mercoledì 28 febbraio 2024

IL DIBATTITO SUL PRESIDENZIALISMO. ORSINA G., Al nostro presidenzialismo serve una lezione francese, LA STAMPA, 22.02.2024

 Quando si ragiona di Costituzione, «Non bisogna mai temere l’ambiguità. Essa può avere dei vantaggi», confidò il Generale De Gaulle a uno dei suoi più stretti collaboratori, Alain Peyrefitte, nel 1962. Figlio del diciannovesimo secolo, forgiato nella prima metà del Novecento da due guerre mondiali e dall’era delle tirannie, De Gaulle aveva un senso assai vivo del potere, della storia e della sua natura tragica. E non poteva fare a meno di pensare che le costruzioni giuridiche avessero un valore tutto sommato limitato. Piuttosto che pretendere di scrivere una Costituzione perfetta bisognava allora cercare di erigere una struttura flessibile. Sufficientemente ambigua, appunto, da lasciare la politica libera di affrontare la storia.


Era su queste basi che, nel 1958, il Generale aveva fondato la Quinta Repubblica francese. Le cui peripezie e metamorfosi, lungo tutti i suoi sessantasei anni di vita, ci sono raccontate adesso da Michele Marchi in Presidenzialismo a metà. Modello francese, passione italiana (il Mulino, 2023). A dispetto del titolo, il libro è tutto sul modello francese e quasi per niente sulla passione italiana. Ma poiché proprio in questi mesi da noi stiamo assistendo all’ennesima puntata dell’ormai quarantennale telenovela “Riforma costituzionale”, e poiché il modello francese è stato il protagonista di innumerevoli puntate precedenti, l’intelligente biografia politica e istituzionale della cugina d’Oltralpe che Marchi ci propone può comunque rappresentare una lettura assai istruttiva anche per noi.

Proprio perché incardinata sulla centralità della politica, la Quinta Repubblica ha funzionato ragionevolmente bene fin quando ha funzionato ragionevolmente bene la politica. L’ambiguità della quale parlava De Gaulle – il rapporto elastico e negoziabile fra presidente della Repubblica e presidente del Consiglio, fra dimensione presidenziale e dimensione parlamentare, che Marchi segue con attenzione nelle sue diverse incarnazioni storiche – l’ha servita bene. Le ha consentito di sopravvivere alla crisi politica e costituzionale del 1962 e di assorbire l’introduzione dell’elezione diretta del presidente della Repubblica; di reggere l’urto del 1968 e gestire l’uscita di scena del fondatore carismatico, l’anno successivo; di consolidarsi nel corso degli anni Settanta prendendo gradualmente le distanze dall’eredità politica gollista. La vittoria di François Mitterrand – l’uomo che nel 1964 aveva definito la Quinta Repubblica un «colpo di Stato permanente» – alle presidenziali del 1981, e poi la prima coabitazione fra un Capo dello Stato di una parte politica e un Presidente del consiglio della parte politica opposta, nel 1986, completano il quadro di un sistema istituzionale stabile ed efficiente, ma pure duttile abbastanza da assorbire gli urti della storia.

Nello stesso torno di tempo in cui la Quinta Repubblica si stabilizza, tuttavia, fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, la politica entra in una lunga fase di crisi destinata a prolungarsi fino ai nostri giorni. Una crisi di certo non soltanto francese, ma globale, che però in Francia si fa sentire ancora di più, forse proprio perché il sistema prevedeva che le ambiguità istituzionali dovessero esser sciolte politicamente. Il quarto e ultimo capitolo del libro di Marchi copre il periodo che dal 1986 arriva a oggi ed è, in effetti, il racconto di un declino. Come dimostrano in maniera particolarmente clamorosa i due mandati di Nicolas Sarkozy (2007-2012) e François Hollande (2012-2017). Presidenti che interpretano l’ambiguità della Quinta Repubblica in due maniere diametralmente opposte: il primo accentrando su di sé, il secondo allontanando da sé poteri, visibilità e responsabilità. E che finiscono però per essere entrambi ugualmente condannati da una Francia adirata e inquieta, che nel suo Presidente sembra cercare non più un risolutore di problemi, tanto meno una guida, ma un capro espiatorio per la propria infelicità. Proprio perché intesa a ridurre il tasso di ambiguità del sistema e a irrigidirlo per via normativa, rafforzandone la componente presidenzialistica, la riforma costituzionale del 2000 – l’elezione quasi concomitante del Capo dello Stato e del parlamento, entrambi per un lustro – poteva sembrare una risposta sensata ai processi di depoliticizzazione. Eppure, retrospettivamente, è difficile sostenere che abbia ben funzionato.

Che cosa può portarsi a casa un italiano del 2024, dopo aver letto la “biografia” della quinta repubblica scritta da Michele Marchi? Due lezioni, mi pare. La prima: il modello della quinta repubblica, che oggi ci appare in crisi nera, di per sé non è affatto male. Per almeno tre decenni, anzi, ha funzionato piuttosto bene. La seconda, che di fronte a una crisi della politica come quella che ha preso avvio negli anni Settanta l’ingegneria costituzionale può fare ben poco. E più in particolare, che irrigidire in misura eccessiva le istituzioni per rimediare alla debolezza della politica potrebbe non essere una buona idea. Resta insomma l’insegnamento gollista: l’ambiguità può avere dei vantaggi.

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