mercoledì 14 agosto 2013

IDEE E TEORIE POLITICHE. UN SAGGIO SU BERLUSCONI E IL LIBERALISMO. MICHELE SALVATI, La modernità inafferrabile, LA LETTURA, 11 agosto 2013

Giovanni Orsina ha scritto il primo libro serio sul «berlusconismo» come movimento politico la cui natura e il cui successo sono spiegabili scavando nella lunga storia del nostro Paese. Su Berlusconi come persona, sulle ragioni del suo carisma, sui mezzi che è stato in grado di mobilitare, si è scritto moltissimo. Ma non stanno solo qui, e neppure prevalentemente qui, le ragioni del suo successo. Stanno nel suomessaggio politico, nell’immagine del Paese che il Cavaliere ha proposto agli italiani.
Stanno in una lunga «autobiografia della nazione»: c’è qualcosa di Gobetti nel revisionismo di Orsina. Stanno in un impasto contraddittorio — una emulsione, la definisce Orsina — tra liberalismo e populismo. E qui stanno anche le ragioni del suo fallimento, come l’autore, senza mezzi termini, osserva nelle conclusioni del suo libro Il berlusconismo nella storia d’Italia (Marsilio). Un libro che, per la qualità della scrittura, l’evidente serietà e fondatezza di molti dei suoi argomenti, il garbo e l’attenzione con cui sono trattati anche gli studiosi che l’autore critica, dovrebbe trovare molti lettori. E provocare reazioni altrettanto serie in chi la pensa diversamente, cioè gran parte dei critici di Berlusconi.



A differenza di costoro Orsina è un liberale che pende più a destra che a sinistra, se non ho capito male. I suoi numi tutelari sono Michael Oakeshott e Karl Popper, dai quali egli ricava le sue principali categorie di analisi. Ma Popper e Oakeshott sono filosofi, mentre Orsina è uno storico: l’utilità delle loro categorie dev’essere provata attraverso l’uso che ne viene fatto nell’ambito di una ricerca storica. Ed è questo il compito, molto ambizioso, al quale l’autore si è dedicato, ripercorrendo l’intera vicenda del nostro Paese, dall’Unità sino a Berlusconi. Come in molte nazioni che si affacciarono in ritardo all’unità politica, all’economia industriale, alla modernizzazione sociale — ma ancor più di Germania e Giappone, che alcuni dei passi necessari li avevano compiuti in precedenza — il problema che si pose alle classi dirigenti del nostro Paese fu quello d’azegliano del «fare gli italiani». Cioè quello di diffondere livelli di istruzione, ma soprattutto valori, mentalità e atteggiamenti idonei a partecipare alla «grande trasformazione» in corso e a sostenerla. Tutte le classi dirigenti del nostro Paese, quelle liberali dell’Ottocento e quelle democratiche del secondo dopoguerra, fecero dunque propria una strategia «ortopedico-pedagogica», come efficacemente la definisce Orsina. Dunque una consapevole forzatura rispetto a come le cose erano andate in precedenza e a come sarebbero continuate ad andare in questo lembo di Europa mediterranea dominato dall’influenza della Chiesa cattolica. E ancor più estremo, naturalmente, mirante ad una ricostruzione quasi antropologica dei nostri connazionali, fu il fascismo, negli aspetti totalitari che soprattutto in questo tentativo di creazione di un «uomo nuovo» si manifestarono.
Orsina ha pagine di grande interesse sulla potenziale contraddittorietà interna di questa strategia «giacobina»: «Il fine ultimo è la modernità… Ma lo strumento è premoderno e viene identificato rispondendo alla domanda platonica di chi debba governare, laddove in Europa occidentale l’affermarsi della modernità… è consistito in larga misura nella sostituzione della domanda “platonica” con quella “popperiana”, su come chi governa possa, all’occorrenza, essere sostituito pacificamente». Già, ma «affinché il circolo virtuoso tra libertà e progresso che caratterizza il liberalismo prenda avvio devono darsi condizioni che nell’Italia di metà Ottocento… non erano date». Donde il tentativo potenzialmente contraddittorio di costruire per via autoritaria le premesse di una società liberale, e qui Orsina si fa soccorrere da un grande pensatore che sicuramente non è un liberale di destra, John Stuart Mill: «La libertà come principio non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali. Fino ad allora non vi è nulla per loro, salvo l’obbedienza assoluta a un Aqbar o a un Carlomagno, se sono così fortunati da trovarlo».
Storia antica, si dirà. Fino a un certo punto, perché tracce abbondanti di giacobinismo ispirato da obiettivi di modernizzazione e applicato ad una società che non vuole conformarsi ai comportamenti che quegli obiettivi richiedono si ritrovano anche nella vicenda dei partiti politici di questo dopoguerra, come Orsina illustra assai bene.
Ma veniamo subito alle conclusioni: dopo più di un secolo di ortopedia e di pedagogia, dopo continui tentativi di riforma guidata dallo Stato e, nel dopoguerra, dai partiti che lo Stato avevano occupato, dopo incessanti confronti negativi con modelli stranieri, Berlusconi ha detto ad un popolo che ormai aveva raggiunto un benessere assai vicino a quello degli altri grandi Paesi europei: «Voi andate bene così, nella vostra industriosità confusa e vitale, e io sono uno di voi. Non siete secondi a nessuno. Quello che va male è la politica. Una politica che sostiene uno Stato e una amministrazione pubblica ipertrofici, impiccioni e inefficienti. Sono lo Stato, la politica e l’amministrazione pubblica che vanno ridotti e riformati. Ed io sono qui per questo». Nei suoi aspetti di apprezzamento della società civile e di orgoglio nazionale, questo messaggio era stato accennato anche ai tempi del governo Craxi, alla metà degli anni Ottanta, ai tempi del superamento del reddito pro-capite della Gran Bretagna, del «nuovo Rinascimento», della «Milano da bere», della «grande riforma». Ma Craxi era un politico della Prima Repubblica, legato alla sinistra, e non poteva sostenerlo con la stessa chiarezza e credibilità di Berlusconi. L’occasione si presentò con il crollo dell’intero sistema partitico del nostro Paese e solo un uomo che appariva estraneo a quel sistema, un imprenditore esemplare — nel bene e nel male — della nostra società civile, sganciato da categorie politico-ideologiche che sempre meno dicevano agli italiani, era in grado di riprenderlo ed estremizzarlo.
Di qui il capolavoro politico di Berlusconi. Sicuramente nutrito di sapienza tattica e abilità manovriera nel contesto di un completo smarrimento dei suoi avversari. Sicuramente consentito dai suoi mezzi economico-mediatici e da una straordinaria personalità carismatica. Ma sono del tutto d’accordo con Orsina quando sottolinea la novità politica, l’importanza e la robustezza del messaggio, la profonda domanda di una proposta di questo genere nell’elettorato e nella società civile. Il messaggio, la visione di Berlusconi vanno presi seriamente, e non solo per spiegare il successo politico del Cavaliere: dicono cose importanti sull’Italia. E chiunque legga il libro di Orsina sarà sicuramente colpito dalla ricchezza dei riscontri documentali, dalla perspicacia dei confronti (in particolare quello con L’Uomo qualunque di Giannini), dalla competenza con la quale rilegge e interpreta le analisi elettorali dell’Istituto Cattaneo.
Ma Berlusconi non si è mostrato all’altezza del suo messaggio. Glielo ha impedito il populismo di cui era imbevuto il suo liberalismo, la scorciatoia di far leva su un messaggio salvifico centrato sulla sua persona, dunque su un «chi» platonico e non su un programma di riforme popperiane, in grado di instradare la società italiana e il dibattito politico su una piattaforma veramente liberale. Glielo hanno impedito le sue caratteristiche personali e i suoi conflitti privati, che gli imponevano la scelta di una via facile e personalistica allo scopo di restare al potere e così difendersi dagli avversari. Glielo ha impedito la reazione violenta di un gran pezzo di società italiana intrisa di statalismo, che ha trovato un argomento forte, e purtroppo vero, nella unfitness to rule di Berlusconi, al fine di nascondere sotto di esso la propria resistenza al cambiamento. Glielo hanno impedito, in sintesi, aspetti centrali della sua personalità e della sua storia, nonché i limiti della sua cultura politica. Orsina accenna al confronto con de Gaulle, un grande politico che utilizzò abbondantemente pratiche populiste per imprimere un cambiamento radicale al suo Paese. Un cambiamento tutt’altro che liberale, ma comunque efficace, e foriero di stabilità politica e di sviluppo economico. Perché non approfondire un punto così importante? Questa è la domanda centrale che rivolgerei a Orsina.
La mia risposta è che un approfondimento del nesso tra modernità e liberalismo probabilmente avrebbe compromesso l’impianto del libro: il liberalismo è una via alla modernità, ma modernità e liberalismo non sono la stessa cosa, anche se una modernità liberale ci può piacere più di una modernità statalista. La Gran Bretagna ci può piacere più del Giappone o della Francia. Certo, il giacobinismo è potenzialmente contraddittorio, usa mezzi antichi per ottenere fini moderni, come Orsina illustra assai bene. Ma per quali motivi ortopedia e pedagogia, applicate in dosi e forme adatte all’Italia, non avrebbero potuto creare una società moderna, uno Stato intrusivo ma efficiente, un’economia più produttiva, anche se non liberale secondo il modello anglosassone? Altrove questo è avvenuto, anche se spesso a spese delle forme di democrazia che maggiormente apprezziamo. Queste osservazioni critiche mi condurrebbero però ad una rilettura dello sviluppo economico e politico italiano e al suo epilogo berlusconiano in chiave parzialmente diversa da quella di Orsina. L’ho fatto di recente, anche se con ambizioni più modeste, e al mio libretto Tre pezzi facili sull’Italia (Il Mulino), e soprattutto al terzo «pezzo», intitolato «Due nazioni?», sono costretto a rinviare. Nonostante questa differenza di opinioni, nonostante ritenga che il modello di modernità liberale che Orsina sceglie come guida sia al tempo stesso uno strumento efficace, ma anche un limite ad un’analisi storica convincente, ho trovato il suo libro una fonte di riflessioni di grande interesse.
E concludo ripetendo il mio augurio. Come in politica, anche nell’analisi storica è sbagliato cercare impossibili «pacificazioni»: le opinioni sono destinate a restare diverse e quelle di Orsina susciteranno senz’altro contrasti. L’importante è che il livello intellettuale al quale queste diversità e queste reazioni si manifesteranno sia molto alto, assai più alto dell’insulto, del sarcasmo, del moralismo e dell’antimoralismo cui ci hanno abituati gli scontri tra intellettuali berlusconiani e antiberlusconiani. Prendere sul serio Orsina, tenersi al suo stesso livello, può avviare un confronto allo stesso tempo appassionato e di grande qualità. Ci può soccorrere sulla lunga strada di una modernità civile.

Nessun commento:

Posta un commento