martedì 19 marzo 2024

POLITICA E VIOLENZA. UNA STORIA DELLE BRIGATE ROSSE. SUL SAGGIO DI S. LUZZATTO DOLORE E FURORE. PORSIA E., Lo storico della «Genova bene» e il rivoluzionario che viene dal popolo, CONTROPIANO,

 Dolore e furore. Un libro pesante, una zavorra di 773 pagine, un elevato assortimento di referenze, citazioni, incontri.

Una «storia delle Brigate rosse» ripercorsa, esaminata, osservata nei dettagli dalla «freddezza dello sguardo dello storico». Così promette l’autore.

Sergio Luzzatto, oggi insegnante di Storia moderna nel Connecticut, ritorna a Genova.



Sbirciare l’adolescenza di un fantasma

«A decenni di distanza ho voluto riattraversare la mia città con lo sguardo dello storico di mestiere».   

Non è nulla. Ritornare a Genova e raccontare le Brigate rosse attraverso la città che ne fu definita la «Capitale».

Ritracciare la storia di colui che ne fu il principale dirigente, Riccardo Dura.

Nome di battaglia Roberto, «la cui caduta sul campo, e in circostanze balistiche mai chiarite, lo ha consegnato alla leggenda aurea dei nostalgici» spiega lo storico, sfoggiando tutto il suo tatto già nel prologo della sua vasta opera.

Un’impresa che lui stesso definisce ‘una sfida’.

«La difficoltà di questa impresa storiografica mi hanno spinto a raccogliere la sfida. E a raccoglierla dietro motivazioni narrative, almeno altrettanto che dietro motivazioni archivistiche».

Un racconto che si intreccia con fonti storiche e per narrare nulla di meno che: la vita di un fantasma!    

«Come raccontare il fantasma di Riccardo Dura? Come disegnare il ritratto di un terrorista – e che terrorista: i compagni lo chiamavano Pol Pot -    senza potere contare su fonti che direttamente restituiscano qualcosa dell’animo suo, un sentimento, un’idea, un affetto?»

Lo storico si interroga, senza però neppure soffermarsi un solo istante sull’origine, tanto ripetuta da libri e stampa e nel corso degli anni, del soprannome attribuito a Roberto.

Un soprannome mai udito dai suoi compagni di lotta che lo scoprirono, stupiti, pubblicato su alcuni libri e giornali, dopo la sua morte.

Pol-Pot. Da dove viene?

Unicamente da alcune battute esibite da due collaboratori di giustizia.

Il professore Luzzatto non sempre dedica la dovuta diligenza alla verifica di malevoli, quanto impalpabili rumori. Ripete.

Tuttavia, esibisce fiero la sua collezione di documenti.

«Per fortuna abbondanti sono stati i rinvenimenti documentali che mi hanno permesso di intravvedere almeno il fantasma del terrorista prima del terrorista, Riccardo da giovane. E di sbirciare così, più che l’infanzia, l’adolescenza di un capo».

Raccontare un fantasma e sbirciarne l’adolescenza. Sbirciare.

Strano termine, soprattutto se accostato alla mole documentaria che tanto ipnotizza un lettore superficiale.

Strano termine, che però s’impone come evidenza non appena ci si addentra nelle fitte pagine dello «storico di mestiere» e si ci accorge che, sorprendentemente, abbandona, qui, ogni ormeggio metodologico per derivare nella palude astratta del soggettivo preconcetto.

L’autore mescola infatti, con destabilizzante disinvoltura, la ricostruzione dei fatti all’eco dei rumori.

Quanto alle testimonianze, le distilla senza mai perdere di vista il traguardo di partenza della sua tesi.

È` talmente violento e appariscente il suo pregiudizio, da vietargli ogni distacco:

«Il semplice fatto che una persona come Dura ne sia stato il capo attesta – almeno ai miei occhi – i limiti storici della colonna genovese delle BR (…) In fin dei conti un gruppo povero sia di effettivi, sia d’intelligenza».   

La sentenza appare già nell’introduzione. Senza appello.

A che cosa serve l’enorme raccolta documentale e testimoniale?

Impressionante. O meglio, sconcertante, quando si realizza il vero scopo al quale è stata destinata.

Un «pugno di spietati assassini» usciti dalle periferie umane

Sbriciare, spiare, guardare di nascosto e compiacersi in questo voyeurismo fino a scriverne un romanzo, poiché così si chiama.

Un romanzo dalla filosofia classista affermata.

Un elitismo sventolato come pregio e che distribuisce l’attributo di intelligente o di mediocre, talora in base al solo fatto che uno abbia o meno studiato il latino.

Un’addizione di sentenze, una cascata di disprezzo verso chi, in definitiva, non viene dalla Genova residenziale di Albaro [“i Parioli di Genova”, ndrcome il signor Luzzatto, che non manca un’occasione per sottolinearlo, ma dai sobborghi popolari della Valpolcevera.

Luoghi lontani e sconosciuti per un rampollo del liceo classico Andrea D’Oria, dove si concentra il fior fiore della «Genova bene» ed è con una punta di fierezza, perforante, che il nostro autore tiene proprio a farcelo sapere: io vengo da qui.

Un libro che si vuole ricerca e Storia, mentre è inflazionato da personali considerazioni, ma che dico: da sentenze assolute, dove gli ex militanti rivoluzionari vengono ormai additati, neppure più come terroristi, bensì proprio come «carnefici».

Dei «carnefici» usciti da un magma «di periferie umane»,    rafforza Luzzatto.

«Nella città capitale della grande industria pubblica, dove un’avanguardia marxista-leninista aveva lungamente sperato di conquistare il consenso della classe operaia per realizzare infine la rivoluzione comunista, i pochi regolari della colonna genovese delle Brigate Rosse non erano più altro che questo: un pugno di spietati assassini».    

Per fortuna che nelle prime pagine del libro l’autore ha l’accortezza di puntualizzare: «Lo storico – si sa – non è un giudice».

Un pugno di spietati assassini, delle scorie di «periferie umane» talmente ignoranti da non essere neppure in grado di riuscire a partorire dei documenti interni senza l’ausilio di un qualche intellettuale che… sappia almeno scrivere.

Questo l’enunciato, questa l’intima convinzione del signor Luzzatto che avanza così sorretto da due inamovibili stampelle.

Una è la marginalità dei miserabili brigatisti, gente già oltre ogni confine di ogni società. Irrecuperabili.

L’altra, è la certezza che, qualsiasi cosa avessero mai fatto, questo branco di sotto-pezzenti, di lumpen, al di là di riuscire a commettere atti violenti non sarebbero stati capaci di immaginare nulla di più.

Obbligati dunque dalla loro ignoranza, avevano l’imperiosa necessità, per riuscire a diffondere dei semplici testi, dei pensieri, delle idee, di attingere alla farina del sacco d’altri.

Dei cervelli veri. Colti, raffinati, accademici, universitari.

I soliti cattivi maestri.

Un dogma assoluto che il nostro storico, contraddetto sia dai fatti che dai testimoni e dai protagonisti, si ostina in ogni modo ad affermare.

«Sia come sia, a me pare che»

Giudicate voi stessi: «Con Micaletto ho parlato anche della Risoluzione strategica delle BR datata febbraio 1978… Gli ho spiegato come mi sembrasse riconoscere in certi passi del documento, le spie ideologiche e linguistiche di un intervento di Senzani».

Basta una sola «spia ideologica» e Luzzatto s’illumina.

Giovanni Senzani è un professore, un criminologo, una persona colta, mica un immigrato del Sud scaraventato a lavorare come operaio nelle officine torinesi.

«Micaletto mi ha fatto notare di come i brigatisti rossi non avessero bisogno di un professore universitario per denunciare gli esiti perversi della strategia differenziata» nelle carceri.   

Una risposta chiara da parte di chi fu membro dell’Esecutivo delle Brigate Rosse. Se non lo sa lui…

Eppure, la tranquilla evidenza, esposta dall’ex dirigente delle Brigate rosse, non soddisfa lo storico che non riesce a uscire dal suo ossessivo paradigma: Solo gli intellettuali, gli accademici, «les élites», possiedono la competenza necessaria per esprimersi, per scrivere e elaborare testi, analisi, programmi.

Un impiegato massa, un operaio d’altoforno, un marinaio, un disoccupato… senza l’ausilio dei «maîtres à penser», nascosti dietro una cattedra, proprio come il nostro professore Luzzatto, sarebbero solo muti muscoli che, privi di ogni cervello, non riuscirebbero neppure a immaginare un volantino.

Questa la visione del mondo, ben esclusiva, dell’insegnante di Storia moderna che viene da Albaro. Ed è cosi che, quando si ritrova confrontato al naufragio di una sua ipotesi, inconsistente al confronto dei fatti e smentita dagli stessi protagonisti, dagli stessi attori, testardo, psico-rigido, insiste.

«Sia come sia, a me pare che almeno alcune pagine della risoluzione strategica corrispondano alla mano di Senzani».

Se lo dice lui…

Un «sia come sia» e un  «a me pare che», sono divenuti un argomento per scrivere la Storia.

La prepotenza di un asinus in cathedra, ubriaco di saccente supponenza, sarebbe un argomento sufficiente per censurare ogni principio deontologico?

Per sottolineare ulteriormente la sua teoria, neppure originale, sui «cattivi maestri», il professore di Albaro giunge fino a scrivere:

«Se – arrivato al bivio – Riccardo Dura imboccò la strada della lotta armata, una quota di responsabilità va attribuita al maestro dei ’tutti’ di via Balbi: Gianfranco Faina. Va attribuita al professore di storia dei partiti politici…»

Va attribuita, ma da chi? E quale quota di responsabilità, come la si misura? Su quali basi, su quali argomenti, secondo quali criteri?

Il ritornello dei “cattivi maestri” si ripete all’infinito.

«Almeno in relazione al contesto genovese, mi sento ormai di affermare: A Genova intorno a un chirurgo come Sergio Adamoli, a uno storico come Gianfranco Faina, a un filologo come Enrico Fenzi, le parole sono diventate pietre».

E una volta terminato questo slancio lirico, quali sono i fatti che esibisce lo storico per illustrarci questa metamorfosi; parole diventate pietre e poi raccolte, trasformate a loro volta in piombo e sparate da «un pugno di spietati assassini». «Un gruppo povero sia di effettivi che di intelligenza», ma, visibilmente, talmente facilmente impressionabile da farsi soggiogare dal verbo di tre professori.

Dove sono gli argomenti che puntellano questa teoria, o più precisamente, questa certezza assoluta?

«In quel marinaio ( Riccardo Dura) così fondamentalmente diverso dai suoi allievi di Lettere – meno colto, meno sciolto, meno integrato…il professor Faina deve avere riconosciuto una risorsa preziosa

«Deve avere». Non c’è lo spazio neppure per il minimo spiraglio di un dubbio. L’astratto è sempre infallibile.   

Gli occhiali di Frankenstein

Luzzatto non riesce proprio a concepire la storia della sinistra rivoluzionaria genovese, delle B.R., senza separarsi dalle lenti deformanti del film di Frankenstein. Una creatura mostruosa, nata dal cervello di uno scienziato pazzo, che però si ribella al suo creatore, affrancandosi da ogni principio per diventare unicamente… «un carnefice».

Peccato che l’ispirazione dello storico dovrebbe essere la ricerca dei fatti. La verifica delle informazioni. L’astinenza dal cliché, dal preconcetto.

Tutte qualità che disertano, pagina dopo pagina, il compiaciuto esercizio d’edonismo letterario che ci offre Luzzatto.

È infatti così difficile immaginare il percorso di un giovane rivoluzionario che, trovando nel collettivo spontaneamente aggregato all’università intorno a Gianfranco Faina, non ideologicamente dogmatico, dove riesce a convivere un dibattito fra ex emme-elle di Viva il Comunismo, ex di Lotta continua in rotta dopo la mancata solidarietà del gruppo ai militanti della XXII ottobre, resti di Potere Operaio, anarchici e futuri «autonomi»… è così difficile immaginare che «la risorsa preziosa», per Roberto, non fosse invece proprio questa?

Questo punto di riferimento collettivo, questa boccata d’ossigeno nel deserto genovese e che proprio per questo, il giovane rivoluzionario si sia avvicinato a questa fertile realtà, così rara, unica nella ristretta quanto timorosa estrema sinistra cittadina?

Ma come potrebbe mai giungere a tale evidente conclusione il nostro saccente professore d’Albaro che vive la storia delle Brigate rosse come una perpetua manipolazione da parte di colte, ma impazzite élites in cerca di ignorante materia umana da utilizzare?

Alla caccia di   un cervello «culturalmente attrezzato»

Durante il sequestro Moro, ci racconta Luzzatto, «Moretti, che faceva la spola da Roma» si riuniva con gli altri «membri dell’Esecutivo, Micaletto, Azzolini e Bonisoli». Fino qui è Storia. Osserviamo ora in diretta come, l’improvvisa apparizione di un «forse» ci catapulta, senza alcun concreto sostegno possibile, nella nebbia della fantasia.

«Forse un qualche altro brigatista regolare o irregolare si sarebbe aggiunto al gruppo poiché culturalmente più attrezzato di loro per impiegare al meglio i materiali elaborati nel carcere del popolo.»

Metodico, lo storico non demorde. Gli basta un «forse» – e un «si sarebbe» e come un disco rigato il ritornello riparte.

Non appena Luzzatto si accorge che nel suo casting la presenza di un accademico, di un intellettuale, di un cervello «culturalmente attrezzato» non è visibile, almeno in filigrana, si blocca e incredulo la cerca disperatamente.

Non la trova? La suggerisce lo stesso.   

La prova che l’ottusità non sia solo un sintomo di scarsa erudizione l’abbiamo sotto gli occhi.

La diagnosi della psichiatra… a 50 anni di distanza!

Questo elitismo di casta non si limita solo a sottolineare la carenza «d’attrezzatura culturale», ma dilaga per ricoprire, nel caso di Roberto, l’intera superficie della sua descrizione.   

Ecco infatti che si moltiplicano gli interventi per veicolare un’immagine che, nel suo complesso, raggiunge la parodia di un’addizione di difetti.

«Era un gregario, non l’ho mai sentito parlare», ricorda un vecchio di Lotta continua; e un altro «era represso e composto… ovviamente, non avendo un background di… scuola, di lettere, si esprimeva in modo assolutamente buono e corretto, ma, come dire?, non elaborava».

Non «elaborava» e…«ovviamente».

Che dire d’altro?

Il libro non fa neppure l’economia di una diagnosi psicoanalitica stabilita, a 50 anni di distanza, da una ex militante di Lotta continua, all’epoca giovane psichiatra e oggi membro del Violence Committee della international Psychoanalytic Association. Mica nulla, perbacco!

«Fu un periodo breve, non avrei mai voluto che Bruno (il suo compagno all’epoca) lo portasse in casa. Era ed è rimasto un ricordo scomodo. Mi sembrava ottuso e ostile.»

I ricordi della neolaureata, che ha vissuto visibilmente il brivido della moda rivoluzionaria facendo un breve passaggio a Lotta continua, che ha fatto medicina, che è giovane psichiatra, che viaggia fra Ferrara e Genova dove ritrova il suo compagno, medico anche lui, e che prova però, ancora oggi, il bisogno di manifestare il suo incondizionato rigetto al contatto di un ospite che… veniva dal popolo.

Le ragioni che la animano sono talmente profonde e generose da lasciare di stucco:   

«Ero molto centrata sulle mie problematiche e non avevo interesse per qualcuno che mi sembrava così spiacevole pur nel suo silenzio

Riconosciamo senza dubbio la vocazione umanista della giovane dottoressa in psichiatria. La sua spontanea disponibilità verso il prossimo salta agli occhi.

Ma non illudiamoci, malgrado la superficialità sprezzante per quell’amico del suo compagno, per cui lei non nutriva alcun interesse, la dottoressa non rinuncia alla sua diagnosi. Una vera professionista.

«In queste mie sensazioni di allora mi pare, oggi, che si ripetesse un’esperienza di rifiuto ed umiliazione che deve avere accompagnato Riccardo Dura per tutta la vita. Oggi, nel mondo della psicoanalisi riconosciamo in queste esperienze le radici della violenza ed in particolare modo della violenza terroristica.» Caspita!

Un «assoluto bisogno di carnefici»

Come non meravigliarsi di un’osservazione specialistica così penetrante, quando, appena qualche riga sopra, leggiamo l’inizio del suo contributo alla ricerca storica di Luzzatto. Comincia così: «Subito ho pensato di risponderle che non posso aiutarla perché, allora, era il 1973, non avevo conosciuto veramente Riccardo Dura.»

Non lo ha conosciuto, neppure «veramente»,    e però non esita a giudicarlo. Nascosta dietro la parodia di uno scandaglio psicologico, riconosce addirittura in lui le radici della violenza.

Terroristica, of course!

Un abbagliante miscuglio fatto d’egoismo, di superficialità e perfida presunzione trasmettono la sostanza di questo narcisista personaggio, travestito adesso da psichiatra.

Il professor Luzzatto esulta:    «Ecco dunque l’immagine di Dura che una giovane donna, oltreché giovane psichiatra, avrebbe conservato in memoria».

Poi, il narratore ripete «un ragazzo ottuso e ostile» e, aggiunge … «dal viso quasi di pietra».

Il quadro che ne esce potrebbe figurare in un’esposizione dei lavori di Lombroso, accompagnato dal commento del nostro storico: «Roberto avrebbe aderito sempre più esattamente al cliché psicologico e sociologico del perdente radicale come serial killer politico».

E qui siamo proprio ridotti al cliché, immediatamente sfruttato per servire da impalcatura a un irreversibile giudizio: «A misura che le B.R. di Mario Moretti andranno perdendo ogni residua ambizione politica, per non esistere altrimenti che da organizzazione militare, proprio di capi come ‘Roberto’ sentiranno assoluto bisogno. Più che di teste pensanti, di braccia armate. Più che di agitatori, di carnefici.»

Luzzatto spoglia così la storia delle Brigate rosse di ogni attributo politico, per designare l’organizzazione rivoluzionaria come una indefinita macchina militare, una catena di produzione di … «carnefici».

Una maligna cecità dogmatica si impossessa del racconto.

Un giudizio che diventa leitmotiv e che, sorretto dalla sola ragione dell’inerzia, ripete, senza sosta: «Erano solo un pugno di spietati assassini.»   

Droga e sesso

Bisogna ben ammettere che un’ indagine storica così approfondita non possa certo conoscere frontiere per un ricercatore così appassionato nello… sbirciare:   

«Io non mi ricordo di una storia affettiva, o sessuale, sua, nel momento di Lotta continua. Dura era uno che non aveva la fidanzatina», racconta un ex leader allo storico che non dissimula minimamente il suo interesse per l’argomento :

«Tanto poco era il tipo da averla ( la fidanzatina) che neppure i tentativi degli amici di procuragliela poterono mai andare a buon fine», racconta rallegrato Luzzatto.

Riproduce addirittura una testimonianza, rigorosamente anonima:  «All’epoca capitava di chiedere alle compagne di ‘sacrificarsi’ per i compagni…Per amicizia con Riccardo Dura… chiesi a diverse compagne di andare a letto con lui, senza riuscirci».

Riassumiamo: una «faccia di pietra», un «serial killer politico», «un perdente radicale» che stimola solo totale rigetto da parte delle donne.

Brutto, cattivo e sfigato.

Oltre ad essere incapace di «elaborare», «ovviamente».

Ma non è ancora tutto. Manca ancora un elemento, davvero essenziale, per terminare questo affresco ricco di soli elogi.

E qui, grazie alle facoltà rigorose del nostro meticoloso ricercatore, accediamo all’universo della «possibilità» e della «probabilità». Addirittura delle due insieme e nella stessa frase!

«E’ possibile (o probabile) che in quel periodo Dura sia stato un consumatore di… stupefacenti».

La droga! Non dimentichiamo la droga. Deve ben fare la sua apparizione, accipicchia!

«Soltanto fumo?», si domanda lo storico.   

«Probabilmente roba più pesante». Si risponde, sempre da solo.

E… su quali elementi motiva questo suo «probabilmente»?

Sul solo fatto che all’epoca in cui Roberto abitava in Valpolcevera, secondo la testimonianza di un farmacista della zona, sarebbe esistito un giro di sostanze oppiacee, regolarmente prescritte da medici compiacenti a «militanti dell’ultrasinistra».

E che c’entrava Roberto?

Ascoltiamo la risposta, precisa, che ci fornisce lo storico:

«Può ben essere che Dura fosse entrato in questo giro».   

Il metodo è invariabile. «Può ben essere…».

A un certo punto l’ipotesi, la suggestione dell’autore, il suo desiderio di aggiungere «anche drogato» al ritratto che sta già tracciando, diviene irresistibile.

Come irresistibile sembra anche essere la curiosità per il rapporto col sesso anzi, più precisamente per i rapporti sessuali, veri, presunti o immaginati che vengono schizzati qua é là all’interno dell’opera di Luzzatto.

«Come si comportava Roberto da capo con una ragazza giovane e attraente?»

Lo storico pone la domanda a una ex militante della colonna genovese.

«Corretto, correttissimo. Senza neppure l’ombra di sottintesi. Tranne una volta a casa di lei», scrive l’autore, prima di citarla:

«Sono entrata per svegliarlo, e quello è stato l’unico momento in cui…» Il virgolettato si interrompe con tre puntini di sospensione. Poi il narratore continua.

«L’unico momento in cui lei abbia percepito fra loro una punta di disagio» e conclude… «La difficoltà di un vissuto non detto».

I fantasmi del professor Luzzatto non conoscono alcun freno.

Una lezione di deontologia all’interno di un interesse storico evidente.

Quando l’autore del libro (quasi) si vergogna

Non possiamo certo dire che non ci avesse prevenuto e fin dall’inizio della sua impresa, della sua sfida: «Raccontare un fantasma e sbirciarne l’adolescenza».

Esiste almeno un punto, in questo sterminato susseguirsi di pagine in cui l’autore sente il bisogno di scrivere la propria «quasi vergogna».

Vergogna, la parola viene pronunciata, almeno nell’epilogo.

Quando, sulla base dei soli rumori, sorretti dal poco e dal niente, provenienti dalla stessa fonte – il farmacista della Valpolcevera – quello che già serviva all’autore per alimentare il fantasma di un Roberto come possibile ex consumatore di «sostanze oppiacee», ecco che adesso, lo stesso farmacista, si avventura, ancora, in un inedito racconto. Ancora una volta, senza appoggiarsi ad alcuna sponda concreta, un rumore novello irrompe.

La nascita di una figlia di Roberto a qualche mese di distanza dalla sua morte nella strage di via Fracchia. Una bambina, che sarebbe nata da una relazione segreta, poiché la sua compagna all’epoca, anche lei militante delle Brigate rosse, non era incinta.

Su quali fondamenta si basa lo storico per illustrare questa notizia degna di un giornale scandalistico?

Su una sola testimonianza. Quella dello ‘speziale’.

Nell’autunno del 1980, qualche mese dopo strage del 28 marzo, il farmacista avrebbe ricevuto la visita, più che discreta, della madre di Roberto che, a «tu per tu», in assenza assoluta di testimoni, gli avrebbe chiesto aiuto per trovare un prete. Un prete disponibile a battezzare una bambina… misteriosa.

Certo che, chiedere aiuto a un farmacista per trovare un prete… bisogna proprio arrivarci!

Se mettiamo da parte il solito farmacista, unico testimone di un incontro, «a tu per tu» con una persona che oggi non è più, su quali altre fonti si basa Luzzatto?

Voci. «Che circolano, fra Murta e Bolzaneto…sono voci… non so se siano vere».     

E perché non verificare, precisamente, prima di riportarle tali e quali?

A dire il vero, il professor Luzzatto ci ha provato.

Sbirciare nell’intimità delle persone è cosa che gli piace.

«Per qualche tempo sono stato determinato a cercarla»,    scrive.

Spiega anche il percorso che «avrebbe», notiamo il condizionale di circostanza, intrapreso per giungere a tal fine.

«Muovendo dai registri della parrocchia se mai fossi riuscito a consultarli; supponendo che la neonata non fosse stata registrata sotto il cognome di Dura, e contando di lavorare – per identificarla- sui nomi e cognomi della madre, del padrino, della madrina. Per qualche tempo ho coltivato questa idea di cui adesso quasi mi vergogno».

Una «quasi vergogna» dovuta, forse, unicamente al fatto che le ricerche che «avrebbe intrapreso», manteniamo il condizionale che non si sa mai… non lo avrebbero però condotto ad alcun risultato, ci permettiamo d’aggiungere.

Infine, una sola domanda ci rimane sulla punta della lingua:   ma di che cosa non si vergogna, almeno quasi, il professor Luzzatto?

I rumori, gli schiamazzi, il vociare, i facili giudizi, le leggende, gli informatori anonimi, le allusioni, nutrono questo lungo romanzo.

Un romanzo che appare, spesso, come il frutto dell’eccitazione di un gazzettiere, anziché di una ricerca minuziosa guidata dallo «sguardo freddo dello storico».

Il resto è solo sfoggio di un’enorme mole di fonti per incantare gli occhi del lettore distratto.

Che si focalizzi a osservare il dito, distogliendo per sempre l’attenzione dalla luna.

Questo il senso dell’impresa. Pardon, della ‘sfida’.

 * ex militante della colonna genovese delle Brigate rosse. Genova, novembre 2023

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Una volta ho letto un articolo, mi pare su Iskrae, che parlava della psicopatologia delle BR come “sindrome di Fetonte”. Si spiegava che la violenza sarebbe stata determinata da una profonda vergogna e dal tentativo di sublimarla in modo eroico ma autodistruttivo. Non so che dire, però il testo mi colpì. Io non ho ancora letto il libro di Luzzatto, e ho sentito pareri discordanti. Qui si dice che giudica senza comprendere : ma come si fa a comprendere un’esperienza che non si è vissuta, soprattutto se si viene da una classe sociale diversa? Non è mica così semplice. Quanto alla classe sociale, io capisco benissimo che Luzzatto si trovi a suo agio con Fenzi, Faina, Senzani e co., e non sappia che pesci prendere con uno come Dura. D’altronde, chi era Dura? Non ci ha lasciato niente di scritto; non c’è neanche un atto processuale che riporti una dichiarazione, un comportamento che parli del personaggio. C’è qualcosetta nel Progetto Memoria, però anche io, leggendo lì, avevo l’idea che fosse mezzo psicopatico. Se questo è sbagliato, l’unica cosa è che scriva di lui chi l’ha conosciuto, altrimenti l’alternativa è fra l’essere ricordato male e lo scomparire dal ricordo. Per quel che riguarda il comprendere l’esperienza, mi pare che si rimproveri a Luzzatto di non capire che, al di là della scelta razionale (fatica della fabbrica etc) , c’era un livello più profondo, una tensione morale (gli sciocchi inorridiranno per il termine) che va di per sé rispettata, mentre lui avrebbe trattato la questione come un soggetto di studio qualsiasi. Può darsi che sia in buona fede : se non l’ha mai provata, non sa cosa sia. Una volta mi è capitato di chiedere a qualcuno di spiegarmela, e di dirmi cosa ne pensava della storia del complesso di Fetonte. Liquidato questo come enorme cazzata, sul resto mi disse : “guarda, non so come dire. Le scelte estreme ti scelgono, non si fanno scegliere”. Mi sembra detto benissimo. Se lo storico non è mai stato scelto, gli siano concesse piene attenuanti.


EROS BARONE

E’ vero che, come diceva Marc Bloch, un grande storico del ‘900, “lo storico è come l’orco delle favole, va là dove sente odore di carne umana”, ma Sergio Luzzatto, a furia di scrivere biografie (fra queste quella, veramente indimenticabile, di Padre Pio…), si è talmente ingozzato di quel cibo, da farne indigestione. Il risultato è un tomo di quasi 800 pagine, del quale, tenuto conto dei puntuali rilievi mossi da Enrico Porsia alla base documentale e testimoniale della ricostruzione e alla rielaborazione romanzesca, decettiva e fallace, cui quella base mette capo, il meno che si possa dire è, secondo un famoso adagio, che “mega biblìon mega kakòn” (un grosso libro un grande male). La tesi sostenuta dal narratore – essere state le BR un prodotto di alcuni professori universitari di via Balbi – è una mezza verità, che può piacere a quella frazione della borghesia intellettuale cui piace flirtare con i rivoluzionari (fino al carcere escluso), ma l’altra mezza verità, quella che qualitativamente è decisiva per l’interpretazione della genesi della lotta armata in Italia, ci dice che le radici più profonde delle BR vanno ricercate in una certa composizione di classe operaia e popolare, quindi non ad Albaro o in via Balbi, ma nella Valpolcevera delle grandi e piccole industrie, fra Sampierdarena, Cornigliano e Campi. Se l’autore di “Dolore e furore” (titolo programmaticamente romanzesco) proverà a visitare questi luoghi della Genova proletaria e industriale avrà modo di notare il grande numero di gabbiani che si affollano sul greto del torrente Polcevera e si nutrono di scarti. Ebbene, ricordando anche l’impietosa stroncatura fatta da un eminente critico e storico della letteratura, quale è stato Alberto Asor Rosa, di un “Atlante letterario” curato da Luzzatto in veste di factotum per l’Einaudi, il paragone che mi è venuto in mente è proprio quello con i netturbini alati e palmati. Per esprimerci in termini non metaforici, un intellettuale borghese della “zona grigia”, la cui appartenenza ad una sezione dominata della classe dominante (Bourdieu ‘docet’) fa di lui il classico prototipo di chi è amico del nemico (la classe or ora indicata) e nemico dell’amico (la classe di cui si finge “compagno di strada”).

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