armate etiopiche ma anche sui villaggi, sul bestiame, sui pascoli, sulle colture, sui fiumi e sui laghi.
Le stragi, drammaticamente numerose, sono ormai documentate nei testi specialistici, ma raramente vengono citate nei manuali di storia. Un elenco delle più significative aiuta a comprendere le dimensioni di una tragedia nazionale mai riconosciuta:
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➢ 1888-1890: viene istituita una Commissione d’Inchiesta sui fatti d’Eritrea con l’arresto dei
funzionari Eteocle Cagnassi e Dario Livraghi, accusati di ricorso a fucilazioni sommarie, sevizie e
all’eccidio di 800 persone;
➢ 1888-1890: sull’isola di Nocra, a 55 km da Massaua, si costruisce un carcere speciale in cui
moriranno migliaia di detenuti;
➢ 1911: durante la guerra italo-turca viene istituita, in Libia, la «politica della forca»: a Tripoli e nel
paese saranno impiccate 4.000 persone e altrettante vennero deportate in Italia;
➢ 1925, dal 1° ottobre: Cesare Maria De Vecchi invade il sultanato di Obbia, in Migiurtinia: alla
ricerca di Ali Mohamed Nur, massacra 200 somali inermi, donne e bambini, nella moschea di Merca;
➢ 1936, 10 febbraio: a quattro mesi dall’occupazione dell’Etiopia, sull’Amba Aradam, un massiccio
montuoso lungo 8 km, Badoglio uccide 20.000 etiopi. Contribuiscono all’operazione gli aerei
dell’aviazione fascista, che gettano gas asfissianti su militari e civili. Un crimine analogo verrà
compiuto, con modalità ancora più agghiaccianti, nell’aprile del 1936 sul lago Ascianghi;
➢ 1937, 19 febbraio: come rappresaglia per l’attentato a Graziani, bande di squadristi con
lanciafiamme, armi automatiche, coltelli e bastoni incendiano 4.000 case di Addis Abeba e scatenano
la caccia all’uomo contro gli etiopi, che moriranno in 20.000;
➢ 1937, 21-29 maggio: addossando la responsabilità dell’attentato a Graziani ai monaci del
monastero di Debra Libanòs, le truppe coloniali occupano la chiesa, catturano i religiosi, li
trasportano con 21 camion nella Piana di Laga Wolde e li fucilano. Nell’eccidio moriranno 2.030
persone;
➢ 1939, 30 marzo-11 aprile: a Caià Zeret, centro della resistenza etiope, migliaia di persone vengono
spinte nella grotta che si apre su un dirupo (sarà poi l’Amazegna Washa, «la grotta dei ribelli»), lì
sono attaccate con mitragliatrici, lanciafiamme, granate e gas tossici. Costrette a uscire, saranno
fucilate a gruppi di 50 sull’orlo del burrone.
Ma la violenza del colonialismo non si è scatenata solo nei campi di concentramento, nelle stragi, e
nelle deportazioni di massa che alcuni storici definiscono genocidi: è stata anche apartheid razzista
e sessista, costruita con norme, atti amministrativi e sentenze che prendono avvio dal 1937.
Le Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi, del 19 aprile 1937, prevedono la
reclusione da 1 a 5 anni per «il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene
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relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera
appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi o concetti giuridici e sociali analoghi a
quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana».
Nel giugno dello stesso anno, il governatore d’Eritrea, Vincenzo De Feo, vieta la coabitazione di
cittadini italiani e sudditi autoctoni negli stessi quartieri e stabilisce che vengano comminate pene in
caso di trasporti promiscui. In Somalia, il governatore Ruggero Santini impedisce che gli esercizi
commerciali degli autoctoni siano frequentati da italiani.
Con le Sanzioni penali per «la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa italiana» del
29 giugno 1939 si vieta il matrimonio con individui di origine camitica, semitica e di altre origini non
«ariane», la frequentazione dei quartieri e dei pubblici esercizi indigeni e si espropriano i fabbricati
contigui alle abitazioni dei colonizzatori. La cosiddetta «lesione del prestigio della razza» diviene un
reato inscritto nel codice.
Intendiamoci, nessuno vuole davvero impedire lo sfruttamento sessuale del maschio bianco rispetto
alle donne africane: obiettivo delle politiche segregazioniste era quello di mantenere la società
coloniale razzialmente «pura».
L'irrigidimento dei confini razziali della nazione, successivo alla proclamazione dell'impero, fa sì che
i sudditi africani non possano acquisire la cittadinanza, in nessun caso, anche quando prestano
servizio militare per gli italiani. Ancora più gravi sono le norme del 1940 relative ai figli cosiddetti
«meticci», che vietano agli uomini italiani il già raro riconoscimento di paternità per le bambine e i
bambini avuti da donne africane, dunque negano ogni diritto alla cittadinanza italiana. Ancora oggi,
in Eritrea ad esempio, ci sono decine di famiglie discendenti da uomini italiani: quei figli e quei nipoti
però non possono dimostrare la propria discendenza, proprio a causa delle leggi «contro il
meticciato» del 1940, vere e proprie leggi razziali.
Il colonialismo spiega, più di quel che si è portati a credere, il pregiudizio razzista che ancora oggi
pervade le pieghe più nascoste della società italiana; un razzismo ordinario, che può esplodere, a
certe condizioni, in episodi terribili, oppure continuare a covare sotto la cenere.
Ce lo ricorda anche il Parlamento Europeo, che ha approvato, il 26 marzo 2019, una risoluzione sui
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diritti fondamentali delle popolazioni di origine africana e che imputa le cause delle discriminazioni
razziali al mancato riconoscimento di fenomeni come «la riduzione in schiavitù, i lavori forzati,
l’apartheid razziale, i massacri e i genocidi nel quadro del colonialismo europeo».
Secondo il Piano d'azione dell’UE contro il razzismo 2020-2025, «I pregiudizi e gli stereotipi possono
essere innanzitutto affrontati riconoscendo le radici storiche del razzismo. Il colonialismo, la
schiavitù e l’Olocausto sono parte della nostra storia e hanno profonde conseguenze per la società
di oggi. Salvaguardare la memoria è fondamentale per incoraggiare l'inclusione e la comprensione».
Alcuni paesi europei, come la Francia e il Belgio, hanno già da tempo avviato un dibattito pubblico
sulle responsabilità e sull’eredità coloniale. In Belgio, in particolare, da giugno 2020 è al lavoro una
Commissione parlamentare che indaga sul tragico passato coloniale in Congo, Ruanda e Burundi.
La leggenda degli «italiani brava gente» è però più forte dei fatti, anzi, li silenzia. Su questo
importante pezzo della nostra storia ancora non è stata avviata una efficace riflessione collettiva. Di
tale lungo silenzio, e non di altro, dovrebbe parlare chi oggi discute di cultura della cancellazione.
Perché una cancellazione, è vero, c’è stata, ma di segno opposto e non sembra cessare. Basti pensare
che molte città italiane custodiscono, ancora oggi, migliaia di tracce del feroce colonialismo italiano
a cui sono intitolate piazze, vie, viali, larghi, ponti, lapidi, busti e palazzi la cui presenza muta ancora
celebra un senso di superiorità mai spento. Una vera e propria odonomastica coloniale che andrebbe
ridiscussa e non fatta passare sotto silenzio.
È sorto ovunque, nel nostro paese e fuori, un movimento di «de-colonizzazione dello sguardo» che,
nelle città, chiede di assegnare un significato nuovo, veritiero e più giusto a quelle tracce, perché
oggi è impossibile continuare a vedere statue, vie o monumenti intrisi di storia coloniale in modo
inconsapevole e acritico. Forse è venuto il momento di discuterne, con un percorso di riflessione
collettiva, coinvolgendo storici, studiosi, istituzioni, scuole, educatori, comunità e persone
afrodiscendenti, senza continuare a sperare nell’oblio.
Ecco perché abbiamo ritenuto di presentare questa proposta di legge: per contribuire ad avviare un
processo di riflessione collettiva sui crimini del colonialismo italiano. Una proposta che recepisce
l’indicazione originaria proveniente da Angelo Del Boca e da numerose mozioni approvate da
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Consigli Comunali, tra cui quello di Roma Capitale (mozione 156/2022 approvata in aula il 6 ottobre
2022), in seguito a un appello promosso e sottoscritto dai principali storici del colonialismo italiano,
da studiosi, da associazioni e comunità afrodiscendenti.
La «Giornata della Memoria», istituita proprio in ricordo del giorno della strage, nel 1937, del 19
febbraio (Yekatit 12 nel calendario etiope) ad Addis Abeba, seguita all’attentato a Graziani (art. 1),
vuole essere l’occasione per avviare un processo di studio e di riflessione che coinvolga soprattutto
le giovani generazioni nelle scuole e le comunità afrodiscendenti (art. 2).
Di questo sentiamo l’urgenza, perché lo studio di una pagina oscura della nostra storia possa
contribuire a far sì che simili eventi non debbano più accadere.
PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
(Istituzione del Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano)
1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della
popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, «Giorno della memoria per le
vittime del colonialismo italiano», al fine di ricordare gli oltre 700.000 africani uccisi
durante il periodo di occupazione coloniale italiana in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia.
2. Il Giorno della Memoria di cui al comma 1 è istituito al fine di ricordare gli eccidi, le
campagne militari, le leggi razziali, le norme sessiste, l’impiego di aggressivi chimici, la
deportazione, la prigionia e, in generale, la politica di occupazione cui sono state
sottoposte le popolazioni dei Paesi africani dominati dall’Italia.
Art. 2.
(Promozione del Giorno della Memoria)
1. In occasione del «Giorno della memoria per le vittime del colonialismo italiano» di cui
all’art. 1 sono organizzati incontri, iniziative e momenti di riflessione, in particolare nelle
scuole di ogni ordine e grado, sul periodo di occupazione coloniale italiana in Etiopia,
Eritrea, Libia e Somalia e in ricordo dei 700.000 africani e africane vittime del regime di
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occupazione, in modo da conservare la memoria di un tragico e oscuro periodo della
storia del nostro paese e far sì che simili eventi non possano più accadere.
2. Le iniziative di promozione del «Giorno della memoria per le vittime del colonialismo
italiano» dovranno essere organizzate, coinvolgendo anche le amministrazioni locali e
regionali, in stretta condivisione con le comunità e le persone afrodiscendenti.
Art. 3.
(Entrata in vigore)
1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione
nella Gazzetta Ufficiale.
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