domenica 15 maggio 2016

SOCIOLOGIA DELLA POLITICA E DELLE ISTITUZIONI. G. DE RITA, Distinguere i campi in una «poliarchia» di poteri distribuiti, CORRIERE DELLA SERA, 15 maggio 2016

Credo e spero che si sia in molti a essere preoccupati dalle troppe tensioni e della larga confusione che si va creando fra le istituzioni che si occupano di legalità e di moralità nei diversi segmenti dell’azione pubblica, politica o amministrativa che sia. Non si tratta più, come in un recente passato, di tensioni derivanti da più o meno giustificati protagonismi individuali o categoriali; ma di un continuo affastellamento di polemiche così diffuse, e spesso così generiche, da creare una grande confusione di ruoli e di responsabilità, e alimentata fra l’altro da una piena di dichiarazioni, comunicati ufficiali, articoli e interviste, campagne mediatiche, messaggi e messaggini telematici.


Se mi fosse permessa una inelegante scivolata nel dialetto natio, direi che «stamo a ffà un casino», o che almeno lo stiamo preparando. Un pericolo questo che non si contrasta con nobili appelli all’etica della responsabilità di persone e di istituzioni; appelli su cui non vorrei unirmi (non sono peraltro «nella mia penna») mentre vorrei centrare l’attenzione sulla rivisitazione dei «fondamentali» del tema, cioè dei criteri essenziali per dominare la situazione. Parto da un semplice assunto: che di fronte alla confusione bisogna saper distinguere temi e problemi e non correre ad affastellarli. Ricordo sempre, al riguardo, che i miei padri gesuiti, al primo giorno di scuola media, ci mettevano di fronte un foglietto con una frase qualsiasi e ci obbligavano a distinguerne i contenuti e articolarne i riferimenti.
Antica sapienza del distinguere, che del resto è di tutta la Chiesa, che da secoli ha una grande esperienza di metodo, visto che per prima ha distinto fra peccato e reato e ha attribuito il loro trattamento a due diverse logiche e due diverse giurisdizioni. Paolo Prodi nel suo insuperato Il sovrano ponteficericorda la lucida concretezza con cui era stabilito che a Bologna il cardinale avesse giurisdizione sui peccati e il governatore avesse laica giurisdizione sui reati, articolando il potere fra vita pubblica e presenza pastorale. Quella distinzione originaria è rimasta patrimonio di tutte le democrazie occidentali, eredità preziosa contro la sovrapposizione dei poteri (religiosi, ideologici, morali, politici, amministrativi, giudiziari) operanti nella realtà sociale. Se ci siamo difesi dalle dittature del Novecento e se ci sentiamo in diritto di difenderci dalla onnipotenza della legge coranica lo dobbiamo anche e specialmente a quella originaria distinzione cattolica, base di ogni rifiuto del fondamentalismo.
Le società moderne non affastellano, ma distinguono. Continua a farlo la Chiesa, per quel che le compete, visto che distingue fra peccato e peccatore, fra peccato veniale e peccato mortale, e arriva addirittura a rinunciare al suo potere giudicante («chi sono io per giudicare?» di papa Francesco). Ma è metodo che non riesce ai tanti soggetti, che si affollano a sovrintendere i comportamenti individuali e collettivi e le loro devianze. Tutti all’inizio si scelgono un ruolo, ma poi — nell’affanno della cronaca — non sanno distinguere i loro campi e confini di azione: il giornalista fa il para-politico; il legislatore preferisce fare leggi valoriali; il giudice fa la guida morale e talvolta politica; il politico fa lo slalom fra accuse e contraccuse di stampo morale, i pubblici ministeri fanno i facilitatori degli amministratori pubblici; nessuno resta nel proprio recinto, tutti si affollano ad appropriarsi dell’altrui potere in un magma indistinto di polemiche, sempre alimentate da concetti e parole ormai solo funzionali alla ronda della delegittimazione reciproca.
Da tutto ciò non ci salveranno i tanti caldi appelli alla moderazione dei toni e al senso di responsabilità dei vari protagonisti, dobbiamo più freddamente uscire dall’affastellamento e tornare a «distinguere», sapendo che le società che hanno imparato ed esercitato «il dovere di distinguere» tendono, politicamente, a governarsi in una prassi di poliarchia, cioè di poteri distribuiti e non affastellati. Abbiamo così di fronte una strada di lungo e faticoso percorso; ma è l’unica che corrisponde alla nostra storia e ci allontana dalla sottomissione strisciante al fondamentalismo.

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