mercoledì 11 dicembre 2024

ESTREMISMO DI CENTRO. DIBATTITO APERTO. MARATTIN L., Essere alternativi a destra e sinistra non vuol dire essere «estremisti di centro», DOMANI, 9.12.2024

 u Domani dell’8 dicembre, Marco Damilano ha fatto una riflessione (Gli estremisti di centro aiutano il sovranismo) nella quale mi ha rivolto giudizi molto netti quale «fazioso» e «settario».


Non mi interessa discutere questo. Non solo ha, lapalissianamente, diritto a qualsiasi opinione sul sottoscritto, ma soprattutto il ragionamento politico mi interessa molto di più che discutere sulla mia persona.

Egli però bolla come «estremista di centro» – che «esclude, non include», che «usa la clava contro gli avversari», che «vuole imporre agli altri i suoi valori» – chiunque porti avanti un posizionamento politico diverso dall’attuale segmento destra-sinistra. È tuttavia davvero singolare che tale accusa venga rivolta ai “centristi” e non invece ai due schieramenti contrapposti, che nell’arco degli ultimi anni hanno trasformato la contesa politica in una rissa tra curve ultrà piuttosto che un luogo aperto di inclusione e ragionamento. O forse i pacati incitamenti di Maurizio Landini (coccolato da Elly Schlein e Giuseppe Conte) alla «rivolta sociale», o la gara a raggiungere l’elettore estremista tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno vinto il premio “Inclusione 2024”? O le reciproche accuse di «fascismo» o di contiguità con chi picchia i poliziotti sono forse pacati ragionamenti, invece che clave, usate contro gli avversari?

Chi rappresenta il centro?

Damilano può pensare ciò che ritiene sugli interpreti specifici che nel recente passato hanno provato a incarnare una posizione cosiddetta “centrista”. E in alcuni casi potremmo persino concordare. Penso tuttavia che il suo giudizio sprezzante sia invece figlio di una convinzione politica: quella secondo cui non esiste possibilità di rappresentanza politica al di fuori dei due schieramenti di destra e sinistra. Lo dice chiaramente alla fine del suo articolo, quando incita il Partito democratico – e non certo i settari e faziosi centristi – a farsi rappresentante del centro del corpo sociale di questo paese.

Rimane da spiegare come possa il Partito democratico svolgere questo compito mentre sogna la patrimoniale, raccoglie le firme per abolire il Jobs act, manda in Europa parlamentari anti-Nato, coccola il M5s con le sue pulsioni giustizialiste, sostiene l’ambientalismo ideologico, si oppone strenuamente al nucleare e a ogni forma di meritocrazia nei servizi pubblici. Ragionamento del tutto speculare si può fare per lo schieramento di centrodestra: come può rappresentare il centro del corpo sociale partendo da posizioni politiche sovraniste, anti-europee e anti-mercato?

Una posizione liberal-democratica

Io penso che solo una posizione politica autonoma da due poli, e di marcata impronta culturale liberal-democratica, possa dare rappresentanza a quel pezzo di paese che oggi si rifugia nell’astensionismo o che ancora si culla nell’illusione di poter, votando candidati “moderati”, temperare i populismi sindacali o sovranisti.

Una posizione politica che abbia il coraggio di sostenere che in Italia lo stato ha rappresentato il problema più spesso di quanto abbia rappresentato la soluzione, e che serva una massiccia opera di riduzione del suo perimetro finalizzata a una riduzione-shock della pressione fiscale. Un paese in cui chi guadagna 2.450 euro al mese si vede applicata la stessa aliquota che, passato il confine italiano, vige sui milionari è la naturale conseguenza di un paese in cui nessuno più è in grado di fermare il treno impazzito della spesa pubblica e dell’espansione dello stato.

Una posizione politica liberal-democratica che sappia introdurre una rivoluzione concorrenziale in tutti gli ambiti: dagli accreditamenti sanitari ai servizi pubblici, dalle concessioni al commercio passando per le professioni e i taxi. Una posizione politica in grado di aggredire il problema numero degli italiani (gli stipendi bassi) non con il populismo del salario minimo e dei bonus Natale, ma con una terapia-shock sulla produttività, la cui mancata crescita da mezzo secolo è responsabile di quello che nel mio libro La missione possibile (Rubbettino) ho definito «il problema italiano»: quello di essere il paese che dall’inizio della globalizzazione è cresciuto di meno al mondo, con l’esclusione di alcuni isolotti oceanici.

Io non credo che sostenere tutto questo, e farlo con la necessaria chiarezza, equivalga a essere «fazioso» e «settario», come sostiene Damilano. Penso invece che sia l’unico modo per evitare all’Italia di proseguire il suo declino. Alle prossime elezioni politiche, i liberal-democratici devono abbandonare l’illusione di temperare i populismi di questo paese, e avere il coraggio di presentarsi insieme di fronte agli italiani.


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