Dove sta andando la scuola italiana? Per provare a rispondere a questa domanda, piuttosto che affidarsi alle dichiarazioni di Valditara su latino, bibbia e storia patria, conviene considerare elementi più concreti.
L'autore è Professore ordinario di Pedagogia sperimentale Università Roma Tre
Abbiamo i dati sugli apprendimenti che da decenni raccogliamo attraverso indagini nazionali e internazionali. Inoltre, ci sono decisioni che questo governo ha assunto, come quelle che riguardano l’educazione civica, la valutazione, la formazione docenti.
Un’istruzione classista
Cosa ci dicono le indagini internazionali e nazionali sugli apprendimenti? L’Ocse Piaac, condotta sulla popolazione da 16 a 65 anni, ci ricorda che il nostro è un paese molto iniquo, in cui i livelli di apprendimento sono, più che altrove, correlati al retroterra sociale ed economico. Inoltre, Piaac rivela che l’Italia è uno dei paesi in cui le deficienze in matematica e nella comprensione del testo mostrate dalle generazioni più anziane (curiosamente, proprio quelle che hanno avuto a che fare con il latino obbligatorio alle medie) risultano molto più rilevanti rispetto a quelle diffuse tra le giovani generazioni.
Altre indagini evidenziano che gli apprendimenti nella nostra scuola primaria sono migliori rispetto a quelli delle scuole secondarie. Le ricerche Iea da decenni indicano che la nostra popolazione alla primaria rientra tra le prime a livello internazionale nella capacità di comprendere un testo. Altre indagini condotte sulla popolazione di adolescenti mostrano un drastico peggioramento e, al tempo stesso, un rafforzarsi del legame tra risultati e retroterra socioeconomico. Dalle “medie” in su perdiamo di efficacia e guadagniamo in iniquità.
Diverse fonti convergono nell’indicare come il sistema italiano di istruzione “superiore” sia già estremamente classista e segregazionista. Al di là della pessima retorica, si tratta di un apparato piramidale, con al vertice il liceo classico e alla base la formazione professionale. Il sistema si basa su feroci meccanismi selettivi. Prima della fine della “scuola media” si impongono scelte che consentono di canalizzare la popolazione studentesca in percorsi che di fatto sono apprezzati in quanto elitari e percorsi considerati di secondo piano.
Analizziamo i dati sulla presenza nei diversi istituti di adolescenti con un retroterra sociale ed economico che non offre opportunità formative coerenti col curricolo scolastico, con genitori immigrati, con bisogni educativi speciali e/o disturbi specifici di apprendimento. Mente nei licei (in particolare nel classico) queste categorie rappresentano – quando presenti – un’esigua minoranza, negli altri istituti sono sovra rappresentate. Al di là della retorica sul primato del latino come “palestra formativa”, stiamo continuando a dequalificare questo straordinario patrimonio culturale impiegandolo come strumento di una feroce esclusione sociale.
Questi problemi in termini di qualità e di equità sono noti da decenni, e da decenni sappiamo che se vogliamo seriamente affrontare il problema è necessario prolungare il “tronco comune” almeno fino a 16 anni e investire su una migliore formazione metodologico-didattica e su un’adeguata remunerazione del corpo docente.
Nella direzione opposta
Tuttavia, da questo punto di vista, la scuola delineata dal governo Meloni sembra dirigersi nella direzione opposta. I cambiamenti introdotti sull’educazione civica (che abbandonano prospettive ampie per abbracciare contenuti gretti e autoritari) e sulla valutazione (che ridimensionano la finalità formativa e rafforzano la funzione selettiva) rappresentano un impoverimento nel curricolo e nella didattica. Parallelamente, le scelte effettuate sulla formazione docenti della scuola secondaria – proprio quella che si mostra più inefficace e iniqua – sono finalizzate non tanto a sviluppare solide competenze metodologico-didattiche, ma a regolarizzare nel più breve tempo possibile il più elevato numero di docenti (consentendo alle università telematiche di fare la parte del leone). La scuola di domani rischia di essere più povera e più meschina di quella odierna.
Fatte queste considerazioni, è possibile tornare sulle parole del ministro ricordando che non è mai di per sé l’inserimento di questa o quella disciplina a garantire lo sviluppo di una certa apertura mentale. Non esistono discipline che siano intrinsecamente più formative di altre. Si tratta di fare in modo che certi contenuti disciplinari vengano attivamente impiegati da ragazze e ragazzi per conferire senso alla realtà. A scuola ci si innamora, ci si innamora di un compagno o di una compagna, ma può anche capitare di innamorarsi di certe discipline. Questo secondo tipo di innamoramento avviene quando si realizza che una disciplina arricchisce il nostro sguardo sul mondo.
E allora, perché non consentire a ragazze e ragazzi fino a sedici anni di venire a contatto con le “cose belle” – per dirla con la Lettera di Barbiana – che la scuola può condividere con loro? Perché non migliorare il percorso formativo prolungando e arricchendo il curricolo comune e investendo sulla qualificazione e sulla remunerazione del corpo docente?
Se non facciamo questo sorge il sospetto che alcune di queste “cose belle” vengano impiegate per canalizzare sin dai dodici anni in percorsi di serie A e in percorsi di serie B. La formazione, già alle medie, di sezioni di latino per i figli del dottore e sezioni senza latino per tutti gli altri non è uno scenario affatto irrealistico e ricalcherebbe artifici che alcuni istituti già usano, facendo leva su altre discipline a scelta.
In effetti, ancora oggi, abbiamo milioni di persone “mature” che, proprio come Renzo di fronte al latinorum di don Abbondio, non sapendo cosa farsene di un sapere gretto e meschino, sono invitate a rimettersi placidamente nelle mani di chi – sciorinando qualche formula magica – ostenta una conoscenza delle cose che veramente contano. Il latino – esattamente come la matematica, l’informatica, il francese e tutte le altre discipline – merita ben altra considerazione.
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