mercoledì 14 agosto 2013

MACHIAVELLI E LA MODERNITA'. ELIO MATASSI, Virtù e fortuna in Machiavelli, IL FATTO, 29 luglio 2013

Come suggerisce il nome, il postmoderno ha segnato la fine della modernità. Bene: ma la modernità quando era iniziata? Secondo molti il suo inizio è rappresentato dalla rivoluzione scientifica: ovvero nel periodo, tra metà Cinquecento e metà Seicento, che vide nascere l’astronomia di Copernico, la fisica di Galileo, il materialismo di Hobbes e la filosofia di Cartesio, che incorporava la nuova scienza in un grandioso sistema di pensiero. L’idea è suggestiva: peccato che sia sbagliata. Il primo pensatore moderno infatti visse qualche decennio prima a Firenze: era Niccolò Machiavelli.



Si sa, naturalmente, che il grande fiorentino fu il primo ad autonomizzare la politica dall’etica e dalla religione, guardando senza infingimenti le vicende della storia umana e della politica. Tuttavia – pensano in molti – in fondo Machiavelli aveva ancora una visione arcaizzante della natura umana, perché credeva nel determinismo astrale e nella provvidenza divina come ancora era comune fare nel Rinascimento. Per questo, secondo molti interpreti, i suoi riferimenti alla libertà sarebbero in realtà contraddittori, perché all’interno del quadro concettuale rinascimentale gli esseri umani non potevano godere di vera autonomia. E così – conclude questa canonica interpretazione – Machiavelli, anche se fu pensatore molto originale, non fu il primo dei moderni, ma l’ultimo dei premoderni.
Che però le cose non stiano così, e che Machiavelli sia stato il vero iniziatore della modernità, è ora confermato da un volume splendido (sia per i contenuti che per la veste grafica): Machiavelli e Lucrezio. Fortuna e libertà nella Firenze del Rinascimento, appena uscito da Carocci. Ne è autrice la rinascimentalista Alison Brown, studiosa del Royal Holloway dell’Università di Londra, mentre Mario De Caro è autore dell’illuminante postfazione.
Brown argomenta convincentemente che negli ambienti laici della Cancelleria della Repubblica fiorentina (di cui, a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, Machiavelli fu Segretario) si svilupparono innovative forme di pensiero naturalistico, in cui la tradizione dell’atomismo antico giocò un ruolo molto importante. Fondamentale in questo senso fu il ritrovamento del De rerum natura di Lucrezio da parte di Poggio Bracciolini, a cui è dedicato un altro recente, bellissimo volume, Il Manoscritto di Stephen Greenblatt. La tradizione epicureo-lucreziana fu la prima forma compiuta di naturalismo, incorporando idee molto eterodosse: gli dei non intervenivano mai nelle vicende umane; le religioni erano forze regressive; nel mondo naturale vi era evoluzione; la morale aveva carattere edonistico. Ma il punto forse più interessante era la difesa che questa tradizione faceva del libero arbitrio su base materialistica e non religiosa. L’idea è che talora, nel loro incessante movimento, gli atomi deviano imprevedibilmente dai moti rettilinei (con il famoso “clinamen”) e ciò apre spazi di contingenza su cui si radica il nostro libero arbitrio.
E richiamandosi a queste idee, nota De Caro nella postfazione al volume di Brown, si può risolvere l’annosa questione del rapporto virtù/fortuna nel pensiero di Machiavelli. Questi aveva copiato tutto il De Rerum Natura in un manoscritto da lui annotato che ci è giunto integralmente. E, come Lucrezio, Niccolò non credeva né alla Provvidenza divina né a un’astrologia deterministica: la fortuna lascia agli esseri umani preziosi spazi di continenza in cui essi possono esercitare liberamente la loro virtù. Era una concezione già pienamente naturalistica. E così, grazie all’eredità di un’antica scuola filosofica, nasceva la modernità.

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