giovedì 15 agosto 2013

POLITICA E VIOLENZA. IL FILM DI DELBONO CON SENZANI. ORESTE PIVETTA, L'ex Br Senzani «recita» Peci Una lezione d'inciviltà, L'UNITA', 15 agosto 2013 - SEGUE LA RECENSIONE DEL FILM

Vivono ancora tra noi molti individui che popolarono le cronache degli anni settanta e ottanta di morti, di orfani e di vedove, di stelle a cinque punte, di paure e di angosce, di messaggi deliranti. Scrivo «deliranti», come si è sempre usato, ma preferirei scrivere semplicemente «idioti»: nel delirio si può immaginare qualche nobiltà, qualche generosità.


 

Non tutti sono ancora tra noi. Pochi mesi fa ad esempio se ne è andato Prospero Gallinari, malato, stanco, mai pentito. Di alcuni, tra quanti restano, non si sa più nulla. Hanno scelto, molto spesso avendo scontato una pena (ridotta grazie ai benefici che la legge riconosce a tutti i detenuti, una legge di quello Stato che volevano abbattere) un lavoro e soprattutto il silenzio. Molti altri non si sono sottratti al piacere di raccontare, di testimoniare, parlando, scrivendo, dichiarando, esibendo il loro passato, elencando motivazioni, giustificazioni, ambizioni, dimostrando una dimestichezza con tutte le forme della comunicazione di massa di questa corrotta società contemporanea che è difficile immaginare in un rivoluzionario totale, in un terrorista votato alla clandestinità, all’oscurità, alla trama segreta, sequestratore oppure omicida con un cappuccio in testa per non farsi riconoscere.

Scrittori, conferenzieri, oratori, anche attori, come Giovanni Senzani, accusato e condannato per l’omicidio di Roberto Peci: cinquanta giorni di prigionia, chiusi da undici colpi di mitraglietta contro un operaio, la cui unica colpa era quella di essere il fratello di Patrizio, il brigatista che aveva fatto il nome dei compagni, un «infame» nella declinazione morale di quelli che invece non tradirono, quelli che pensavano e continuano a pensare che ammazzare un agente di custodia padre di due o tre figli alla fermata del tram, un avvocato, un giornalista, un giudice sotto casa, un professore in un corridoio di un’aula universitaria, un operaio comunista come Guido Rossa, fosse una prova di ardimento, in linea con la causa rivoluzionaria che li animava: contro lo Stato, contro i magistrati (che magari indagavano sulle stragi fasciste), contro i lavoratori che continuavano a pensare che si poteva cambiare la fabbrica, riformare persino un Paese, usando le armi della democrazia. Indifferenti di fronte alla morte e persino di fronte all’inutilità della morte.

Senzani, invecchiato, ultrasettantenne, fa l’attore nel film di Pippo Delbono, Sangue. Libero dal 2010, può fare quello che vuole: parlare, scrivere, anche comparire in un film (che racconta un dolore privato), anche “recitare” l’assassinio di Peci. Non c’è articolo del codice che glielo possa impedire e sarebbe un guaio se ce ne fosse uno. Però di mezzo c’è la coscienza, c’è pure di mezzo un senso morale e persino estetico che gli avrebbero dovuto sconsigliare l’esibizione: non può dar spettacolo dell’orrore che ha generato, non ha nulla da mostrare se non la sofferenza che ha provocato e che la sua presenza pubblica continua a provocare (esistono pure i diritti delle vittime e dei loro familiari), se non sa aggiungere una parola di condanna di quella tragedia, se non sa almeno elencare le rovine che quei giorni lasciarono in eredità agli italiani.

Leggo le parole di Senzani: «Nel funerale di Gallinari ho rivisto il funerale di Moro, quelli dei compagni caduti e delle nostre vittime: quel giorno ho capito che la nostra storia, la nostra piccola storia, era davvero finita». «La nostra piccola storia?», commozione compiacimento vittimismo. «Finita?», quanti anni per riconoscerlo, quanti anni ancora per capire il disastro. Finisce tutto. Finiscono anche i bei sogni, avrà concluso Senzani ai funerali di Gallinari. Un titolo del Corriere di ieri, a una intervista a Sabina Rossa, figlia di Guido, raccomandava: «Non si sale in cattedra senza confronto». Senza confronto, certo: Senzani parla davanti a una telecamera incontrastato.

Giudicherà lo spettatore, pensa il regista Delbono: dubito che un ventenne d’oggi sia in grado di farlo, che conosca la storia e quella storia in modo sufficiente per provare a capirla. Ma che cosa può insegnarci l’ex brigatista incorrotto Senzani perché possa salire in cattedra? Può insegnarci come si uccide un uomo? Forse dovrebbe provare a spiegarci il peso di quell’attacco alla democrazia, ai partiti, ad ogni spiraglio di riforma, il peso di quei delitti sul nostro disastroso e “lunghissimo” presente. Che pare, nella sua decadenza culturale e morale, coltivare una ostentata attenzione, con il suo carico conseguente di comprensione, per chi stava dalla parte sbagliata. Le vittime non fanno spettacolo e non fanno neppure simpatia. Tra le debolezze o le miserie della democrazia, evidentemente può far colpo il terrorismo narrato dai suoi protagonisti, che in una favola autoreferenziale di grandi ideali, di ingiustizie subite, di molte chiacchiere e di troppe atrocità stuzzica l’anticonformismo di maniera, che si dà per elegante e raffinato, intelligente e furbo, eccentrico e spregiudicato. L’anticonformismo che sale in cattedra (proprio come sono saliti in cattedra i meno stupidi protagonisti o comprimari di quella vicenda). La “repubblica del dolore”, che si ritrovava unita di fronte ai suoi drammi e che unita (grazie anche al Pci di Berlinguer) ha sconfitto il terrorismo rosso e nero (bisognerebbe sempre ricordare piazza del Duomo il giorno dei funerali dei morti della Banca dell’Agricoltura a Milano), sembra precipitare per quel genere di spettatori, comici irriducibili guerrieri del pensiero alternativo e dissacrante, nella nebbia della vecchia politica.

Così si resuscita Senzani, stratega di improbabili rivoluzioni contro il Pci, contro i sindacati, contro quell’infernale macchina che si chiama Stato. Tutto va bene, per un po’ di confusione, per non mischiarsi, per far lezione.

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"Sangue" bollente con Delbono a Locarno di P.Cal., l'unità, 14 agosto 2013

recensione del film

Il «Sangue» di Pippo Delbono è «schizzato» sul Festival del Film di Locarno spargendo macchie di polemiche e contrasti. Il viaggio nel dolore privato per la perdita della madre del 54nne teatrante di fede buddista, accompagnato dalla sofferenza dell’ex terrorista Giovanni Senzani, 70 anni, ex leader delle Brigate Rosse, tornato libero dopo 23 anni di carcere e rimasto vedovo della sua compagna, era atteso come un vespaio annunciato. E tale si è rivelato, soprattutto per la difesa virulenta della sua opera da parte del regista ligure: anche dell’indifendibile e lungo monologo politico lasciato nel finale del film a Senzani che, a sorpresa, rievoca e commenta l’esecuzione di Roberto Peci, avvenuta nel 1981 dopo 5 mesi di prigionia, manifestando pietà e rispetto tardivi solo per la brutale modalità e lo squallido contesto dell’assassinio di «un traditore» (secondo presunti riti rivoluzionari), omettendo che la sola colpa del poveretto era di essere il fratello del «pentito» Patrizio Peci, il quale aveva rivelato covi e nomi segreti delle Br.

«La mia vita è quanto di più lontano ci sia dalle esperienze di Senzani. Figuratevi che da piccolo giocavo con le bambole e mi facevano schifo persino le pistole ad acqua - ha ironizzato Delbono -. Detesto quelli che si indignano perché nel mio film c'è Senzani. L'Italia ha paura di conoscere la verità, è un Paese basato sulla menzogna, considerata ormai come un fatto accettato. Non ho mai pensato di realizzare un film sul terrorismo. Il mio è un racconto tra la vita e la morte, è un viaggio tra questi due estremi».

«Il passato di Senzani a me non interessava - ha aggiunto, scaldandosi, il regista di Sangue -. È stato lui a volermi raccontare quei fatti. Ho spostato di continuo il momento del racconto. Trovavo mille scuse. Poi, quando ho visto che lui sentiva l'esigenza di raccontare, ho capito che il mio compito era quello di accendere il cellulare e registrare. L’ho guardato negli occhi e ho capito che avevo di fronte un Giovanni diverso dal mostro che vedevo quando ero al Liceo». Pippo Delbono è autore e attore di grande talento della scena italiana. È partito dalle salettine «off» per approdare a meritati «sold out» nei principali teatri del Paese. Da qualche tempo ha deciso di portare sullo schermo il suo «dentro», le sue esperienze e sentimenti più intimi e personali, affidandoli a un I-phone e a una camerina digitale da 300 euro. Ha incominciato con Amore carne (due anni fa, agli «Orizzonti» di Venezia) in cui rivela e commenta la sua sieropositività e si è ripetuto con Sangue, presentato, ieri, a Locarno (unico film italiano in concorso).

Il «Sangue» del suo film è quello fermo delle persone più care perdute per sempre, quello vivo della nascita, assente nelle arterie deserte dell’Aquila, eccitato dai manifesti inneggianti a Che Guevara, ghiacciato nelle vene dei reduci dell’estremismo e del terrorismo politico (dalla neve e dalla storia che ha dato loro torto), al seguito del funerale dell’ex brigatista Prospero Gallinari, dolente ed euforico nell’allestimento di Delbono della Cavalleria rusticana, al San Carlo di Napoli. Questi i tanti momenti catturati dal telefonino cellulare e dalla camerina del regista, raccordati dalla sua voce fuori campo e dalle immagini dei suoi incontri con Senzani.

«Ero andato a trovarlo dopo un suo spettacolo - ha raccontato Giovanni Senzani -. È subito sbocciata l’idea di fare qualcosa assieme. Pensavamo a un libro che volevamo intitolare “Sperduti”, per marcare il disagio di vivere in un mondo in cui non ci ritrovavamo. Poi, la scomparsa di mia moglie Anna e la morte della mamma di Pippo ci hanno fatto cambiare rotta. Chi critica la mia presenza nel film deve capire che non sono più “un cattivo maestro”. Nel funerale di Gallinari, ho rivisto il funerale di Moro, quelli dei compagni caduti e delle nostre vittime: quel giorno ho capito che la nostra storia, la nostra piccola storia, era davvero finita».

Sangue è una coproduzione tra Rai Cinema e la Radio-Tv svizzera. «È un film a zero costi rispetto ai budget standard - ha sostenuto Delbono -. Abbiamo fatto i conti con il nostro vissuto e in corso d’opera ho approfondito la conoscenza di Senzani. È un film sulla sacralità della vita che cattura significati più profondi di quelli che compaiono oggi. Ho filmato la morte di mia madre fino al sigillo della sua bara. Il cinema e il teatro che cosa sono se non un rapportarsi con la morte? Mia madre è, così, diventata “la madre”, quella che ti crea, ti fa nascere e ti dà la libertà, come dice Pasolini. È così che il privato diventa politico. E, d’altronde, il cinema è politico. Il senso di tutto sta nel pensiero buddista che cito alla fine del film: “Non si può sfuggire alla vita”».

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