mercoledì 3 aprile 2024

SLOGAN E POLITICA. MOLTEDO G., “Yes, We Can”. Come nacque (grazie a Michelle) lo slogan della fortuna di Obama, YTALI, 17.02.201

 Yes, we can. Non fosse stato per Michelle, il riuscitissimo e fortunatissimo slogan che aiutò a costruire la vittoria presidenziale di Barack Obama non sarebbe mai entrato in quella campagna elettorale. Quelle tre brevi, semplici parole non sarebbero diventate la bandiera delle presidenziali del 2008, uno slogan imitato e ripetuto in tutto il mondo.



Foto di Sandra Paoli

La verità è che Yes, we can, fu già usato da Obama prima delle presidenziali. Nella campagna per la sua elezione al senato. Nel 2004. Il futuro senatore considerava quello slogan “trito e scontato” (corny). Per fortuna, quando fu presa la decisione, era presente Michelle.

Lo racconta David Axelrod, il principale stratega delle campagne di Obama, in un’intervista a Amy Chozick, apparsa domenica scorsa sul magazine del New York Times.

“Michelle – rivela Axelrod – si trovava lì con noi per le riprese dello spot, ed era lo spot che si concludeva con la frase Yes, we can. [Barack] lesse tutto il testo dello spot e dopo la prima ripresa disse: ‘Ehi, ma non è troppo corny?’. Gli spiegai perché secondo me era un grande slogan, lui si voltò verso Michelle e disse: ‘E tu che ne pensi?’. Lei lentamente scosse la testa e disse: ‘Not corny’. Grazie a Dio, era lì quel giorno”.

In realtà, quello slogan non era neppure originale, essendo la traduzione in inglese di “Si Se Puede”, lo slogan della lotta degli anni 70 condotta dall’United Farm Worker, il sindacato dei braccianti “latinos” fondato da Dolores Huerta e Cesar Chavez.

http://www.k-state.edu/actr/2010/12/20/three-simple-words-a-rhetorical-analysis-of-the-slogan-_25e2_2580_259cyes-we-can_25e2_2580_259d-molly-mcguire/default.htm

Con Obama, “Yes, we can” tornava a risuonare, nella sua semplicità, come il mantra perfetto per mobilitare i giovani, rimettere in moto la politica democratica e indicare un obiettivo politico ambizioso. Indubbiamente, rifletteva lo spirito del tempo molto più di “Country First“, lo slogan “patriottico” dell’avversario repubblicano John McCain, che suonava stridente con gli umori di un paese stanco delle guerra in Iraq e in Afghanistan.

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La rivelazione di David Axelerod è una delle chicche sapientemente disseminate dal celebre political consultant di Chicago nelle tante interviste ai giornali, a radio e tv che sta rilasciando per il lancio delle sue memorie, “Believer: My Forty Years in Politics”, un libro straordinariamente interessante per capire dall’interno i meccanismi e le dinamiche, gli ideali e le bassezze della politica statunitense, in particolare delle campagne elettorali.

Inutile dire che l’attrazione maggiore del libro è esercitata dalla lunga amicizia e dall’intensa collaborazione tra l’autore e il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti.
Una relazione così stretta da proporre la domanda che si pone David Gergen, anch’egli celebre stratega politico, iniziando la recensione del libro di memorie sul New York Times:
Barack Obama sarebbe stato eletto presidente senza David Axelrod?

“La domanda – scrive Gergen – è molto meno forzata di quanto possa sembrare. Certo, Obama è un uomo di prodigiosi talenti – il candidato presidenziale con più magnetismo da Jack [John] Kennedy in poi […] Eppure si può sostenere con forza che fu la partnership con Axelrod e poi con lo staff della campagna elettorale che Axelrod mise insieme che lo catapultò verso la Casa Bianca […] Believer: My Forty Years in Politics rafforza l’idea che la leadership è sempre meno questione di un singolo, eroico individuo e sempre più di una squadra straordinaria”.

David Axelrod è l’opposto, in pubblico, di Obama. Ha un tono basso, a volta appare depresso, non è assertivo. Ha quarant’anni di politica alle spalle, come dice il titolo del suo libro, e 150 campagne elettorali.
Ha lavorato anche per Hillary Clinton, per la sua elezione a senatrice dello stato di New York nel 2000, e non si dimentichi che anche lei è dell’Illinois, come Obama e Axelrod, sebbene la sua carriera politica si sia svolta nel sud e, appunto, a New York.

E il legame con la probabile erede di Obama è uno dei punti che fanno notizia nel tour di presentazione del libro. E non certo perché Axelrod dica cose gentili su Hillary. Infatti nella Clintonland, l’uscita del libro e quanto va dicendo Axelrod su Hillary suscita enorme irritazione.

Già, perché tra i due, quando lo scontro nella campagna del 2008 si fece cruento, il mite Axelerod divenne cattivo, come sul fronte opposto i clintonisti più agguerriti, come Sidney Blumenthal. Infatti, non solo nei confronti di Hillary, Axelrod lancia frecce ma anche contro l’attuale team clintoniano, all’interno del quale è in corso un duro conflitto tra i fedelissimi della prima ora di Bill e Hillary e i consulenti provenienti dai ranghi obamiani, Jim Messina in testa, arruolati per rafforzare la squadra clintoniana.

Toccando questo tasto delicato, Axelrod ha detto, in un’intervista al seguitissimo Hardball della MSNBC, che John Podesta, il probabile campaign chairman di Hillary, “deve assumere il controllo delle operazioni” nella squadra clintoniana. Poi in un’intervista a Glenn Thrush del Politicoha criticato gli alti compensi che la Clinton chiede per le sue conferenze, cifre a sei zeri che potrebbero pesare sulla sua campagna 2016. È già uno dei temi cavalcati dalla destra repubblicana.

Nel libro Axelrod scrive, a proposito di Hillary, che “più cerca di moderare la sua immagine, più propone la sua immagine come quella di un’opportunista”.

Nell’entourage clintoniano quest’acrimonia è stigmatizzata e appare anche incomprensibile. Perché contrastare così le chance del prossimo candidato presidenziale democratico? Dato anche il rapporto personale con John Podesta, “prestato” dai clintoniani per sostenere Obama nelle difficoltà del secondo mandato, Axelrod potrebbe semplicemente comunicare le sue osservazioni parlando direttamente con Podesta, come dice a The Hill il politologo Cal Jillson.

C’è molto di personale nell’astio di Axelrod verso Hillary, tipico di un’amicizia finita, finita male. Sembrava che le cattiverie della campagna elettorale del 2008 fossero alle spalle, specie dopo che Axelrod aveva lasciato la Casa Bianca nel 2011 (per poi guidare la campagna per la rielezione di Obama nel 2012) e anche Hillary si era dimessa alla fine del primo mandato. Va detto che David non la voleva segretario di stato, considerandola un a figura che non unisce. Poi Hillary aveva partecipato nel 2013 a un evento molto importante per Axelrod, parlando come keynote speaker all’assemblea annuale di Citizens United for Research in Epilepsy, un’organizzazione che lavora nella ricerca sull’epilessia fondata da David e Susan Axelrod, genitori di una figlia epilettica.

Ed ecco lo scorso agosto la rottura si fa evidente, quando Hillary Clinton prende le distanze da Barack Obama deridendo la battuta del presidente usata per spiegare la sua riluttanza a usare la forza militare nei conflitti, “non fare stupidaggini” (“don’t do stupid stuff “). “Le grandi nazioni – disse in un’intervista a The Atlantic – hanno bisogno di principi organizzativi, e don’t do stupid stuff non è un principio organizzativo”.

Axelrod rispose piccato su Twitter: “Tanto per essere chiari don’t do stupid stuff significa non fare cose come occupare l’Iraq , che fu una decisione tragicamente cattiva”. Hillary votò a favore dell’invasione nel 2002.

Da allora le punture si sono intensificate e ripetute. Considerando la stretta amicizia tra David e Barack, c’è da chiedersi se anche su questo i due si trovino in sintonia.

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