Vostro figlio mi ha fregato molti soldi, più di 60 mila euro. Adesso vi dico bene come risolvere il problema». Sono circa le 11 del primo gennaio quando i genitori di Paolo, ventitreenne, ricevono un messaggio. Ne seguono altri, alcuni sono note audio. «Io ve lo dico, vostro figlio è nelle mie mani. Voi siete i genitori, dovete vedere come risolverla, dove pensarci voi». A parlare è una donna, Lizhen Liao, originaria della Cina. Vive con il compagno, Zudao Zheng, e il figlio, Jingyu Zheng, in una villetta a due piani a Barge. Mentre manda gli audio ha davanti a sé un ragazzo che ha solo un anno in più di suo figlio. È stata lei, con l’aiuto di altri connazionali, a rapirlo. Sempre lei l’ha schiaffeggiato e poi minacciato. «Ti avevo avvisato di fare attenzione. Ora restituisci il denaro a mio figlio».
I due giovani si sono conosciuti online nel settembre 2023. Hanno chattato su «Hua Rent Jie», un’applicazione dove Jingyu Zheng aveva pubblicato un annuncio di vendita di un cellulare. Iniziano le conversazioni tra due e un giorno il ventitreenne, che da sei anni soffre di ludopatia, chiede a Zheng un cambio di duemila euro in Yuan cinesi, promettendo che avrebbe restituito la somma con un tasso più vantaggioso. Zheng accetta, si fida di quel ragazzo conosciuto sui social. Non si rende conto che sta approfittando della sua ingenuità.
Più passa il tempo e più le richieste di denaro si fanno frequenti. Paolo chiede a volte cinquemila, a volte tremila euro. Riesce a farsi versare quasi 60 mila euro, tutti sperperati nel gioco. E quando Zheng chiede di riavere indietro il denaro, trova scuse per non restituirglielo: «Devi farmi un altro versamento per sbloccare il tuo conto corrente». A intervenire è Lizhen Liao, la madre del ventiduenne. Il figlio, dalla Cina, organizza via messaggio un incontro con l’«amico» alla stazione della metropolitana Fermi di Collegno (Torino).
Ma una volta arrivato, Paolo non trova il giovane con cui aveva chattato per mesi. Viene aggredito da un gruppo, tutti di origini cinese: lo prendono a calci e pugni. Poi lo portano nello stanzino di un ristorante e lo denudano. Quindi, lo caricano su una macchina diretta a Barge. In via villetta in via Mazzini, dove vive la donna con il figlio e il compagno, lo trattengono per tre lunghi giorni. Un incubo.
Paolo viene trattato come un ostaggio. Legato, imbavagliato, picchiato. È la donna a condurre i giochi, a minacciarlo. «Se non restituisci i soldi a mio figlio ti faccio uccidere da persone che pagherò». Lizhen Liao tenta anche di telefonare ai genitori del ragazzo, ma risponde la segreteria. Allora decide di scattargli delle foto: lo ritrae con un asciugamano in bocca e le fascette ai polsi. Poi manda quegli scatti ai genitori e un messaggio vocale: «Vostro figlio ha preso molti soldi, adesso lui è nelle mie mani». Passano pochi minuti e ne manda un altro: «È il compito dei genitori aiutare i ragazzi a risolvere le cose, il ragazzo di questi soldi aveva bisogno, poi può ancora guadagnarli». Ancora: «Mio figlio gli ha creduto così tanto, ogni volta diceva che era in difficoltà e aiutava vostro figlio». Non riceve risposte. E così dopo 72 ore, ordina al ragazzo di sottoscrivere una dichiarazione di riconoscimento del debito nei confronti della loro famiglia. Il giovane, spaventato, firma quel foglio. Viene accompagnato alle 4 di mattina alla fermata dei pullman di Barge. Ha in mano un biglietto per Torino Porta Susa e sul corpo i segni delle percosse subite.
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