domenica 2 settembre 2018

POLITICA E COMPETENZA. G. BERARDELLI, Rifiutare la competenza un’idea falsa di democrazia, CORRIERE.IT, 1 settembre 2018

Nel giro di poche settimane i commenti sul governo giallo-verde sono passati dal sottolineare i costi e l’irrealizzabilità del «contratto» di governo, nonché le contraddizioni tra Lega e Cinquestelle, alla previsione che l’esecutivo potrebbe invece durare non poco.


 È la rabbia contro i vecchi partiti ad essere generalmente addotta come spiegazione principale di un consenso che non sembra scemare (lasciamo ora da parte il perché la Lega di Salvini venga percepita come una forza politica nuova). In effetti, un settore importante dell’opinione pubblica afferma con decisione che, qualunque cosa faccia o al contrario si dimostri incapace di fare il governo attuale, di sicuro quelli di prima non li voterà mai più. Questo rifiuto è solo il prodotto di anni e anni di polemica anticasta, come spesso si afferma, o c’è dell’altro?
Temo che all’origine vi siano elementi non congiunturali, che rimandano a una trasformazione profonda della nostra società, che tende sempre più a concepire l’eguaglianza nel senso di un rifiuto di tutto ciò che sembra elevarsi al di sopra della massa dei cittadini comuni. Questo atteggiamento — che ritroviamo fisicamente riassunto nella «ostentata medietà» dei due vicepremier sottolineata da Federico Fubini (Corriere, 25 agosto) ma anche nello slogan «uno vale uno» del M5S — fa parte da sempre della mentalità democratica. Quasi due secoli fa, di ritorno dal suo viaggio in America, Alexis de Tocqueville scriveva: «Tutto ciò che in qualche modo lo supera, pare allora [al popolo] un ostacolo ai suoi desideri, e non c’è superiorità, anche legittima, la cui vista non affatichi i suoi occhi». In generale i regimi democratici hanno saputo convivere con questi atteggiamenti, tenendoli dunque a bada, nella consapevolezza che le élites, politiche e tecniche, sono pur sempre necessarie, rappresentano una forma di peculiare «aristocrazia», come scriveva Tocqueville, della quale i regimi democratici non possono fare a meno.

Ora qualcosa è cambiato, in Italia e non solo. Ciò che continuiamo a definire populismo, dunque con un termine nato nell’800, si qualifica oggi, nell’era della Rete in cui tutto il sapere sembra essere alla portata di tutti, in cui tutti possono intervenire su tutto (e lo fanno), si qualifica, dicevo, anche per l’idea che solo le spiegazioni semplici sono a misura della democrazia, concepita come un regime politico ma anche sociale che non tollera nulla e nessuno che si elevi al di sopra degli uomini e delle donne comuni.
Nella società italiana questo atteggiamento è probabilmente rafforzato anche da una cronica difficoltà a valutare le capacità e i meriti (o demeriti) di ciascuno: degli insegnanti e in generale dei dipendenti pubblici, ma anche dei magistrati, le cui carriere avvengono da tempo soprattutto per anzianità. Una parte del Paese considera la valutazione delle capacità di una singola persona come una forma di discriminazione, qualcosa di sostanzialmente non democratico: si tratta di un retaggio o di un effetto collaterale della battaglia del Sessantotto per l’egualitarismo e contro l’autoritarismo, che ci dice tra l’altro quanti materiali diversi confluiscano nell’attuale consenso al governo giallo-verde.
La disinvoltura e, se è consentito, la faciloneria con cui esponenti di primissimo piano dell’esecutivo si pronunciano subito su tutto — dai vaccini alla ricostruzione del ponte Morandi — usando non a caso la stessa forma di comunicazione dei comuni cittadini (Twitter, Facebook) enfatizza dunque un nuovo stadio raggiunto dalla democrazia nell’era della Rete, imperniato sul rifiuto di tutto ciò che ha a che vedere con la competenza. Naturalmente, hanno ragione da vendere tutti coloro che sottolineano i pericoli di questa idea democratica (falsamente democratica, è ovvio) che — in economia come in medicina — diffida degli esperti, pretende la semplicità e quasi identifica ciò che è complicato con ciò che non è democratico, comprese le regole giuridiche.
Si ricordi al riguardo «la giusta causa sono i morti» del ministro Di Maio: una pessima giustificazione per una decisione di revoca della concessione ad Atlantia che avrebbe potuto basarsi su ben più solidi argomenti (ma troppo tecnici, troppo complicati, dunque poco «democratici»). Ma, per quanto giuste, difficilmente le critiche a chi si fa beffe degli esperti sortiranno qualche effetto: come tutte le ideologie, anche questa nuova «democrazia integrale» basata sulla universale semplicità è infatti impermeabile alle contestazioni e ai fatti. O almeno, lo è entro certi limiti, che c’è da augurarsi non debbano essere superati (c’è qualche commentatore che non esclude futuri scenari venezuelani) perché il Paese sia costretto a riconoscere che in realtà degli esperti non si può fare a meno. E che semmai, e non è poco, bisognerebbe cercare di sceglierli bene.


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