domenica 27 settembre 2015

DEMOCRAZIA E TENTAZIONI FORTI. UN INTERVENTO DI P. INGRAO, La tentazione del premier forte e l’eutanasia del parlamento, IL MANIFESTO, 31 marzo 2015

Si fa fatica, con le fiamme della guerra che divam­pano ancora in una zona cru­ciale del mondo e ogni giorno accom­pa­gnano noti­zie di morti o rapiti o scom­parsi, sì, si fa fatica a ragio­nare su un con­fronto com­pli­cato (e su un voto) che si è svolto set­ti­mane fa in Senato, a riguardo di una pro­po­sta di modi­fica da appor­tare a un Arti­colo (pre­ci­sa­mente l’Articolo 88) della Costi­tu­zione repub­bli­cana. Il pen­siero di tanti — ita­liani e non — è volto ai morti, ai caduti, agli scon­tri amari e atroci che insan­gui­nano quei siti che fanno quasi da giun­tura tra con­ti­nenti: tra la densa Europa e la ster­mi­nata Asia. Eppure nelle set­ti­mane pas­sate si sono avuti un dibat­tito e un voto in Senato che non con­si­gliano silenzi, per­ché riguar­dano spo­sta­menti di fondo negli assetti isti­tu­zio­nali della Repub­blica, e nella con­fi­gu­ra­zione di poteri che essi fissano.


In con­creto si tratta di una modi­fica che la mag­gio­ranza ber­lu­sco­niana del Senato ha appor­tato all’Articolo 88 della Costi­tu­zione della Repub­blica. È un arti­colo bre­vis­simo, che reci­tava così: «Il Pre­si­dente della repub­blica può, sen­titi i loro Pre­si­denti, scio­gliere le Camere o anche una sola di esse. Non può eser­ci­tare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato».
È un testo asciutto, per­sino scarno. Ma la sua impor­tanza è pla­teal­mente evi­dente, trat­tan­dosi della sorte o meno degli organi assem­bleari, nelle cui mani è con­se­gnata tanta parte delle deci­sioni pub­bli­che e — con esse — limiti e poteri delle supreme auto­rità dello Stato. Allun­gando un po’ lo sguardo, si può dire che in quelle righe dell’articolo 88 si trac­ciano strade e si pon­gono paletti, entro cui può o non può più vivere un Par­la­mento: il luogo in cui si ela­bo­rano o si mutano le leggi, e si scri­vono le regole che accom­pa­gnano e vin­co­lano milioni di ita­liani e la loro esi­stenza quotidiana.
Insomma: si parla del magi­strato supremo dello Stato, ma anche — nei loro ruoli — di ciò che pos­sono fare i Par­la­menti, e del loro spe­gnersi oppure con­ti­nuare nella loro esi­stenza. E in quel testo si fis­sano anche vin­coli tem­po­rali entro cui lo stesso capo dello Stato può eser­ci­tare oppure no il suo potere di scio­gli­mento. In quell’articolo 88 (e in altri) dun­que si defi­ni­sce una trama di vin­coli rigo­rosa nella sua stessa scarna asciut­tezza. E si indica una scala di poteri, che tende a fis­sare e garan­tire una maglia arti­co­lata di deci­sioni: dun­que orien­tata chia­ra­mente con­tro una strut­tura asso­lu­ti­stica e di con­cen­tra­zione del potere.
Si com­prende, si avverte facil­mente che que­sta arti­co­la­zione di poteri è frutto di una dura e amara memo­ria dell’assolutismo fasci­sta; e per­ciò la vita, gli atti, la prassi delle strut­ture supreme dell’ordinamento pub­blico sono ordi­nati in maniera deci­sa­mente orien­tata a una costru­zione plu­ra­li­stica dello Stato e della sua prassi.
Di qui nasce lo stu­pore e l’allarme di fronte alla grave svolta avve­nuta in Senato in dire­zione di una nuova scura con­cen­tra­zione di potere (indi­cata col nome di «pre­mie­rato forte»), che punta a una pesante pre­mi­nenza del pre­si­dente del Con­si­glio o — per stare al nuovo lin­guag­gio in voga — del premier.
Non è pro­prio un evento improv­viso, e anzi — anni fa — qual­cuno nelle stesse file del centro-sinistra qual­che seria age­vo­la­zione per spia­nare que­sta strada la dette. Ma è indub­bio che l’innovazione, a cui ha schiuso il cam­mino il voto del Senato, è per Sil­vio Ber­lu­sconi come il cacio sui mac­che­roni. Essa dà una maz­zata pesante al ruolo del pre­si­dente della Repub­blica e pone in primo piano la fun­zione del pre­si­dente del Con­si­glio, cui viene attri­buita la «esclu­siva respon­sa­bi­lità» della pro­po­sta di scio­gli­mento delle Camere.
Dun­que impal­li­di­scono mise­ra­mente il ruolo e i poteri del capo dello Stato, e avanza cla­mo­ro­sa­mente lo spa­zio di deci­sione del capo del governo, o pre­mier (secondo lo si voglia chia­mare), che,- nel corso del con­fronto par­la­men­tare,- viene a disporre della spada affi­lata per met­tere fine alla legi­sla­tura: in ogni modo per tenere con­ti­nua­mente l’assemblea par­la­men­tare sotto il ricatto del con­gedo, del ritorno a casa. Sì, dav­vero: «pre­mie­rato forte», e con­cen­tra­zione nelle mani del pre­mier di un cor­poso e costante potere di ricatto nei riguardi di un’assemblea par­la­men­tare che ardi­sca met­tere in campo una osti­lità nei riguardi della volontà e dell’azione del pre­si­dente del Consiglio.
È giu­sto, è sba­gliato? È richie­sto dai tempi o è con­sono e neces­sa­rio alla figura — diciamo — di un Sil­vio Ber­lu­sconi? È il più che gli manca per dare il meglio di sé e che ora il Senato gli pre­para su un piatto d’argento?
Prima ancora di giun­gere a deci­sioni e let­ture di que­sto livello, io resto basito per il sin­go­lare silen­zio che si è sta­bi­lito di fronte all’evento, e alla pro­ter­via che esso esprime.
Attenti. Non siamo di fronte a un qual­che sem­plice aggiu­sta­mento o sem­plice valo­riz­za­zione del potere ese­cu­tivo in que­sto paese. Que­sto «pre­mie­rato forte» è la can­cel­la­zione pro­terva di una let­tura del potere poli­tico e dell’ordinamento pub­blico, matu­rata attra­verso una sto­ria san­gui­nosa, e un pati­mento di popolo, che ha vis­suto repres­sioni sel­vagge e per­sino il rischio di una dit­ta­tura di marca nazi­sta e di una discri­mi­na­zione raz­ziale mai cono­sciuta nel globo.
Ho cono­sciuto il libero Par­la­mento ita­liano appena uscii salvo dai rischi e dai lutti della seconda guerra mon­diale. Quando vedemmo e salu­tammo la libertà che tor­nava (e si dila­tava) — in que­sta fascia d’Europa immersa nel Medi­ter­ra­neo — pur nelle dif­fe­renze aspre di con­vin­zioni e di cul­ture, sem­pre — o quasi — tenemmo ferma l’ambizione e la fidu­cia in un regime assem­bleare, e in un’articolazione dei mas­simi poteri che rispet­tava un plu­ra­li­smo, e vedeva nelle aule par­la­men­tari un luogo di potere, dove il con­fronto e la deci­sione si mani­fe­stas­sero — direi: quo­ti­dia­na­mente — alla luce del sole. E in quel Par­la­mento repub­bli­cano — l’ho vis­suto per­so­nal­mente — anche nei momenti più aspri di rot­tura e di con­flitto, l’assemblea agì come luogo di con­fronto arti­co­lato e per­sino com­pli­cato: per tenere fermi il rico­no­sci­mento e la legit­ti­ma­zione delle dif­fe­renze, e tener vivo un plu­ra­li­smo che dif­fi­dava sem­pre della con­cen­tra­zione onnivora.
Furono troppi i par­titi? O troppo sofi­sti­cate le dif­fe­renze sin­da­cali? O con­ce­demmo troppa alla plu­ra­lità, alla mol­ti­pli­ca­zione delle sog­get­ti­vità sociali, alla pre­senza di gruppi minori? Ci furono troppi stemmi in quelle aule e ves­silli troppo diversi nelle piazze italiane?
A guar­dar bene però nem­meno quest’ordine di inter­ro­ga­tivi coglie tutto il senso, la por­tata della muta­zione dell’articolo 88. Attenti, non è solo l’in più di potere (e quale potere!) che la mag­gio­ranza ber­lu­sco­niana ha dato al Primo mini­stro. È anche il cam­bia­mento, lo sbia­di­mento di volto del capo dello Stato, di cui ven­gono moz­zate essen­ziali pote­stà di inter­vento e di deci­sione. Insomma è un muta­mento che cam­bia la trama gene­rale dell’ordinamento repub­bli­cano. Si potrebbe dire che viene fran­tu­mato il «mosaico» in cui la Carta costi­tu­zio­nale arti­cola la strut­tu­ra­zione della deci­sione poli­tica. Vive e avanza il «pre­mier» forte. E a me — scu­sate lo scherzo — ricorda le imma­gini che vedo in tele­vi­sione, quando da Vespa va que­sto nostro pre­si­dente: e in quello schermo c’è sem­pre solo e sol­tanto lui e quell’ossequioso fun­zio­na­rio della Rai.
E que­sto stra­po­tere del «pre­mier» è solo un volto dell’operazione. L’altro riguarda lo sbia­di­mento del dibat­tito assem­bleare: cioè l’idea, l’immagine che al paese ven­gono dati della costru­zione della deci­sione politica.
È pro­ba­bile — per­ché non con­fes­sarlo? — che il fasti­dio che si prova dinanzi a que­sta con­no­ta­zione apo­lo­ge­tica del pre­mier discenda in chi scrive dall’assemblearismo che segnò — alla fine della guerra, ma già nel cuore stesso della lotta anti­fa­sci­sta — tutta una generazione.
Sì. Noi cre­demmo molto nell’assemblea par­la­men­tare che risu­sci­tava dalla can­cel­la­zione ope­rata dal fasci­smo, e nel con­fronto tra le posi­zioni che in essa doveva svi­lup­parsi e vigo­reg­giare: e non solo nelle piazze e nel paese, ma nei luo­ghi spe­ci­fici dove avve­niva la for­mu­la­zione — sta­rei per dire: la costru­zione — della deci­sione politica.
Il «pre­mie­rato forte» sem­bra invece rifug­gire sprez­zan­te­mente dalla «costru­zione della deci­sione» che si com­pie nel con­fronto pub­blico: prima di tutto nell’assemblea par­la­men­tare.
Forse la mia gene­ra­zione– nei suoi diversi colori — è ancora troppo segnata dalla memo­ria amara del modo dura­mente vio­lento con cui il Par­la­mento ita­liano– ma anche l’articolazione dei poteri — fu sel­vag­gia­mente schiac­ciato dalla dit­ta­tura fasci­sta.
Ricor­date? Ci ribel­lammo per­sino con un moto di popolo a quella riforma elet­to­rale — era il 1953, in piena fio­ri­tura demo­cri­stiana — abba­stanza blanda in realtà, che defi­nimmo con il ter­mine bru­ciante di «legge truffa».
Di fatto quel par­la­men­ta­ri­smo in campo in Ita­lia allora era legato a una let­tura plu­ra­li­stica della espe­rienza poli­tica, che ten­deva a dila­tare, a dare svi­luppo alla costru­zione della deci­sione gene­rale. E lavo­rammo inten­sa­mente a rea­liz­zare un nesso tra par­la­men­tari e sem­plici cit­ta­dini: fra aula di Mon­te­ci­to­rio e paese. Nel vivere per­ma­nente di que­sto nesso stava per noi il radi­ca­mento della poli­tica tra la gente (e sape­vamo bene che ciò poteva ali­men­tare anche il ceppo del clien­te­li­smo e un rigon­fia­mento esa­spe­rato delle «cor­renti» politiche).
E tut­ta­via quella com­ples­sità, quel vigo­reg­giare dell’assemblearismo non dava san­gue solo a «mac­chine poli­ti­che» e al par­ti­ti­smo. Esso si riflet­teva anche nella vita delle città, nello svi­luppo delle orga­niz­za­zioni sociali: insomma nella dila­ta­zione orga­niz­zata dell’esperire politico.
Che sarebbe stata la vita civile di tanti comuni ita­liani — grandi o pic­coli che fos­sero — senza que­sta ten­sione poli­tica e par­te­ci­pa­zione dif­fusa, che rifiu­tava la strada del «ver­ti­ci­smo» politico?
E infine. In que­sta esal­ta­zione attuale del «pre­mie­rato forte» emerge anche una con­trad­di­zione parec­chio sin­go­lare fra il loca­li­smo leghi­sta e l’idoleggiamento del pos­sente pre­mier alla Ber­lu­sconi. Si ha quasi l’impressione malin­co­nica di una spar­ti­zione fra capi della mag­gio­ranza attuale: insomma di una con­fusa ope­ra­zione di com­pra­ven­dita, in cui il loca­li­smo rozzo e avido si con­giunge, si mescola con l’enfasi del «pre­mie­rato forte», sal­va­tore della Patria.
Si può tacere di fronte a un tale intrigo (o pastic­cio) isti­tu­zio­nale che sa così ruvi­da­mente di spartizione?
E chi serba memo­ria di un ama­ris­simo pas­sato ita­liano, non dovrebbe driz­zare bene le orec­chie, nel veder tor­nare gli uomini «forti», che inzep­pano, nella loro già così gon­fia sac­coc­cia, anche il vivere o il morire — un bel mat­tino — dei Parlamenti?
È un allarme esa­ge­rato il mio? O addi­rit­tura i Par­la­menti ormai sono solo camere da retro­bot­tega, stanze per il per­so­nale di ser­vi­zio? Io non lo credo. Ai nuovi can­tori del Pre­mier piglia­tutto l’onere della prova.

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