Questo articolo è stato scritto da Biagio de Giovanni nell’agosto del 1989. Pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino. Suscitò enormi polemiche. Ve lo riproponiamo senza cambiare neanche una virgola. E di seguito pubblichiamo un commento di de Giovanni scritto oggi.
A venticinque anni dalla morte di Togliatti, il “modello” di Stalin si va dissolvendo dappertutto, e dove ciò non accade esso è conservato al prezzo di una repressione sempre più opaca, o addirittura sanguinosa, come ha mostrato la recente tragedia di Cina. Stiamo assistendo, soprattutto nell’ Est europeo, al dissolvimento di quello che una volta si chiamava “sistema socialista” e alla faticosa e differenziata transizione verso forme nuove e imprevedibili di organizzazione statale che rimetteranno in moto la storia e la coscienza di milioni di uomini e riaccenderanno domande e proposte di governo anche molto lontane fra loro.
Si riaprono processi che si possono definire di pluralismo politico. Che tutto ciò abbia avuto la spinta propulsiva dalI’Urss di Gorbaciov non è certo cosa poco significativa storicamente, ma non va mai dimenticato che la sua «riforma» è nata nel quadro di una crisi gravissima del sistema politico ed economico, e che si tratta in qualche modo di una risposta estrema ad una crisi estrema, di un tentativo di rimettere in moto un sistema colpito a morte da un totalitarismo pervasivo e senza sbocchi. Insomma il comunismo reale sta concludendo la sua storia, quella inscritta, nella sua vicenda profonda, nelle sue scelte, nella storia della sua organizzazione internazionale.
Tornando oggi a riflettere su Togliatti, è necessario osservare che il suo pensiero e la sua prassi politica sono profondamente coinvolti in tutta questa vicenda. Se non si assumesse questa posizione netta si farebbe anzitutto torto alla battaglia che egli combatté, non si riconoscerebbero le situazioni e i problemi fra i quali egli concretamente operò. Di là dalla complessità della sua ricerca, Togliatti è stato anzitutto uomo dell’Internazionale comunista. Egli ha creduto nella costruzione progressiva di un «campo» e vi ha partecipato attivamente, ha creduto – e ha lavorato a costruire delle idee – nella sua superiorità e nella vittoria finale del mondo nato dalla rivoluzione del 1917, ha contribuito a costruire internazionalmente l’unità dove essa veniva meno o faceva difetto, la sua passione politica era sorretta dalla persuasione che l’antagonismo radicale capitalismo-comunismo tendeva a risolversi con la sconfitta epocale del primo.
E ciò lo condusse ad una sorta di universale giustificazione di tutto ciò che costituì – dentro e fuori i confini dell’Urss – il terreno di una politica concreta. E questa politica fu per tanti anni quella di Stalin. Da qui un tratto essenziale della sua direzione internazionale: la ricerca costante di un rapporto di ferro con l’Urss e con le scelte della maggioranza del partito sovietico – sin dal 1926 e in diretta polemica con Gramsci – che rimase ferma anche dopo la morte di Stalin se si pensa al 1956 ungherese. Curioso a dirsi per chi è passato alla storia come un esempio estremo di realismo politico (il Toghatti totus politicus di cui parlava Benedetto Croce), ma si riceve piuttosto l’impressione che quel suo effettivo realismo fosse guidato da una coltissima utopia che immaginava il «male» potersi tramutare in «bene» se sorretto da una compatta finalità, da un complesso sistema di fini che erano poi quelli della giustizia e dell’ uguaglianza, della fine della divisione in classi, dell’emancipazione umana di là da quella politica.
Non dunque un esecutore di apparato (come ce ne furono tanti nella storia della Terza internazionale) ma un sistema di persuasioni intellettuali che lo condusse nel quadro di quelle scelte «di ferro» a guardare con animo ben diversamente aperto alla storia delle idee e delle società e degli uomini. Perciò egli fu un grande dirigente e si distinse fra tanti quando rimetteva gli abiti consumati dal fango per rivestire quelli «curiali», come avveniva al Machiavelli scrittore: allora il campo di quelle scelte aspre, irreversibili, perfino sanguinose, si riempiva di contenuti e di analisi complesse e tutto il terreno della transizione si complicava ben al di là del rozzo stalinismo, che coinvolse anche lui, per pensare sulla democrazia ,sulle grandi idee che muovono il mondo, sulle forze organizzate guardate nel loro reale movimento, e persino sui principi religiosi e sulla fede.
E per quest’ampiezza di vedute egli costruì un partito che da allora è ben piantato nella storia d’Italia, e costruì entusiasmo, passione, fiducia, e individuò almeno alcuni tratti di un partito riformatore che non aveva precedenti nella storia nazionale dall’Unità d’Italia in poi.
Un «doppio» Togliatti? Sì in un certo senso è così. Ecco perché su di lui non valgono ragionamenti strumentali ma ci si deve sempre impegnare in un giudizio serio e rispettoso come rispettosa e seria fu la discussione che con lui ebbero uomini grandi della cultura laica, che pure gli furono così lontani. Ecco perché egli è parte essenziale della storia intellettuale e politica del nostro paese.
Ma la sua persona e la sua stessa cultura non possono non rimanere coinvolte nella fine di un mondo. Egli lavorò nella persuasione dell’espansione progressiva di un “campo” che oggi si va dissolvendo nella variegata differenza di complesse e diverse esperienze politiche. Il “comunismo reale” è giunto al termine di una storia e con esso tanta parte della cultura e dei protagonisti che lo produssero. Togliatti è dunque sicuramente fra questi e il giudizio politico deve fermarsi su questo passaggio essenziale. Per questa ragione è giusto dire che stiamo oggi, come partito, assai al di là della sua eredità e che dobbiamo compiere ogni sforzo, come stiamo compiendo – per ritrovare la freschezza di una visione critica oltre il grave e pesante fardello che portiamo sulle spalle.
Certo, la storia e gli uomini vanno capiti e dunque anche «giustificati»: ma attenzione a non cadere nella trappola ovvia dello storicismo, per cui tutto quello che è stato ha avuto una ragione per essere; in quest’orizzonte potremmo incominciare a snocciolare la geremiade della necessità. Bisogna guardarsi da un simile atteggiamento. Usiamo invece l’arma della critica e dove è necessario il rigetto: e noi rigettiamo tutto ciò che è coinvolto nell’eredità di Stalin, non con spirito difensivo e rinunciatario ma come atto di responsabilità etico-politica dovuto a noi stessi e alla società italiana.
Oggi si apre un discorso nuovo che guarda con visione franca e leale a una nuova Europa con nuovi confini con una nuova sinistra che costruisce i suoi nuovi ideali di tolleranza, di democrazia, di pace. Guardare in avanti è la condizione per vincere l’aspra battaglia che ci attende.
Quell’articolo del 20 agosto che fece infuriare il partito
L’Unità ripubblica un vecchio articolo che scrissi nell’agosto del 1989 in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Palmiro Togliatti. Confesso che lo rivedo sul giornale con qualche emozione, con quel titolo, in prima pagina, “C’era una volta Togliatti e il comunismo reale”, che ebbe, sul Pci, l’effetto di una bomba improvvisa, non prevista. Ero membro della direzione nazionale del partito, ma in quanto “intellettuale” contavo come il due di coppe nella definizione della linea politica.
Quando ebbi, dalla direzione dell’Unità – impersonata da Renzo Foa, Piero Sansonetti, Giancarlo Bosetti – l’incarico di scrivere l’articolo, pensai che fosse giunto il momento di parlar chiaro. Togliatti era stato una grande figura politica, aveva contribuito con il partito comunista a dare la Costituzione all’Italia, ma il mondo che lui rappresentava, in un legame mai negato o indebolito con l’Unione sovietica, scricchiolava. Per me era un mondo che portava in sé il segno della fine, e questa stava per diventare esplicita, dichiarata, e a me capitò di dirlo poco prima che avvenisse.
Il comunismo al governo dal 1917 non era riuscito a modificare in niente la durezza e violenza del “potere orientale”, incapace da sempre, in Russia, di trovare la mediazione tra potere e libertà. L’Europa orientale era, dalla fine della guerra, sotto il tallone di un dispotismo senza speranze. Il 1917, pur avendo contribuito a cambiare il mondo, aveva fallito il proprio compito liberatore, una idea che aveva riempito la prima metà del ‘900 e la stessa cultura occidentale. Nel novembre 1989 cadde il muro di Berlino; qualche anno dopo avvenne lo scioglimento dell’Unione sovietica.
L’articolo di agosto aveva avuto un effetto dirompente: la sera fu la seconda notizia del Tg2 della Rai, che lo mostrò in foto nella trasmissione, e poi, nei giorni successivi comparve una valanga di articoli, qualche centinaio – perfino il Washington Post ne dette notizia come inizio di una crisi -, molti dall’interno del partito, o aspramente critici o disposti anche a discutere ma da una posizione opposta. Mi sentii molto solo; alla Direzione riunita a settembre trovai grande freddezza nei compagni che incontravo, e Alessandro Natta, dotto segretario del partito, che sapeva parlar latino, disse all’inizio della sua relazione: “I compagni devono stare attenti d’estate a difendersi dai colpi di sole”. Ero io quello colpito. E poche settimane dopo, in occasione del rinnovo della direzione, ne fui escluso.
Ma la bomba era esplosa, e gli eventi che velocemente seguirono furono clamorosa conferma che la morte del 1917 era avvenuta: il comunismo reale non costituiva più il destino della storia per la liberazione dell’umanità, ma un potere che non aveva trovato e non poteva trovare la mediazione con la libertà, come mostrarono, dopo lo scioglimento dell’Urss, i tentativi falliti di democratizzazione di Gorbaciov e poi di El’tsin. Poi comparve, era l’anno 1999, un vecchio capo del KgB che si chiamava Vladimir Putin, e divenne padrone della Russia. Non erede diretto del 1917, anzi, pure critico di Lenin, ma figlio della Santa e grande Russia degli zar, il “potere orientale” nella sua durezza e crudeltà: l’opposizione in carcere, qualche assassinio in giro di giornalisti troppo coraggiosi
Che aggiungere? Il titolo che la direzione dell’Unità – in assenza del direttore Massimo D’Alema che navigava in barca – scelse per pubblicare il mio articolo, ne sottolineava al massimo l’aspetto critico, ma la verità era dietro l’angolo: il 1917 era fallito, la sua volontà di liberazione si era tramutata nel peggiore dei dispotismi dovunque aveva portato la propria bandiera. Togliatti, grande figura politica, ma prigioniero di una scelta che giudicava irreversibile, usciva di scena con quel fallimento.
La storia, in certi casi, è il giudice definitivo, e la fine stanca e drammatica del 1917 riapriva la scena su un nuovo mondo dove tutto rapidamente mutava. La rivoluzione d’ottobre un ricordo confinato nei libri di storia. La storia riprendeva il suo corso, liberata dall’idea di un destino, di una filosofia della storia che avrebbe dovuto segnare le tappe, scientificamente dimostrate, di una liberazione dell’umanità.
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