sabato 3 settembre 2022

SINISTRA IN CRISI. INTERVISTA CON L. RICOLFI. A. FRANZI, Luca Ricolfi: “La vecchia sinistra è rimasta senza popolo”, LINKIESTA, 27 aprile 2017

 La sinistra non sa più dare protezione. “Ed è una mutazione genetica irreversibile”. Parola di Luca Ricolfi, sociologo, docente di Analisi dei dati all’università di Torino, che ha appena pubblicato per Longanesi un libro dal titolo evocativo: Sinistra e popolo. Dove spiega, fra le altre cose, perché il popolo non si riconosce più nella sinistra tradizionale, vista come rappresentante dell’élite. Tema centrale nel dibattito sul futuro della democrazia rappresentativa anche dopo i risultati del primo turno delle elezioni presidenziali in Francia. Emmanuel Macron è al ballottaggio, ma è un progressista in cui la sinistra tradizionale non si è mai riconosciuta. Di sinistra radicale, è stata la proposta di Jean-Luc Mélenchon, che però è arrivato quarto. Il candidato del partito socialista del presidente Hollande, Benoit Hamon, ha invece preso il 6%, segnando lo stesso tracollo dei laburisti in Olanda un mese fa. “L’exploit di Macron – commenta Ricolfi parlando con Linkiesta – rischia di essere una replica dell’exploit di Matteo Renzi alle Europee del 2014, con un picco di consensi che finisce per sgonfiarsi quando si tratta di passare dalle parole ai fatti”.


Professore, partiamo dall’inizio, per capire le regole del gioco: secondo lei, ha ancora senso leggere i risultati elettorali in base all’asse destra-sinistra?
No, non ha molto senso. Non perché destra e sinistra non esistano più, ma perché ci sono due destre e due sinistre. E, cosa ancora più stupefacente, alcune somiglianze fra segmenti della destra e della sinistra sono ancora più forti delle affinità all’interno dei due schieramenti tradizionali.

Partiamo da qui.
In molti Paesi, ad esempio, la sinistra riformista e la destra liberale sono molto vicine nella loro accettazione del mercato, della globalizzazione, delle regole sovranazionali. E la sinistra e la destra populiste sono assai simili nel comune rifiuto di alcuni aspetti della globalizzazione, anche se spesso le cose che si respingono non sono le medesime: la sinistra populista è ostile alla circolazione dei capitali e all’ingerenza delle autorità sovranazionali negli affari interni dei vari paesi, la destra populista è invece ostile alla circolazione delle persone, e in particolare all’immigrazione. Né si può dire che queste strane convergenze siano solo sulla carta: sono ormai parecchi gli esperimenti di grosse koalition, con destra e sinistra ufficiali al governo insieme (Germania, Austria, Italia, Grecia, Israele). Né mancano gli avvicinamenti fra forze populiste, sia al governo (si pensi alla coalizione rosso-nera che governa attualmente la Grecia) sia all’opposizione (si pensi alla convergenza, in Italia, fra Lega e Cinque Stelle su un tema come quello dell’immigrazione). Per questo, nel mio libro suggerisco che la dicotomia fondamentale, in questa epoca, non sia più quella fra destra e sinistra ma stia diventando quella fra forze dell’apertura, ovvero destra e sinistra ufficiali, e forze della chiusura, ovvero populisti di destra e di sinistra.

In Francia, al primo turno delle presidenziali la sinistra è arrivata a pezzi. C’è un problema di numeri ma anche di identità. Come leggere il risultato francese da questa prospettiva?
La Francia ha problemi molto simili a quelli dell’Italia, salvo il fatto di non avere ancora distrutto lo Stato centrale. Simile è l’immobilismo, simile è la continua promessa di risanare i conti pubblici, simile è l’enorme fardello dell’interposizione pubblica. Simile è anche il peso delle forze populiste, Le Pen e Mélenchon in Francia, Salvini e Grillo in Italia. La differenza fra Italia e Francia è che noi il ‘nuovo’, con la breve stagione di Renzi, l’abbiamo già avuto, sperimentato, e buttato via, mentre loro l’hanno scoperto solo adesso, con Macron. L’exploit di Macron alle presidenziali francesi del 2017 rischia di essere una replica dell’exploit di Renzi alle europee del 2014, con un picco di consensi che finisce per sgonfiarsi quando si tratta di passare dalle parole ai fatti.

Quando la sinistra ha iniziato a essere identificata con l’élite e perché?
Il distacco della sinistra italiana dai ceti popolari è iniziato verso la metà degli anni ’70, ai tempi di Berlinguer, ma l’equazione sinistra=establishment è più recente. A occhio e croce direi che inizia con l’Ulivo di Prodi e la lunga stagione dell’antiberlusconismo. E’ nella seconda Repubblica che la sinistra ufficiale, quella erede del Pci e della sinistra Dc, ha portato alla perfezione la sua occupazione delle istituzioni, dei corpi intermedi, della società civile: magistratura, stampa, scuola, università, mass media, cultura. Ed è nella seconda Repubblica che il politicamente corretto è diventato, contemporaneamente, il biglietto da visita della sinistra e il pensiero unico obbligatorio della classe dirigente. Ecco perché, quando i ceti popolari sono entrati in rivolta contro le élite, hanno trovato del tutto naturale indirizzare il proprio risentimento contro la sinistra, vista come la principale incarnazione dell’establishment.

Seguendo la sua analisi, non è un problema recente. Perché dopo tanti anni, la sinistra non ha rimediato al suo errore?
Perché, culturalmente e psicologicamente – mi verrebbe da dire: antropologicamente – la sinistra è del tutto sprovvista di curiosità. E la curiosità, ovvero la voglia di capire il punto di vista dell’altro (compreso il presunto nemico o avversario), è l’unico antidoto alla sclerosi, al rinchiudersi nel proprio mondo, all’autorassicurazione che rende sordi e ciechi. Le faccio un esempio molto concreto.

Prego.
Se, nel 2001, la sinistra avesse letto il libro di Italo Fontana Non sulle mie scale, edito da Donzelli, sugli effetti dell’immigrazione in un quartiere popolare di Torino, oggi non sarebbe così terribilmente indietro sui problemi della sicurezza, e non avrebbe perso i milioni di voti che ha perso per pura volontà di non vedere.

Cerchiamo di tirare le somme: il popolo tradito chi vota? Uso un paradosso: la destra della Le Pen o di Trump è la nuova sinistra?
No, la destra di Le Pen e di Trump non sono la nuova sinistra, perché anche loro non sanno come risolvere il principale ‘problema di sinistra’ che ha allontanato i ceti popolari dai partiti progressisti: il problema dell’occupazione e della povertà.

E’ chiaro che dopo questa serie di elezioni traumatizzanti, dalla Brexit alla Francia, la vecchia sinistra dovrà trovare una nuova proposta per non sparire dalla scena politica europea. Come può tornare a farsi capire dal popolo? Vede in circolazione nuove proposte politiche capaci di incarnare questa prospettiva senza ricadere negli errori del passato?
No, non ne vedo alcuna. La sinistra, ormai, è la naturale rappresentante dei ceti medi urbani, istruiti e ‘riflessivi’, come ebbe a definirli lo storico Paul Ginsborg. E’ una mutazione genetica irreversibile. Anche nei prossimi anni continuerà a difendere le politiche di accoglienza, e a coltivare il senso di superiorità morale dei suoi sostenitori. Mentre i ceti popolari chiedono una cosa soltanto: protezione. Protezione contro la perdita di occupazione e di reddito, protezione contro criminalità e immigrazione. Esattamente le cose che la sinistra non è in grado di dare.

Questa trasformazione del rapporto fra popolo e sinistra, professore, come si declina nel nostro Paese? Siamo destinati a un dibattito auto-referenziale dentro la sinistra che favorirà un duello fra i 5 Stelle e il redivivo Berlusconi?
Sì, a giudicare dal congresso del Pd non è in corso – a sinistra – alcun dibattito di alto profilo sul futuro del Pese, del capitalismo, della civiltà del lavoro. Solo piccole manovre, modesti tentativi di acciuffare qualche voto. Ben quattro partiti a sinistra del Pd, e nessuna idea veramente nuova, nessuna proposta che susciti interesse. Però non vedo neppure un passaggio del testimone alle altre forze politiche. Il centro-destra non ha idee interessanti, i Cinque Stelle hanno idee pericolose.

Quindi?
Alla fine, il Pd e la sinistra potrebbero anche reggere l’urto per mancanza di alternative. In Renzi credono ormai ben pochi elettori, ma se l’alternativa sono Salvini e Grillo è anche possibile che il Pd diventi un partito-rifugio. Dove si va non perché ci piace, ma perché le alternative sono ancora più inquietanti.

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