mercoledì 7 agosto 2024

FILOSOFIA POLITICA. ABBANDONO DELLA DIALETTICA E PENSIERO DELLA DIFFERENZA. AZZARA' S. G., Dal rifiuto dell’universalità hegelomarxista alla frantumazione postmoderna delle identità Sputando troppo su Hegel si finisce prima o poi per sputare anche su Diotima, DIALETTICA FILOSOFICA, 3.08.2024

 Premessa 

In un’intervista rilasciata al giornale liberista-conservatore “Il Foglio”, la filosofa Adriana Cavarero – una delle maggiori teoriche italiane del femminismo della differenza sessuale – ha espresso di recente le sue preoccupazioni per gli sviluppi della «teoria del gender fluid» e per le rivendicazioni politiche maturate in seno alle «avanguardie lgbt»1. In questa composita «galassia», dice, è emersa via via una profonda «polemica» nei confronti del femminile e persino una volontà di censura «verso l’uso della parola donna». Nella «neolingua» che questo movimento va proponendo – con un’arroganza rafforzata dalla sintonia con le dinamiche linguistiche di stampo terroristico del “politicamente corretto” oggi dominante –, sarebbe «vietato dichiarare che i sessi sono due» e sarebbe vietato soprattutto – appunto – «l’uso della parola donna». La quale «non può essere detta né scritta», perché implicherebbe la cancellazione escludente, repressiva e genocidaria (non dissimile da quella operata dalla «destra», dai «conservatori» e dai «neocattolici») della sussistenza di una pluralità indefinita e cangiante di distinti orientamenti «intersex» e delle rispettive autopercezioni di genere, ciascuna con la propria legittimità e i propri diritti (in primo luogo il diritto alla genitorialità, tramite quella pratica che dai fautori viene chiamata “gestazione per altri” mentre dai detrattori è denigrata come “utero in affitto”).


Ecco, perciò, che queste frange «vogliono che non si dica che le donne partoriscono, ma che “le persone con utero” partoriscono», e così via. E si propongono di rompere, mediante i loro divieti morali, la «gabbia teorica» che sarebbe sottesa a quella visione binaria del mondo che si attarda a nominare i “maschi” e le “femmine” e della quale il femmminismo sarebbe appunto complice.

Nel respingere al mittente tali accuse, Cavarero scava nel significato filosofico di queste posizioni. Le quali non solo attesterebbero il proposito “consumeristico” e “ultracapitalistico”, da parte degli Lgbt, di trasformare in diritto ogni desiderio (anche momentaneo), ma costituiscono a suo avviso una vera e propria «operazione metafisica», in quanto a sua volta «fondata sulla cancellazione della realtà e della percezione», ossia sulla rimozione di una «fattualità» attestata anche dalla «scienza biologica»:

«il fatto… della differenza sessuale»; il fenomeno «per cui gli esseri umani, come gli altri animali, sono divisi in individui di sesso femminile e maschile»; il «funzionamento del genere umano e animale», contestato ora in nome di un’eccezione o di una serie di eccezioni elevate a «paradigma regolativo». Inoltre, Cavarero sottolinea il significato politico complessivo di questa operazione, rivendicando la battaglia di lunga durata per l’emancipazione femminile e i suoi meriti oggi messi in discussione: «dopo duecento anni di lotte delle donne per avere una soggettività politica femminista», dice, con questa mossa «si elimina il soggetto che ha compiuto questa rivoluzione». In nome dell’indeterminatezza soggettiva, tale operazione di «cancellazione del femminile», in realtà, «neutralizza la differenza sessuale» e cela dietro artifici linguistici come lo “schwa” una sostanziale vendetta del patriarcato, dato che questa desinenza cacofonica è «un neutro universale che è in verità maschile».

Sbaglia, in questo senso, chi anche dall’interno del movimento femminista si associa a queste posizioni: in apparenza avremmo qui «avanguardie sovversive» impegnate in discorsi «rivoluzionari» che mirano ad abbattere un ordine conservatore; di fatto, però, abbiamo «un rafforzamento del patriarcato», tramite una serie di interdetti concettuali e linguistici che «cancellano la storia del femminismo». Ecco che in ossequio al «principio individualista neoliberale moderno», che è «funzionale al mercato globale» e alla sua invasione di tutti i mondi della vita, la donna torna a essere una semplice “portatrice empirica di utero” e cioè di un «contenitore». Una sorta di “forno” animato che però «appartiene al padre», come una sorta di capitale biologico, e può pertanto essere affittato e sottomesso all’«industria della procreazione»; con una totale distruzione della soggettività della donna effettivamente gestante e partoriente e di quella del bambino o della bambina.

Si tratta per tanti aspetti di un vero e proprio “tradimento”, perché questa operazione viene messa in atto proprio da quei «movimenti delle minoranze sessuali» con i quali il femminismo è stato sinora alleato e che aveva aiutato a emergere, ad affermarsi contro i pregiudizi prevalenti e a ottenere visibilità e diritto di parola.

Non ho le competenze per entrare troppo nel merito dell’evoluzione del femminismo e dei complicati rapporti di continuità e rottura tra le sue diverse componenti, nonché di quelli tra le correnti femministe e le posizioni delle altre soggettività emerse più di recente sulla scena pubblica: il rischio dell’equivoco e di comportarsi come un elefante in una cristalleria – o come un teologo in munere alieno, per dirla meglio – è in questi casi sempre dietro l’angolo. Per questa ragione, senza esprimermi troppo nello specifico, vorrei sviluppare qui alcune considerazioni generalissime, le quali possono essere comunque utili perché valgono per una serie di fenomeni anche molto diversi ma che hanno tutti che fare con la rivendicazione delle identità di gruppo; fenomeni che hanno un effettivo rilievo filosofico in quanto chiamano in causa la contraddizione tra universalità e particolarità e la questione della produzione delle identità e del loro conflitto con le strutture sociali e con le dinamiche di subordinazione, dominio ed emancipazione, di misconoscimento e riconoscimento.

In questo senso, va detto che non si tratta affatto, qui, di una semplice competizione tra gruppi esclusi, i quali – gli ultimissimi contro gli ultimi o i penultimi e viceversa – provano a scavalcarsi a vicenda in una spirale competitiva infinita al fine conquistare la centralità nel dibattito pubblico a difesa dei propri interessi, ma di qualcosa di più profondo e significativo; qualcosa che ci parla di come siano cambiate le grandi categorie politiche e la loro percezione dal momento in cui il marxismo degli anni Settanta è esploso in mille direzioni. I tormenti di Cavarero e gli odierni rovelli del femminismo differenzialista mi sembrano condivisibili sul piano filosofico generale, perché il rischio è in effetti quello di obliterare per sempre anche questo momento fondamentale della lotta di classe, e cioè la lotta delle donne, nella frantumazione delle politiche postmoderne delle identità (le quali vengono distinte per essere poi erette a ipostasi metafisiche e/o naturalistiche, per quanto fluide queste vengano ritenute); e tuttavia mi sembra che questi tormenti – condivisi da un’altra importante esponente della medesima corrente, Luisa Muraro2 – non siano pienamente in grado di cogliere la genealogia del fenomeno, né tantomeno di ricostruirla in una chiave che sia critica ma anche autocritica.

 

§1. Svolta neoliberale ed esplosione del separatismo delle differenze 

Sintetizzando un discorso molto complesso e dando per scontata la contestualizzazione storica, si può dire che la lunga stagione postmoderna – che a mio avviso è tuttora in corso perché tuttora attivi sono i suoi fondamenti filosofici – abbia rappresentato una componente imprescindibile di quella controrivoluzione neoliberale che, dopo una lunga fase di ascesa dei movimenti di emancipazione, del socialismo e della democrazia moderna, dagli anni Ottanta del Novecento in avanti ha preso il comando “spirituale” della nostra epoca. La vittoria neoliberale, che ha coinciso con la riscossa delle classi dominanti, ha sconfitto infatti le classi e i gruppi subalterni sul terreno economico e su quello politico ma nondimeno su quello culturale. E lo ha fatto, in primo luogo, destrutturando le identità storiche e le forme di coscienza da questi costruite in un arco di conflitto che nasce con la Rivoluzione francese e arriva alle grandi rivoluzioni del Novecento, dopo averle a lungo delegittimate in quanto “olistiche” e “totalitarie” e dopo averle via via sostituite con l’esaltazione nietzscheana e poi heideggeriana – ma ripresa da Deleuze e da numerosi altri intellettuali gauchisti –, della “differenza” e del primato dell’individuo nella sua irripetibile singolarità3. Frantumando in tal modo i fronti e le alleanze dell’emancipazione e della democrazia moderna e facendo venir meno il presupposto stesso della capacità dei subalterni, e cioè dei più deboli, di manipolare i rapporti di forza: la faticosa unità da essi conseguita in un complicato processo di riconoscimento reciproco e di apprendimento.

L’impressione è però che in questa dinamica di separatismo e continua secessione delle soggettività, che ha assunto le forme di ciò che Gramsci chiamava «rivoluzione passiva» – e nella quale un notevole ruolo ha svolto la capacità dell’ideologia dominante di appropriarsi delle parole e dei concetti del fronte dei subalterni per “detournarle” (Debord), depotenziarle e renderle funzionali alla propria egemonia –, lo stesso movimento femminista novecentesco abbia finito per farsi trascinare e travolgere, assieme ad altri movimenti legati a istanze analoghe. Così che i suoi attuali travagli sono in parte anche la conseguenza di un errore teorico di fondo che oggi gli si ritorce contro.

L’evoluzione del femminismo da movimento emancipazionista che rivendicava l’eguaglianza delle donne a movimento che da un certo momento in avanti ha preso a sottolineare sempre più, invece, la loro differenza sessuale e a rovesciare in separazione programmaticamente perseguita l’antica subordinazione patriarcale – un’evoluzione nella quale Cavarero è stata ed è coinvolta in prima persona come una delle principali esponenti teoriche e militanti, proprio come Muraro –, tra i tanti meriti accumulati nell’individuare e nel denunciare non poche strutture di dominio reali, sia materiali che simboliche, si è via via caricata di una contraddizione di fondo. L’assolutizzazione metafisica della differenza e della haecceitas femminile in contrapposizione alle opposizioni dialettiche (in contrapposizione, cioè, agli antagonismi di classe: l’esser donna è politicamente più significativo di ogni altra contraddizione sociale e anche di quella tra subalterni e dominanti, dato che tra gli stessi subalterni vige il patriarcato) ha innescato una spirale di moltiplicazione nominalistica delle differenze stesse, che alla lunga ha reso pressoché impossibile qualsiasi discorso teorico di comprensione unitaria della realtà e delle sue linee di frattura ma anche qualsiasi discorso politico di costruzione di un progetto coerente di trasformazione del mondo. Una cosa è la sacrosanta contestazione dell’universalismo patriarcale in quanto si tratta di un universalismo fasullo, dato che l’emancipazione del proletario non sempre coincide con quella della proletaria; una cosa molto diversa e molto meno condivisibile è invece il rifiuto particolarista e simil-operaista4 di ogni idea di universalità in quanto tale, compresa l’idea di una universalità concreta come universalità costruita in un percorso condiviso dalle donne e dagli uomini in nome di comuni ideali politici e di emancipazione democratica nei quali rientri anche la comprensione e il superamento della subordinazione femminile. Proprio questo slittamento dall’universale al particolare, parallelo al passaggio dal paradigma dell'uguaglianza e dalla ricerca dell'emancipazione collettiva (attraverso il conflitto ed entro un movimento più vasto) a quello della differenza e poi dell’empowerment individuale caro al femminismo liberale oggi dilagante, ha in questo senso parecchio a che fare con le vicende dei nostri giorni.

È un’impostazione, questa, che viene tuttora e nonostante tutto rivendicata da Cavarero, con un’argomentazione che ribadisce tale e quale questo errore epistemologico e che è perciò tanto più significativa in quanto si dimostra incapace di riconoscerne le conseguenze divisive e persino autolesionistiche. Il movimento gender-fluid, dice, rivendica l’«“inclusione” come bene assoluto», mentre l’«esclusione» sarebbe «il male». E però la novità del femminismo differenzialista rispetto a quello del periodo precedente (il femminismo ancora in gran parte legato all’idea di eguaglianza, come in Rosa Luxemburg o persino in Simone de Beauvoir, ad esempio) va collocata esattamente nella contestazione del «concetto di inclusività». In effetti, «nella storia politica cui appartengo», continua, «il termine inclusione era assente, perché rimanda a una pretesa universalità».

Proprio questo è a mio avviso il cuore del problema, come ho cercato di dire: inclusione è sinonimo di eguaglianza ma per Cavarero eguaglianza è sinonimo di universalità e universalità è a sua volta sinonimo di «dominio» e di «volontà di dominio», come avviene in primo luogo con «la parola “uomo”: una parola che ha sempre preteso di valere come universale e di includere l’intero genere umano», inglobando e dunque neutralizzando e annientando la differenza femminile. Il femminismo post-egualitario, il femminismo che rifiuta la categoria di eguaglianza perché la ritiene repressiva, a queste «parole inclusive» ha inteso contrapporre programmaticamente, invece, «parole che sottolineano la differenza» e «la pluralità», ovvero «la parzialità reale delle donne che rivendicano un ordine simbolico e un immaginario per il loro sesso». In tal modo, però, simultaneamente all’emergere delle rivendicazioni di numerosi altri gruppi sociali e di altre minoranze, questa mossa ha istituito il paradigma che ha innescato una catena nominalistica di scissioni a catena; la cui conseguenza è, come si diceva, l’esplosione postmoderna delle identità e l’impossibilità di costruire qualsiasi discorso e piattaforma politica comune.

Il nominalismo e il relativismo dei movimenti attuali, insomma, è stato anticipato dal nominalismo promosso dallo stesso femminismo differenzialista che oggi ne paga le conseguenze. Così che si può dire, un po’ provocatoriamente, che sputando troppo su Hegel – il riferimento è al celebre libro di Carla Lonzi che ha dato avvio in Italia (e non solo) alla teoria della differenza sessuale5, anticipando posizioni che per altre vie sarebbero state elaborate anche da autrici come Luce Irigaray6 – si finisce prima o poi per sputare anche su Diotima (eponimo della soggettività femminile finalmente autocosciente e autonoma e ispiratrice della raccolta-manifesto che ha segnato l’attecchimento del femminismo differenzialista in Italia nonché della comunità militante che ad esso si è ispirata7). Temo, oltretutto, che non sia finita e che anche chi oggi è sulla cresta dell'onda, e cioè il movimento LGBTQ+, domani potrà essere messo in un angolo da nuove e ulteriori avanguardie del post-umano, le quali troveranno la strada ampiamente spianata non nel rivendicare le proprie differenze – cosa che può essere legittima e utile – ma nell’assolutizzarle. 

 

§2. Uguaglianza e differenza, universale e particolare: Losurdo

Per cercare di orientarci in questo ginepraio può essere d’aiuto, a questo punto, ricordare un vecchio intervento di Domenico Losurdo, poco conosciuto ma tra i più significativi del suo percorso teorico8. È un saggio del 1998 che è prodromico a testi più noti come La lotta di classe e Il marxismo occidentale e nel quale Losurdo rifletteva – con un magistrale esercizio di ragionamento dialettico e in uno dei suoi primi tentativi di abbozzare una ricostruzione del materialismo storico ridefinito come teoria generale del conflitto – proprio sulla contraddizione eguaglianza-differenza.

«Uguaglianza», «universalità» e dunque inclusione, spiegava Losurdo, erano state le parole d’ordine principali dei movimenti emancipazionisti e rivoluzionari sin dal 1789 come rivendicazione «dell’uguale dignità di ogni essere umano», mentre a contestare queste categorie in nome della storicità e della peculiarità di ogni situazione particolare, ossia della “differenza”, era stato nel medesimo periodo anzitutto il fronte reazionario insorto a difesa del particolarismo feudale (Burke, De Maistre). Nel corso del tempo, però, la situazione cambia radicalmente e fa emergere la complessità della contraddizione universale-particolare. Se già l’espansionismo napoleonico aveva messo in luce i rischi di un universalismo che sapeva farsi «aggressivo» nella sua pretesa di imporsi immediatamente sulla realtà e di affermare gli interessi francesi dopo averli ammantati degli ideali della Rivoluzione – così che, nella misura in cui è espressione di autodeterminazione dei popoli e delle nazioni, anche «la rivendicazione della peculiarità e differenza» poteva assumere «un significato progressivo» –, nella seconda metà del Novecento il quadro sembra ormai del tutto ribaltato. A un certo punto, ad esempio, nelle riflessioni che accompagnano il processo di decolonizzazione e nel movimento di emancipazione dei neri «la rivendicazione dell’égalité cede il posto… all’orgoglioso sbandieramento della gritude» e da quel momento, man mano che si prende consapevolezza della dialettica immanente all’illuminismo, lo stesso fenomeno può essere osservato per «tutti i gruppi a vario titolo passati attraverso la discriminazione e l’oppressione», come «le donne, i gay, le lesbiche».

Si tratta di un fenomeno generale, dunque, che secondo Losurdo ci fa capire come «il passaggio dalla rivendicazione dell’uguaglianza all’affermazione della propria differenza» sia «in primo luogo il sintomo del processo di radicalizzazione di un movimento di emancipazione». Un movimento, cioè, che a un certo punto rifiuta l’«autofobia», «la cooptazione» o le forme ipocrite di assimilazione imposte dai “bianchi” (o dai maschi) ed «esige il riconoscimento del gruppo oppresso o subalterno in quanto tale». Accentuando pertanto sino all’estremo la propria differenza – quella differenza sino a quel momento deplorata dai dominatori come lo stigma di un’inferiorità naturale: il colore della pelle oppure la presunta passionalità o debolezza fisica femminile… – e rivendicandola con orgoglio e persino in maniera provocatoria, fino addirittura a spingersi ai limiti del «separatismo» di gruppo. 

Nonostante queste intenzioni progressive, è chiaro per Losurdo il rischio insito in questa dinamica: il rischio di de-storicizzare, irrigidire e persino naturalizzare queste differenze, confermando come un dato di fatto l’opposizione bianco/nero, o uomo/donna, e ribaltandone semplicemente le gerarchie di valore interne rispetto agli stereotipi precedentemente dominanti. Così che, ad esempio, se il patriarcato opponeva alla razionalità maschile l’emotività femminile (come il suprematismo bianco opponeva la razionalità occidentale alla istintualità dell’uomo nero), il femminismo differenzialista finisce per far propria questa medesima configurazione in chiave ribaltata; e identifica ora nell’«umanità maschile» il «pensiero calcolante» e la «volontà di potenza», responsabile di tutti gli orrori della storia e di tutte le guerre, di contro a un’identità o a un’essenza del femminile la cui definizione – parimenti eternizzata e irenizzata come era già avvenuto per la négritude – viene eretta a improbabile emblema della pace e dell’armonia universale (come se le donne fossero di per sé immuni dall’esercizio della violenza e non fossero state esse stesse coinvolte in prima persona o come entusiaste sostenitrici nella storia del colonialismo o delle guerre o dello sfruttamento di classe). Assistiamo così a uno slittamento da una negazione determinata che si concentra sulla storia, sulla cultura e sul «conflitto tra società maschilista e donne» – un conflitto che è anzitutto il rispecchiamento di una precisa divisione sociale del lavoro in via di superamento o già divenuta obsoleta nello sviluppo delle società industriali – a una negazione indeterminata e assoluta; una negazione astratta che comporta un’immediata contrapposizione tra «uomo e donna» in quanto tali e addirittura tra una presunta «essenza o natura maschile (il disvalore)» e una non meno presunta «essenza e natura femminile (il valore)».

È chiaro, inoltre, come la contestazione femminista della «categoria di uomo in quanto tale» – di «uomo nella sua universalità», poiché essa «avrebbe il grave torto di ignorare la differenza di genere, di rimuovere il fatto che l’umanità è essenzialmente costituita di uomini e donne» –, nella misura in cui si riferisce non a un’insufficiente concezione determinata dell’universalità (l’uomo come sinonimo di maschio e dunque l’uomo come termine inadeguato a indicare il genere umano nella sua interezza e unità tendenziale) ma si scaglia contro l’universalità in quanto tale, ritenendola sempre e comunque colpevole, conduca a un nominalismo radicale. Il quale è però epistemologicamente fallace e «filosoficamente ingenuo»: «differenza e uguaglianza si implicano reciprocamente», infatti, così che «il cogliere l’uno e l’altra comporta pur sempre un processo di astrazione» dal quale nemmeno le femministe differenzialiste possono esimersi, per quanto siano attente alla dimensione della pluralità o della singolarità, nella misura in cui colgono «nelle donne caratteristiche comuni» dovendo al tempo stesso «fare astrazione da tutte le altre differenze (di classe, di razza, di età…)».

In queste condizioni di «estrema particolarizzazione delle diverse identità» e con una loro «definizione in termini tendenzialmente naturalistici», ecco che «l’idea di eguaglianza» diventa priva di senso ma priva di senso diventa la stessa «idea di libertà» intesa come libertà moderna, e cioè come quella «uguale libertas» che supera le libertates particolari premoderne. E priva di senso diventa, soprattutto, la costruzione di un’idea di soggetto umano dotato di «uguale dignità, indipendentemente dal censo, dalla razza, dal sesso», ovverosia l’idea stessa di democrazia moderna come superamento di queste gigantesche discriminazioni storiche. Priva di senso, in una parola, diventa l’idea di una possibile «unificazione del genere umano» e la «lotta per realizzare concretamente l’uomo» – l’essere umano, possiamo dire meglio oggi – «in quanto ente generico (Gattungswesen)». 

 

§3. Crisi dell’idea di eguaglianza e crisi della democrazia moderna 

Non c’è dubbio che questo atteggiamento abbia molto a che fare con la crisi della sinistra: come abbiamo già visto, proprio «questo nominalismo estremo», suscettibile di modificarsi e moltiplicarsi all’infinito (come l’attuale conflitto tra Gender Theory e femminismo differenzialista attesta), «costituisce il pendant epistemologico dell’incapacità politica di costruire un progetto generale di emancipazione» e cioè la premessa teorica della frantumazione di ciò che così faticosamente era stato unito in due secoli di lotta di classe. Tuttavia, poco utile sarebbe, per Losurdo, accentuare ancora di più questa frantumazione rafforzando la contrapposizione che la innerva sino a giungere a un muro contro muro, nell’illusione di risolvere la contraddizione a favore di una delle due parti; mentre molto più utile, sul piano politico come su quello epistemologico, è il tentativo di trovare un comune terreno di intesa e una nuova forma di unità possibile.

Per un filosofo e storico che considerava la dialettica come lo sforzo di comprendere la totalità e dunque di trovare un elemento di verità anche nelle ragioni degli altri – un filosofo e storico che non ha mai contrapposto struttura e sovrastruttura, i diritti economici e sociali ai diritti individuali e civili, la libertas maior alla libertas minor, mostrando semmai il nesso inscindibile tra i due poli – si tratta perciò di capire le ragioni di queste dinamiche a partire dalla logica immanente del conflitto politicosociale (che è in primo luogo un conflitto per il riconoscimento) e dal suo insediamento storico determinato. Prendendo atto che «storicamente, non c’è movimento di emancipazione che abbia conseguito la sua maturità senza passare attraverso una fase “infantile”», e cioè una fase «di estremismo e unilateralità»; così che anche l’estremismo differenzialista e il «contro-sessismo» – e oggi il gender fluid, possiamo aggiungere noi –, e cioè la particolarità e la rivendicazione delle peculiarità, «hanno una parziale legittimità storica», la quale va riconosciuta e alla quale non sarebbe giusto negare una altrettanto parziale dimensione progressiva. Al tempo stesso, però, si tratta per queste posizioni di uscire prima o poi da questa fase estremistica. E di capire che l’universalità non è affatto necessariamente sinonimo di dominio, perché essa – rettamente intesa e praticata – richiede semmai il particolare ed è effettivamente e compiutamente universale proprio in quanto si dimostra capace di riconoscere il particolare e di comprenderlo.

È esattamente questo, in fondo, ciò a cui, pur nella sua ingenuità nominalistica e pur in maniera inconsapevole, lo stesso differenzialismo o separatismo aspira. Per il materialismo storico, spiega Losurdo, «l’ideologia è il conferimento della forma dell’universalità a contenuti e interessi empirici determinati che ne risultano in tal modo trasfigurati». E però, continua, questo non significa negare l'universalità in quanto tale, dato che la «denuncia della pseudo-universalità», essendo una denuncia «del potenziamento arbitrario e surrettizio a universale di un particolare determinato e spesso vizioso», non può che richiamarsi a propria volta «alla categoria di universalità» e cioè di una universalità più piena. Ecco che la protesta per il misconoscimento di un individuo o di un gruppo – i neri, le donne, i gruppi LGBTQ… – è al tempo stesso la richiesta di un riconoscimento della eguale dignità umana e cioè una richiesta di inclusione, per quanto spesso inconsapevole. Ed è per questo che 

A ben guardare, i diversi movimenti che si ispirano alla cultura della differenza tuonano contro l’astrattezza della categoria di uomo in quanto tale ma criticano in realtà l’eccessiva “concretezza” di cui risultano storicamente cariche le Dichiarazioni dei diritti, le quali, nel definire il soggetto titolare di diritti inalienabili, non hanno saputo condurre sino in fondo l’astrazione dalla razza, dal censo e dal sesso; quei movimenti credono di celebrare la differenza, di fatto fanno appello in primo luogo all’universalità, un’universalità cui però giustamente richiedono che sia in grado di sussumere le differenze. 

In altre parole, la strada per l’estensione dei diritti e del riconoscimento non può fuoriuscire dal terreno dell’universalità nemmeno volendolo: «non è possibile mettere in discussione una determinata ideologia universalistica senza far ricorso a una meta-universalità, a un’universalità più ricca e più vera». Ed è una fortuna che sia così, perché l’alternativa sarebbe la dissoluzione definitiva di ogni progettualità emancipativa e, ancor prima, la dissoluzione nominalistica dei concetti e del linguaggio, con la conseguente impossibilità di ogni comunicazione e dunque di ogni condivisione di un percorso umano prima ancora che politico.

È un estremo rischio che si accompagna a quello della subalternità ideologica, nella quale anche il femminismo differenzialista rischia suo malgrado di incorrere. Il giornale che ha raccolto le parole di Cavarero, “Il Foglio”, non è una testata come le altre ma, come si diceva, un’agenzia ideologica che è al tempo stesso neoliberista e conservatrice. E cioè fautrice di un progetto che promuove la più sfrenata libertà del mercato in misura non minore di come la promuovano i settori liberal e i liberaldemocratici; ma che al tempo stesso si divide da questi ultimi sul terreno culturale e conduce una battaglia contro la cosiddetta mentalità woke perché è interessata ad accompagnare e puntellare questo neoliberalismo estremo (e i sacrifici che esso comporta per i ceti medi) con massicce dosi di rassicurazione tradizionalista. “Il Foglio”, per capirci, è un giornale nel quale solo pochi anni fa è stato possibile trovare articoli intitolati Perché la laurea delle donne è una causa del declino demografico, oppure Le donne migliori sono quelle che non pensano9. Se persino il raffinato femminismo differenzialista, con la sua storia di lotte e i suoi quarti di nobiltà accademici, finisce per lasciar incorporare il proprio discorso nella strategia egemonica di chi vorrebbe vietare l’aborto – e se finisce persino per invocare la castrazione nei confronti del maschio stupratore, come potrebbe fare un qualsiasi esponente dell’estrema destra10 – come stupirsi per la deriva socialsciovinista di quei settori un tempo legati alla sinistra di classe che di fronte ai fenomeni migratori parlano oggi di “esercito industriale di riserva” e si associano apertamente alla richiesta sedicente “sovranista” di chiusura delle frontiere e di protezione del lavoro bianco dall’invasione e dalla “sostituzione etnica”?

È la conferma del fatto che la confusione culturale e ideologica postmoderna che ha investito le diverse tradizioni filosofico-politiche è molto profonda. E che, se non saremo capaci di ricostruire un minimo di orientamento concettuale, oltre che di organizzazione politica, sarà molto difficile diradarla.


Stefano G. Azzarà, Università di Urbino, giuseppe.azzara@uniurb.it

BIBLIOGRAFIA 
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Tronti M. (1966), Operai e capitale, Torino: Einaudi.

Note
1 Tavella (2023).
2 Autrice di un libro fondamentale per il femminismo differenzialista pubblicato a suo tempo dalla casa editrice del PCI, Muraro (1991), la filosofa ha fatto uscire qualche anno fa, presso una casa editrice cattolica, un testo dal titolo assai indicativo che, dalla denuncia della mercificazione del corpo femminile a quella del nesso desiderio-capitalismo, è assai vicino alle posizioni di Cavarero: Muraro (2016).
3 Ricordo a questo proposito un testo fondamentale sul nietzscheanesimo di sinistra: Rehman (2021).
4 Il riferimento è alla teoria operaista proposta da Tronti (1966), nel quale viene rivendicata la parzialità assoluta e irriducibile della classe operaia di contro al marxismo “sintetico” e universalistico di ispirazione hegeliana. Da queste posizioni, poi profondamente rielaborate dallo stesso Tronti, sarebbero partiti i percorsi, a loro volta diversi, di Massimo Cacciari e Toni Negri.
5 Lonzi (1977, 23): «La differenza è un principio esistenziale che riguarda i modi dell’essere umano, la peculiarità delle sue esperienze, delle sue finalità, delle sue aperture, del suo senso dell’esistenza in una situazione data e nella situazione che vuole darsi. Quella tra donna e uomo è la differenza di base dell’umanità […] Il mondo dell’uguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell’unidimensionale; il mondo della differenza è il mondo dove il terrorismo getta le armi e la sopraffazione cede al rispetto della varietà e della molteplicità della vita. L’uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l’inferiorità della donna» (20-21); «Il rapporto hegeliano servo-padrone è un rapporto interno al mondo umano maschile, e ad esso si attaglia la dialettica nei termini esattamente dedotti dai presupposti della presa del potere».
6 «Ma succede che, dal mondo inferiore, delle forze si sollevino minacciando la comunità, forze divenute ostili perché private del diritto di espandersi in piena luce. Minacciano di metterla sottosopra. Rifiutando d’essere la terra inconscia nutrice della natura, la femminilità rivendica allora per se stessa il diritto al piacere, al godere, e perfino a una attività effettiva; e così facendo tradisce il suo destino universale. Ma, peggio ancora, pervertisce la proprietà dello stato facendosi beffe del cittadino adulto occupato soltanto dal pensiero dell’universale»: Irigaray (1975, 209).
Cfr. Cavarero e altre (1987). Sulla comunità filosofica Diotima v. Diotima (s.d.); sull’esperienza della storica Libreria delle donne di Milano – ma anche per farsi un’idea delle rotture e delle divisioni del movimento femminista in Italia – v. il breve ma significativamente polemico testo Libreria delle donne (2017).
8 Losurdo (1998, 55-65).
9 Langone (2016a); Lancone (2016b).
10 Mi riferisco alla presa di posizione della regista teatrale Emma Dante, celebrata a sinistra per la sua raffinatezza e originalità espressiva e per la sua capacità di mettere in scena il punto di vista femminile, dopo un tragico delitto di stupro di gruppo avvenuto a Palermo: Dante (2023).

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