lunedì 22 aprile 2024

CINEMA FASCISMO. BIANCO E NERO, DI P. PIETRANGELI, 1975. IMPRESSIONI 50 ANNI DOPO. M. FAGOTTO F., 27.04.2024

  “Per me il fascismo rappresenta la patria, rappresenta…la vera…il concetto di quello che deve essere l’uomo…volere bene alla propria famiglia…credere nella religione che oggi la religione non c'è più…le strade erano pulite…l’immondizia non si trovava in tutti gli angoli…lei lasciava la bicicletta, come in Svizzera, vicino al muto, la sera trovava caso mai la multa, ma la bicicletta c’era ancora…la casa lei la poteva lasciare con la porta aperta, senza chiavi, senza niente, non c’era pericolo che nessuno entrava…a me non risulta che sia mai entrata, la polizia cosiddetta fascista in casa di un cittadino se non aveva assolutamente fatto niente…rapinatori non ce n’erano…una donna poteva tranquillamente andare alle due di notte in farmacia che non la fermava nessuno a meno che non fosse una di quelle segnate dal buoncostume…noi avevamo un esercito, avevamo una marina, dovunque andavamo eravamo rispettatissimi…la nostra lira ce la cambiavano subito, oggi non la vuole nessuno”



   Il documentario di Paolo Pietrangeli esce nel 1975  a ridosso di una serie di sanguinosi attentati che caratterizzarono pesantemente la storia italiana di quel quinquennio. Tanto per ricordarne i quattro più significativi: la bomba alla BNL di Milano, nel dicembre del 1969 (17 morti e 88 feriti); l'attentato di Gianfranco Bertoli nella questura di Milano del maggio 1973 (4 morti e 52 feriti fra civili, ma l’obiettivo sarebbe dovuto essere il ministro degli interni, Mariano Rumor); l'attentato di Peteano ai carabinieri (3 carabinieri uccisi e due feriti, 1972); la bomba a piazza della Loggia nel maggio del 1974 (9 morti e 102 feriti; qui un intervento di E. Severino); la bomba sul treno Italicus nell'agosto dello stesso anno (12 morti e 50 feriti. Secondo le dichiarazioni rilasciate nel 2004 dalla figlia Maria Fida, su quel treno sarebbe dovuto salire  suo padre, Aldo Moro)


   A fronte di questo contesto le interviste a Rauti, Birindelli, Borghese e Almirante sono emblematiche dell'ampia libertà di azione ed espressione che era stata concessa, nonostante tutto, a personalità notevolmente compromesse per le scelte ed affermazioni fatte nel passato e ribadite con grande orgoglio anche nel documentario di Pietrangeli. Il tutto, non dimentichiamolo, in un clima internazionale infuocato compreso fra il golpe fascista in Cile (settembre 1973) e in Grecia (luglio 1974) e la fine dei fascismi iberici (Portogallo, 1974 e Spagna, 1975).

   Colpisce la tranquillità  con cui questi esponenti di primo piano di un neofascismo rivendicato e rimarcato con orgoglio esprimono le proprie opinioni quando, si pensa,  che dovessero vivere, invece, in un clima di terrore e di paura nel formulare proprio queste dichiarazioni così determinate  e capaci di poter condurre anche a reazioni senza alcun dubbio violente (alla domanda su quale sarebbe stata la reazione del MSI di fronte ad una possibile partecipazione al governo di forze di sinistra, Almirante risponde che il partito avrebbe certamente reagito con forza). 

Molto probabile che le connivenze di lungo corso e la presenza massiccia nelle istituzioni che contano (forze armate, polizia, magistratura, governi) permettessero loro di esprimersi in tutta serenità  con valutazioni e considerazioni di quel genere.

   È Almirante (1914-1988) a dire, in francese, “di non rinnegare niente del proprio passato e di essere pronto, se le stesse circostanze di allora si dovessero riproporre, a rifare le stesse cose” Poi rivela  che i voti del MSI, partito fondato da fascisti repubblichini nel 1946, erano stati accettati a più riprese, per tutti gli anni Cinquanta, dai democristiani al fine di dar vita a governi centrali e locali dichiaratamente anti-comunisti. 

  E’ Junio Valerio Borghese (1906-1974, indicato come organizzatore di un tentativo di golpe militare nel 1970) a dire, sempre in francese, di non essersi “sentito in imbarazzo a combattere contro altri italiani perché non si trattava di una guerra territoriale, ma di una guerra ideologica in cui occorreva stare dalla parte della civiltà occidentale o dalla parte del mondo orientale…oggi combatto contro italiani, oggi le parlo contro italiani quando le dico, per esempio, che uno dei nemici più grandi che abbiamo nel nostro Paese sono i comunisti; e non mi imbarazza affatto dire che sono nemici e che se potessimo sterminarli io sarei molto contento perché questo libererebbe il Paese da nemici che ci vivono e che sono una minaccia continua”

   È Scelba (1901-1991), potente ministro degli interni democristiano, a descrivere con sordido piacere e soddisfazione, la creazione di quella moderna “cavalleria motorizzata” di nome Celere con la quale la polizia caricava i manifestanti sulle piazze dove, complessivamente, negli anni, erano caduti più di cento operai e contadini. Un uso della polizia e delle leggi di ordine pubblico di matrice fascista, cosa che produsse eccidi come quelli di Modena -1950- (cfr. il documentario  di Lizzani), di Torremaggiore, Melissa (1949), Montescaglioso

   D'altra parte, fino ad allora, gli esiti giudiziari su vicende sanguinose, avevano dato ragione ai carnefici e ai mandanti: su piazza Fontana si brancola, nel 1975, ancora nel buio; su piazza della Loggia si brancolera’ nel buio per decenni fino ad oggi!

Verso la fine del documentario si sente ripetere più volte la domanda che una donna rivolge al presidente della repubblica Leone durante i funerali delle vittime dell'attentato di Brescia:” Cos'è che fate per liberarci da questi delinquenti? Cos'è che fate?” Domanda rimasta senza risposta: i delinquenti di allora sono rimasti al loro posto; molti sono ancora fra noi, moltiplicatisi, camuffati da “gente per bene”, benpensanti de-ideologizzati solo per convertirsi ad altre ideologie altrettanto letali (il fascismo, scriveva in quegli anni Pasolini, era diventato anche e soprattutto il consumismo).

   L'intervistatore non fa domande impertinenti, provocatorie, nonostante i motivi per farle ci sarebbero stati. Si comporta, pur mostrandosi non neutrale, come interlocutore intenzionato (bontà sua) a documentare cose e fatti difficili da documentare con il distacco e la freddezza che tutto questo richiederebbe. E da’ perfino l'impressione di essere quasi intimidito.

Fino al 1975 la violenza che ci sarebbe stata dall'altra parte politica doveva ancora venire (le Brigate rosse, già nate ed entrate in scena, opereranno con azioni di propaganda e proselitismo all'interno delle fabbriche; sequestreranno diversi dirigenti industriali e un magistrato, ma le uccisioni saranno solo tre e non previste ne’ premeditate. Senza dimenticare che, con il generale Della Chiesa, molti capi importanti (Curcio) verranno arrestati e uccisi (Cagol) già in questi anni).



Giustificabile? Inevitabile? I tempi furono quelli, porteranno altro sangue fra cui quello versato da giovani missini nell'episodio di cui si discute tanto ancora oggi, l'attentato di Acca Larentia, l'8 gennaio 1978, un mese e mezzo prima del rapimento Moro.

   Episodio per il quale “L'unità“ ebbe parole di fuoco giacché era cambiata la funzione e il ruolo del PCI, all'indomani del successo elettorale del 1976, successo che lo aveva chiamato a fare, da un lato, il poliziotto di quel ceto medio che lo aveva votato, nel frattempo impetuosamente cresciuto e timoroso di perdere quello che aveva conquistato scambiandolo per qualcosa di straordinariamente prezioso (invece era l'accesso ai consumi, al nuovo fascismo); dall'altro a rendere presentabile un album di famiglia impresentabile, stretto com'era fra l'oltranzismo dell'Autonomia operaia (l'assalto al comizio di Lama a Roma è del 1977, lo stesso anno della manifestazione contro la repressione organizzata a Bologna e appoggiata da influenti intellettuali d'oltralpe come Sartre, Deleuze e Guattari) e l'escalation guerrigliera delle Brigate Rosse che mirerà al cuore dello stato la mattina del 16 marzo 1978.

Così,  in uno degli editoriali non firmati che uscirono dopo quell'8 gennaio, si poteva leggere quanto segue:

   “Da che parte stia un'etica umana e rivoluzionaria insieme, risulta dalle parole pronunciate domenica dal Presidente della Camera: *Guai se qualcuno scrollasse il capo indifferente solo perché quei due giovani sono di estrema destra, ne cercasse una giustificazione citando la lunga lista di giovani di sinistra aggrediti o uccisi da squadre fasciste. Sarebbero ragionamenti aberranti » Questo è il sentimento vero. profondo delle masse e del movimento operaio. Questo è il filo rosso della sua storia ormai secolare. Se tu mi opprimi, io non ti opprimo ma libero me stesso insieme all'umanità intera. Se tu usi la forza bruta io rispondo con l'organizzazione, con la coscienza, con l'egemonia. Se tu esprimi solo un interesse meschino, egoistico, individuale io rispondo con la solidarietà politica ed umana e mi identifico sempre più con l'interesse non soltanto di classe, ma nazionale.” (L’etica del movimento operaio) 

   Il PCI aveva scelto la democrazia parlamentare fin dal tempo della Costituente ("Quando i comunisti italiani, non solo hanno accettato, ma hanno contribuito a scrivere la Carta, hanno abbandonato, dal punto di vista teorico e pratico, la concezione dello stato e del partito del cosiddetto leninismo-stalinismo", Riformato S., Intervista con A. Occhetto, La stampa, 27.04.2024) e si sarebbe astenuto a breve per far superare l’ennesima crisi di governo a guida democristiana; sfidava apertamente il “movimento del 77” lanciando un suo “movimento del 78” (L’unità, 2 novembre 1977) “contro il fascino immediato della ‘libertà della negazione’, il fardello da assumere è più pesante” per contrapporre all’ “ondata di irrazionalità, una nuova razionalità, non un ritorno indietro” (Luisa Melograni, Il movimento del ‘78).


Archivio Flamigni

Archivio audiovisivo del movimento operaio


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